CANCELLATE / CANCELLAZIONI

di Giuseppe Strappa
in «Groma» 4/5,  marzo 1999

Poche grandi città in Europa possono vantare un tessuto storico ancora fortemente organico come Roma, dove un rapporto esemplarmente organico lega gli spazi pubblici della città al costruito e alle memorie dell’Antico. Qui la gerarchia dei percorsi conferma, ancora, come il processo formativo dell’edilizia di base sia stato originato da trasformazioni continue basate su aggregazioni e rifusioni, mentre gli edifici speciali dimostrano, evidente, la loro formazione per “specializzazione”, appunto, dei tipi abitativi: gli impianti delle grandi architetture (di  chiese,  conventi,  palazzi), individuano (rendono individuale, unico ed irripetibile) tipi basati sulla trasformazione dei tessuti, dei quali “introiettano” la nozione di percorso e aggregazione, oltre che il modulo dimensionale. Basta osservare una pianta dei piani terreni di una parte qualsiasi della Roma entro le mura, spesso perfino di quella ottocentesca, per comprendere come l’edilizia monumentale, le strutture religiose, i grandi servizi pubblici, l’edilizia di base  stabiliscano tra loro rapporti di necessità consolidatisi nei secoli. Un rapporto di intenso che rende ancora familiari la chiesa barocca, il tempio classico, perfino il frammento antico, rispetto al quale si è assestata nel tempo una forma consolidata di utilizzazione originata dal moto che nella città si svolge, nel legame unitario tra percorsi interni ed esterni agli edifici.
Per questa ragione occorre valutare con molta attenzione il complesso processo in atto di progressiva segregazione, poco appariscente ma continuo, che sta modificando radicalmente il rapporto tra monumenti e città, dove il monumento viene inteso non come parte viva di un organismo urbano, ma “bene culturale” di valore autonomo, dove è peraltro  sintomatica l’evidente deformazione del valore storico dei termini “patrimonio” e “cultura”.
Andrebbe infatti considerato come il legame organico tra tessuto ed edifico costituisca, esso stesso, un patrimonio prezioso, sotto alcuni aspetti forse il più prezioso, che la città moderna ha ereditato da quella antica.
Questo processo costituisce, peraltro, il segno evidente di come davvero si stia trasformando la cultura della città: sotto l’insegna ormai onnicomprensiva, e quindi labile e vaga, della Tutela, si chiudono spazi porticati, aree  protette,  luoghi cordiali “minacciati” che hanno  il torto di raccogliere con generosità eccessiva, in alcune ore del giorno, barboni, pazzi, ubriachi: naufraghi portati a riva da una città divenuta metropoli ostile e sottilmente violenta; un’umanità sconfitta e imbarazzante che la città imbarbarita sembra voler  stanare. In questo modo si ritiene di superare il singolare vuoto di competenze nella manutenzione delle aree di pertinenza dei monumenti. Si noti, peraltro, come vengano invece tollerate tanto la scia di immondizie  lasciata dalla folla di turisti che senza sosta si abbatte su palazzi e rovine, quanto le adunate giovanili che ogni sera trasformano luoghi di grande storia e poesia come S. Maria della Pace o piazza Campo de’ Fiori in  rumorosi bivacchi: in questo caso il degrado viene ritenuto beneficamente inevitabile, opportunamente salutare, alimentando un commercio ormai intoccabile. Un problema reale (di igiene, di assistenza sociale, di ordine pubblico) che qualsiasi società civile risolverebbe nelle sedi opportune, sta dando luogo, a Roma, ad un incontrollato processo di sottrazione: scompare così una civiltà di percorsi che ha dato vita ai tipi edilizi sui quali è basata la costruzione di gran parte delle città europee, e avanza la cultura dei recinti, delle segregazioni.
Un processo incontrollato, si diceva, perché originato da un problema particolare, se pur non marginale, quando il senso del recinto investe, al contrario,  il significato stesso della formazione dello spazio urbano: genera  una struttura di individuazione-esclusione, definisce margini, innesca propri  meccanismi funzionali e simbolici .
Meccanismi che si traducono in articolazioni dello spazio all’interno di un codice legato alla stratificazione delle forme attraverso le quali l’uomo ha sperimentato lo spazio separato e concluso, che nella città moderna ha dato origine a particolari strutture di esclusione, delle quali gli organismi cimiteriali e carcerari rappresentano l’esito più leggibile. Strutture che ora si vanno appropriando dei monumenti storici, dove non è più l’ingresso all’edificio (l’androne, il vestibolo) ad esprimere la rappresentazione del rito di passaggio tra interno ed esterno, ma lo spazio antistante o retrostante la recinzione, che diviene il luogo privilegiato della mediazione, dello scambio, del mercato, mentre si formano, all’esterno, le percorrenze periferiche che individuano linee dividenti che rendono immediatamente riconoscibili nuovi principi di centralità e perifericità. Che finiscono per organizzare un nuovo spazio, empirico ed inevitabilmente oppositivo rispetto alla città ereditata.
