COMMEDIA E REALTÀ – I furbi del mattone alla carica

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 9.12.2004

Qualche anno fa l’idea surreale di costruire una villetta abusiva a Trinità dei Monti sarebbe entrata di diritto tra i grandi miti dell’astuzia metropolitana, sulla scia della truffa fantastica di Totò-Peluffo che vende la Fontana di Trevi al signor Deciocavallo,.
Oggi episodi di questo tipo stanno invece rapidamente scivolando nella realtà quotidiana.  Le oltre duemila domande di sanatoria presentate nel I Municipio sono solo la punta di un iceberg che mostra come la selvaggia trasformazioni del centro storico faccia ormai parte di una consuetudine che sembra legittimare le furbizie più avventurose. Certo, sul patrimonio storico si sono da sempre compiute modificazioni. Ma i dati confermano la diffusa sensazione che una sorta di legittimazione strisciante sia entrata nella mente di chi compie gli abusi, che l’intera edilizia del passato sia percepita come una grande area semiedificata in attesa di completamento. Credo che due siano le ragioni di questo cambiamento che sembra investire la coscienza profonda della città.
La prima è indubbiamente l’effetto dirompente del condono edilizio che non solo rende irreparabili i danni già prodotti, ma inocula la convinzione che nessuna trasformazione sia in realtà proibita: se si legalizzano opere private costruite perfino sulle proprietà dello Stato, figuriamoci se non ci si può costruire sulle proprie. E, infatti, la sanatoria esclude solo gli illeciti estremi, come quelli che comportano rischi di disastri statici e idrogeologici.  Cioè veri reati penali.
Ma, ritengo, esiste una seconda ragione del cambiamento, meno evidente perché indiretta, dovuta al diffondersi dell’idea, sostenuta da illustri esperti, che occorra rivitalizzare il tessuto antico con gli interventi più moderni a condizione che siano di qualità.
Come il condono ha demolito il confine tra lecito ed illecito, quest’idea rischia di minare alla base  la nozione stessa di tutela. Cosa s’intende infatti per qualità? Perfino alla soprelevazione ben disegnata di un attico, sulla base un parametro tanto vago ed elastico, si potrebbe riconoscere qualche legittimità. E perché spazi moderni, pur ricavati da demolizioni di antiche pareti murarie, non potrebbero avere grande valore estetico e quindi dignità urbana?
In realtà questo diffuso modo di ragionare impiega, alla grande come alla piccola scala, categorie di una modernità ancora ottocentesca (l’opportunità estetica, il pittoresco) quando il problema è di tutt’altro tipo: quello di una moderna casualità che sta frammentando la struttura profonda che ordinava in unità gli spazi antichi, li aggregava, divideva, fondeva tra loro in un organismo vitale.
Dobbiamo riconoscere che oggi abbiamo perso l’arte di rifondare i tessuti, i quali sono divenuti, perciò, un bene irripetibile.  E che, nel centro storico, la comprensione operante dei loro processi formativi, la loro difesa da condoni e falsi progressisti, in breve la loro tutela attiva, è l’unico valore autenticamente contemporaneo che la città può esprimere.

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