in «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2010
di Giuseppe Strappa
Pochi architetti come Marcello Piacentini, protagonista assoluto dell’architettura romana tra le due guerre, hanno ricevuto condanne tanto definitive.
Piacentini, scriveva Giuseppe Pagano (e dopo di lui l’intera critica del dopoguerra), ha paura del nuovo. In realtà Piacentini aveva fatto di più, aveva teorizzato questa paura. Le trasformazioni in corso nell’architettura internazionale, sosteneva, apriranno pure al futuro, ma stiano lontane dalle nostre città, troppo preziose perchè corrano il rischio di esperimenti. Le sue architetture finiscono così per sembrare, oggi, estranee alla vita, evocare un’aristocratica distanza tra il mondo astratto dell’architetto e la complessità della metropoli in tumulto.
Eppure alcune sue opere sono parti di Roma autenticamente moderne e, a loro modo, singolari.
Un’ originalità difficile da scoprire che consiste, paradossalmente, nella cosciente riduzione dell’invenzione. Quando anche l’architetto più modesto si sentiva chiamato alla creazione individuale, Piacentini proponeva una lingua comune, semplificata, originaria. Sapeva, infatti, che la modernità è anche una rinuncia, l’arte di dire poche parole, ma essenziali; l’unità delle cose che mette in secondo piano il molteplice dei particolari e la sua poesia.
Nei suoi piani per l’Eur e per la Città universitaria ha così convinto i molti architetti che disegnavano i singoli edifici, anche grazie alla sua autorità indiscussa, a far rifluire il proprio linguaggio personale in poche forme condivise.
Ancora oggi molta critica non gli perdona il suo legame col potere politico. Dimenticando che il rapporto tra architettura e potere (dei papi, dei re, dei grandi finanzieri) è parte integrante delle maggiori stagioni artistiche, dal Rinascimento, al Barocco, al Moderno. E che i tanti professionisti che hanno gestito la nostra urbanistica e la nostra edilizia recente hanno avuto, anche loro, solidissimi legami coi poteri forti dell’economia e della politica, con i poveri risultati, tuttavia, che sono sotto gli occhi di tutti.
Forse varrebbe la pena, ogni tanto, di guardare le cose senza il peso della Storia, con occhi nuovi, come per la prima volta. Ci accorgeremmo, allora, di come la forza urbana della Città universitaria, forse proprio per il rigore del suo disegno, sia ancora capace di accogliere il caos di studenti ed automobili, di resistere all’incuria, di sopportare ogni sorta di abusi edilizi rimanendo un vero pezzo di città. E di come, al paragone, la nuovissima università di Tor Vergata non sia che un collage di frammenti discontinui, seminati a ridosso di informi arterie di traffico.
Certo, Piacentini ha commesso anche molti errori monumentalizzando, tra l’altro, intere parti di tessuto storico.
Anche per questo attribuire ai suoi volumi grandiosi un’impossibile attualità sarebbe un errore. Ma non lo è il riconoscere quello che oggi quei volumi indicano: la possibilità di offrire una forma alla città in trasformazione, il desiderio, dimenticato, di dare senso e unità alle sue schegge disperse.