Il ponte perduto

di Giuseppe Strappa

La storia infinita dell'”arco di ferro” , in “La Repubblica” del 14 settembre 1992.

Quando nel1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di ponte Sisto, forse non fu nemmeno sfiorato dal sospetto che stava operando nel corpo vivo della storia. Preso nel vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, celava probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come altri tecnici ed amministratori, peraltro, un pregiudizio ingenuamente livoroso quanto incoffessabile: che molti dei monumenti antichi non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio, fossero semplicemente ormai inadatti , per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente del traffico . E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.

Tanto che Antonio Canevari, rappresentante della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.

Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali , con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro poggiata sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di Trastevere.

Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui banale rigore viene concluso dalla decorazione di un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica , disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.

Il progetto fu senz’altro approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’ opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace della costruzione di un nuovo ponte nel rione Regola. Le nuove opere furono così appaltate durante le festività natalizie dello stesso anno, rapidamente realizzate e decorosamente illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.

La brutale sovrapposizione del moderno all’antico aveva generato un ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario monumento che racchiudeva l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava significati e messaggi lasciando supporre, sotto la leggerezza del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli, le ricostruzioni in successione infinita. Il segno inequivocabile ed estraneo della nuova Roma si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari, alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni, da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la solennità delle magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.

Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva il centro del ponte.

Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava due mondi diversi,Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva: era divenuto col tempo un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe in modo intensamente distaccato della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti .

Nel ’31 le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.

La leggittimità delle sovrastrutture metalliche venne di nuovo messa in discussione negli anni ’60 quando, credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo con bancarelle più o meno stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità di conservare o meno le sovrastrutture metalliche che, se nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano , facevano anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .

La polemica non fu risolta dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte, redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale fece mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale , i resti delle strutture ottocentesche furono pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone di Testaccio.

Così anche oggi il ponte continua a mantenere il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della città anche se nel cuore del suo centro antico.

E mentre la Commissione Comunale per Ponte Sisto si é espressa, dopo otto anni di studi, a favore del restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

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