di Giuseppe Strappa
Architetture di mare e di costa
in “La Repubblica” del 21/8/1991.
Nel gennaio del 1771, quando il maggiore dell’esercito borbonico Antonio Winspeare stese una burocratica relazione sullo stato dell’isola all’Intendente dei Beni Reali , è probabile che avesse ancora in mente quella prima impressione di disperata selvatichezza , di desolata solitudine , che lo aveva colpito allo sbarco nell’approdo di Ponza. Davanti alla prua del brigantino della marina di sua maestà Ferdinando IV gli era apparso un universo pietroso e inospitale,di impressionante nudità, dove poche ficaie fornivano gli unici alberi esistenti e la lotta tra la terra ostile e i pochi coloni trapiantati di recente sembrava si stesse risolvendo a favore della prima. Arrivati dalla civilissima Ischia per addomesticare la natura selvaggia dell’isola, i coloni erano stati trasformati in selvaggi essi stessi: persi tra le rocce, rifugiati in caverne , coltivavano terreni battuti dai venti , insidiati dalle piogge. Tanto contesi dai rovi, che il maggiore napoletano annotava diligentemente come fosse impossibile distinguere dal mare le terre fruttifere da quelle deserte. Suoli pure fertili, che producevano, tuttavia, solo un’uva che dava vino cattivo, impossibile da conservare oltre febbraio.
Un posto maledetto . Nel quale comunque, osservava deciso Winspeare , non si doveva disperare di stabilire un insediamento civile. Ma occorreva un piano, subito. Un piano semplice e lucido, capace di dare ordine alle opere da eseguire , perchè tutto “si potesse esattamente e regolarmente ordinare.” Un piano pratico, dove il deflusso regolare delle acque assumesse la stessa importanza dell’architettura della chiesa, dell’ubicazione degli edifici pubblici.
Winspeare doveva essere un funzionario duro. Fece sbarcare i trecento galeotti destinati ai lavori e li rinchiuse sbrigativamente nella grotta oggi detta “Bagno degli Scotti” e nella vecchia cisterna romana ; dispose rigidi ordini per i soldati di guarnigione, nel numero di uno per ogni forzato.
Chissà come questi uomini pronunciavano, in dialetto napoletano, il suo impervio nome . Non è dato sapere se, come per Van Wittel- Vanvitelli, esso fosse italianizzato nell’uso, o se, come è probabile, esso venisse crudelmente storpiato , come un’imprecazione. Del resto il maggiore godeva di una fama ben diversa da quella del vecchio architetto: il suo ruolo di ingegnere militare lo costringeva entro i limiti di una pratica consueta e senza gloria, consolidata dall’uso e codificata dai manuali secondo regole che , sull’esempio francese, in quell’epoca venivano seguite negli eserciti di tutta Europa. Un militare fidato e accorto, un ingegnere capace cui affidare incarichi difficili in Campania o nelle Calabrie devastate dal terremoto, ma anche un uomo imbrigliato dalle piccole e grandi faccende quotidiane. Eppure del Vanvitelli forse condivideva una qualche riposta capacità di operare grandi sintesi. Ed è possibile che covasse, anche, qualche segreta propensione per le architetture civili di largo respiro , non estranea a quel clima di ottimismo, illuminato e riformatore ,instaurato nell’amministrazione napoletana dal grande ministro Tanucci , che produceva straordinari progetti di città “ideali” e insediamenti industriali modello come San Leucio.
Winspeare dispiegò nel piano per Ponza una tattica di burocratica prudenza e, insieme, una strategia astuta e lungimirante.
Il suo primo disegno prende atto della desolazione senza storia del luogo e indica le prime teste di ponte, capisaldi del mondo civile. Una civiltà militare e borbonica, s’intende : i magazzini lungo il molo, l’abitazione del Governatore (ormai scomparsa) il Nuovo Casamento (oggi Palazzo comunale), soprattutto la torre del faro, indicata nel disegno con l’importanza che la funzione richiedeva. Ma anche la chiesa a pianta centrale dedicata alla SS. Trinità e il convento che ospiterà i cappuccini scomodi della terraferma (apostati, “effeminati” o quelli che “non soffrono alcuna riprensione”). Edifici regolarissimi che testimoniavano attraverso l’ossessione dell’angolo retto o le rare eccezioni della circonferenza , dell’esagono , come un nuovo ordine artificiale stesse facendo irruzione nell’universo selvaggio dell’isola .
Non serviva a Winspeare un’immaginazione brillante, ma il supporto di una geometria tenace , un tracciato regolatore di chiarissima evidenza. I lavori dovettero proseguire rapidamente: per usare un ossimoro solo apparente, con efficienza borbonica .
E poichè la fondazione di una nuova città è sempre un evento straordinario , una fecondazione che ha bisogno di gesti rituali, una volta affermata la presenza sull’isola il disegno di Winspeare si fece in qualche modo solenne, una geometria dove la ripetizione quasi sorda degli elementi seriali (la successione regolarissima di abitazioni, botteghe, magazzini) doveva propiziare la lettura della gerarchia degli edifici speciali destinati al Culto e all’Autorità. Il completamento dell’opera avvenne infatti attraverso la grande quinta edilizia di corso Principe di Napoli eseguita dall’aiutante Francesco Carpi sulle indicazioni del maggiore che continuava a dirigere le opere dalla sua casa di Portici . Quinta antinaturalistica, che sembra addossata al terreno ed è invece del tutto indipendente: si veda la sua sezione, di “navale” coerenza, con il passaggio in quota della via Corridoio che sembra anticipare in qualche modo li percorsi interni degli organismi lecorbusieriani.
Nasce così un microcosmo autonomo, perso nel vasto mare. Completo , razionale, assolutamente artificiale come un bastimento. Ponza non è solo moderna perchè ha un ricordo recente, vitale e quasi autobiografico del proprio passato : lo è anche perchè, piccolo miracolo della storia, è un luogo di architettura attualissima, di grande unità compositiva, con soluzioni quali il doppio percorso (sulla banchina per i traffici e sulle coperture dei magazzini per gli abitanti) che non solo interpretano felicemente i principi della città illuminista, ma anticipano ricerche svolte all’inizio del nostro secolo. Credo che nulla sia più falso del luogo comune che vuole questo singolare insediamento classificato tra gli esempi più tipici del pittoresco mediterraneo. E’ vero il contrario. La sua architettura è duramente logica, la sua immagine vagamente scontrosa. Se fosse stata costruita in un luogo appena meno solare potrebbe sembrare addirittura cupa, introdotta al visitatore, per giunta, dal piccolo, bellissimo cimitero, vera “città dei morti” posto dai fondatori a guardia dell’insenatura del porto ad indicare l’avvenuto radicamento nell’isola, la loro orgogliosa volontà di memoria.
Solo il tempo ha addolcito la ruvida macchina urbana della Ponza borbonica, riportandola ad una dimensione più cordiale: la geometria implacabile della struttura originale si è diluita nei tagli minuti delle cellule, nelle piccole aggiunte, nelle modifiche estemporanee e diseguali . Finendo per obbedire a quel principio compositivo, ancora una volta modernissimo , che vuole la complessità dei dettagli (il caos dei particolari) inserita in un ordine generale comprensibile. In quel segno vasto e fertile lasciato in eredità all’isola, come un dono prezioso, dall’onesto burocrate Winspeare.