E’ esemplare il processo di segregazione dei resti del teatro di Marcello, iniziato con la trasformazione del rudere inserito come parte  viva del tessuto, occupato da botteghe, in resto archeologico parzialmente abitato, e concluso dalla formazione di una recinzione continua che lo ha trasformato  in monumento isolato ed estraneo al tessuto.
E l’isolamento  ottocentesco del monumento sembra venire riproposto come età dell’oro del culto moderno dei monumenti: da pochi anni a Palazzo Massimo alle Colonne è stato chiuso il porticato d’ingresso che costituiva lo spazio ospitale concesso dal principe alla città, a S. Maria della Pace è stato da tempo ingabbiato il pronao semicircolare e a S. Maria in Via un’ inutile e volgare gabbia avvolge la facciata. E’ stata perfino inspiegabilmente isolata, poco dopo il restauro, l’ appartata S. Maria della Quercia.
Ultimo, dolorosissimo sequestro annunciato, la chiusura del pronao del Pantheon, architettura  nata come spazio pubblico per eccellenza, raccordata com’era all’antistante  piazza porticata che in età adrianea circondava l’ingresso al monumento.  Uno spazio dilatato e permeabile, quasi onirico, che anche vive ancora in intensa, straordinaria simbiosi con  piazza della Rotonda.
Ma in realtà si progetta di recingere un po’ tutto, dai piccoli monumenti ai grandi spazi aperti del Campidoglio o del Colle Oppio, riscoprendo, anche, indizi di inferriate, tracce di cancellate del secolo scorso elevati alla nuova dignità di segni augurali del destino del luogo.
Un malinteso senso del termine “protezione” sta distruggendo così, progressivamente e senza eccessive proteste, gli ultimi segni della città a dimensione umana, attraverso un universo di recinti (grate, inferriate, cancelli) : sistemando una cancellata accanto all’altra in un centro urbano che ha la più alta concentrazione di monumenti al mondo, gli abitanti verranno progressivamente e quasi inavvertitamente relegati nei corridoi di un gigantesco museo di pietra grande quanto la città storica.
Cambia così il modo di leggere i monumenti: spazi quotidiani e intensamente vissuti migrano in un universo concluso e distante, meramente documentario, consegnati al limbo asettico delle visite guidate, all’astrazione della storia dell’arte, dove le strutture antiche,  finalmente liberate del peso della vita reale,  riposeranno in un tranquillizzante rigor mortis.

Poche grandi città in Europa possono vantare un tessuto storico ancora fortemente organico come Roma, dove un rapporto esemplarmente organico lega gli spazi pubblici della città al costruito e alle memorie dell’Antico. Qui la gerarchia dei percorsi conferma, ancora, come il processo formativo dell’edilizia di base sia stato originato da trasformazioni continue basate su aggregazioni e rifusioni, mentre gli edifici speciali dimostrano, evidente, la loro formazione per “specializzazione”, appunto, dei tipi abitativi: gli impianti delle grandi architetture (di  chiese,  conventi,  palazzi), individuano (rendono individuale, unico ed irripetibile) tipi basati sulla trasformazione dei tessuti, dei quali “introiettano” la nozione di percorso e aggregazione, oltre che il modulo dimensionale. Basta osservare una pianta dei piani terreni di una parte qualsiasi della Roma entro le mura, spesso perfino di quella ottocentesca, per comprendere come l’edilizia monumentale, le strutture religiose, i grandi servizi pubblici, l’edilizia di base  stabiliscano tra loro rapporti di necessità consolidatisi nei secoli. Un rapporto di intenso che rende ancora familiari la chiesa barocca, il tempio classico, perfino il frammento antico, rispetto al quale si è assestata nel tempo una forma consolidata di utilizzazione originata dal moto che nella città si svolge, nel legame unitario tra percorsi interni ed esterni agli edifici.
Per questa ragione occorre valutare con molta attenzione il complesso processo in atto di progressiva segregazione, poco appariscente ma continuo, che sta modificando radicalmente il rapporto tra monumenti e città, dove il monumento viene inteso non come parte viva di un organismo urbano, ma “bene culturale” di valore autonomo, dove è peraltro  sintomatica l’evidente deformazione del valore storico dei termini “patrimonio” e “cultura”.
Andrebbe infatti considerato come il legame organico tra tessuto ed edifico costituisca, esso stesso, un patrimonio prezioso, sotto alcuni aspetti forse il più prezioso, che la città moderna ha ereditato da quella antica.
