LA MODERNITA’ NEL CENTRO STORICO DI ROMA

La via romana alla modernità
di Giuseppe Strappa

Che la città storica non possa essere messa sotto formalina (dichiarazione d’autore riportata nei giorni scorsi su queste pagine) è un’affermazione insieme scontata e pericolosa, come tutte le cose troppo ovvie.
E’ evidente che una città non possa rimanere immobile, che si trasformi insieme all’imprevedibile fluire della vita che vi scorre. Ma il rischio è costituito dai modi e dai luoghi della trasformazione.  Perché un’architettura che non nasca, ad esempio, dalla soluzione di problemi reali (anche formali, anche di risistemazione) finisce per essere inevitabilmente estetizzante e inutile.
Per questo, per il costoso insegnamento che la vicenda può fornire, credo che occorra riflettere anche oggi, a lavori iniziati, su come l’intervento “dimostrativo” di Meier all’Ara Pacis non costituisca certamente per la nostra città, dove pure i problemi non mancano, una necessità.
Come pure non risponde a reali priorità, occorre dirlo con chiarezza, quell’ansia di revisione delle sistemazioni operate tra le due guerre che rischia di innescare una catena di demolizioni insensate ed inutili, da quelle proposte per gli edifici di Ballio Morpurgo intorno a piazza Augusto Imperatore a quelle dei Fori Imperiali.
Non mancano, non solo nella città consolidata, all’Esquilino, al Testaccio, ma perfino all’interno del tessuto più antico (si pensi al relitto urbano di piazza della Moretta), aree e luoghi irrisolti nei quali nuove trasformazioni risponderebbero a necessità reali.
Trasformazioni la cui architettura,  il soprintendente La Regina ci ha ricordato ieri, dovrà essere contemporanea e “di qualità”. Preoccupazione sacrosanta, se solo si riuscisse ad intenderci sul significato di questi termini, elastici e vaghi, con i quali ognuno sembra voler risolvere a suo modo i problemi. E forse è appena il caso di ricordare che quelle dissonanze che La Regina ritiene inadatte al contesto antico, sono la materia stessa della quale si nutre l’architettura che le riviste alla moda vanno divulgando come esemplari.
Non a caso, su queste pagine, Jean Nouvel ci ha indicato a modello (“le città si costruiscono così”) la sua Opera di Lione, un edificio nuovissimo e “molto aggressivo” che dell’antico ha conservato solo le quattro facciate. Mi chiedo se questa è la modernità che vogliamo per Roma, un compromesso che svuota l’organismo architettonico ereditato salvando la coscienza e la pelle dell’edificio.
Quella che Nouvel propone ai suoi epigoni è, in realtà, una modernità fondata  sull’individualità, sulla rapida sostituzione, sulla competizione tra forme in conflitto: un universo di meteoriti formatesi nei centri di sperimentazioni della metropoli nordeuropea e americana dove, per dirla con Berman, “tutto quello che è solido si dissolve nell’aria”.
La via romana alla modernità è meno omologabile: passa per la continuità, la comprensione, la tutela del patrimonio storico ereditato. Il quale, come ci hanno insegnato i grandi architetti moderni romani del passato (i Libera, i De Renzi, i Ridolfi), non è ostacolo alla libertà d’espressione, né oggetto d’imitazione, né fondale all’invenzione, ma la linfa vitale del nuovo.

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