Questo processo costituisce, peraltro, il segno evidente di come davvero si stia trasformando la cultura della città: sotto l’insegna ormai onnicomprensiva, e quindi labile e vaga, della Tutela, si chiudono spazi porticati, aree  protette,  luoghi cordiali “minacciati” che hanno  il torto di raccogliere con generosità eccessiva, in alcune ore del giorno, barboni, pazzi, ubriachi: naufraghi portati a riva da una città divenuta metropoli ostile e sottilmente violenta; un’umanità sconfitta e imbarazzante che la città imbarbarita sembra voler  stanare. In questo modo si ritiene di superare il singolare vuoto di competenze nella manutenzione delle aree di pertinenza dei monumenti. Si noti, peraltro, come vengano invece tollerate tanto la scia di immondizie  lasciata dalla folla di turisti che senza sosta si abbatte su palazzi e rovine, quanto le adunate giovanili che ogni sera trasformano luoghi di grande storia e poesia come S. Maria della Pace o piazza Campo de’ Fiori in  rumorosi bivacchi: in questo caso il degrado viene ritenuto beneficamente inevitabile, opportunamente salutare, alimentando un commercio ormai intoccabile. Un problema reale (di igiene, di assistenza sociale, di ordine pubblico) che qualsiasi società civile risolverebbe nelle sedi opportune, sta dando luogo, a Roma, ad un incontrollato processo di sottrazione: scompare così una civiltà di percorsi che ha dato vita ai tipi edilizi sui quali è basata la costruzione di gran parte delle città europee, e avanza la cultura dei recinti, delle segregazioni.
Un processo incontrollato, si diceva, perché originato da un problema particolare, se pur non marginale, quando il senso del recinto investe, al contrario,  il significato stesso della formazione dello spazio urbano: genera  una struttura di individuazione-esclusione, definisce margini, innesca propri  meccanismi funzionali e simbolici .
Meccanismi che si traducono in articolazioni dello spazio all’interno di un codice legato alla stratificazione delle forme attraverso le quali l’uomo ha sperimentato lo spazio separato e concluso, che nella città moderna ha dato origine a particolari strutture di esclusione, delle quali gli organismi cimiteriali e carcerari rappresentano l’esito più leggibile. Strutture che ora si vanno appropriando dei monumenti storici, dove non è più l’ingresso all’edificio (l’androne, il vestibolo) ad esprimere la rappresentazione del rito di passaggio tra interno ed esterno, ma lo spazio antistante o retrostante la recinzione, che diviene il luogo privilegiato della mediazione, dello scambio, del mercato, mentre si formano, all’esterno, le percorrenze periferiche che individuano linee dividenti che rendono immediatamente riconoscibili nuovi principi di centralità e perifericità. Che finiscono per organizzare un nuovo spazio, empirico ed inevitabilmente oppositivo rispetto alla città ereditata.
E’ esemplare il processo di segregazione dei resti del teatro di Marcello, iniziato con la trasformazione del rudere inserito come parte  viva del tessuto, occupato da botteghe, in resto archeologico parzialmente abitato, e concluso dalla formazione di una recinzione continua che lo ha trasformato  in monumento isolato ed estraneo al tessuto.
E l’isolamento  ottocentesco del monumento sembra venire riproposto come età dell’oro del culto moderno dei monumenti: da pochi anni a Palazzo Massimo alle Colonne è stato chiuso il porticato d’ingresso che costituiva lo spazio ospitale concesso dal principe alla città, a S. Maria della Pace è stato da tempo ingabbiato il pronao semicircolare e a S. Maria in Via un’ inutile e volgare gabbia avvolge la facciata. E’ stata perfino inspiegabilmente isolata, poco dopo il restauro, l’ appartata S. Maria della Quercia.
Ultimo, dolorosissimo sequestro annunciato, la chiusura del pronao del Pantheon, architettura  nata come spazio pubblico per eccellenza, raccordata com’era all’antistante  piazza porticata che in età adrianea circondava l’ingresso al monumento.  Uno spazio dilatato e permeabile, quasi onirico, che anche vive ancora in intensa, straordinaria simbiosi con  piazza della Rotonda.
Ma in realtà si progetta di recingere un po’ tutto, dai piccoli monumenti ai grandi spazi aperti del Campidoglio o del Colle Oppio, riscoprendo, anche, indizi di inferriate, tracce di cancellate del secolo scorso elevati alla nuova dignità di segni augurali del destino del luogo.
Un malinteso senso del termine “protezione” sta distruggendo così, progressivamente e senza eccessive proteste, gli ultimi segni della città a dimensione umana, attraverso un universo di recinti (grate, inferriate, cancelli) : sistemando una cancellata accanto all’altra in un centro urbano che ha la più alta concentrazione di monumenti al mondo, gli abitanti verranno progressivamente e quasi inavvertitamente relegati nei corridoi di un gigantesco museo di pietra grande quanto la città storica.
Cambia così il modo di leggere i monumenti: spazi quotidiani e intensamente vissuti migrano in un universo concluso e distante, meramente documentario, consegnati al limbo asettico delle visite guidate, all’astrazione della storia dell’arte, dove le strutture antiche,  finalmente liberate del peso della vita reale,  riposeranno in un tranquillizzante rigor mortis.

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