di Giuseppe Strappa
in “Antonio Cederna. Scritti per Roma” ,a cura di M.Antonelli Carandini e V.Mannucci, Roma 2008
Gli articoli, lucidissimi e appassionati, di Antonio Cederna sul “Mondo”, sul “Corriere della Sera”, su “La Repubblica”, ci ricordano come quella per la difesa dei centri storici sia stata una grande battaglia della sinistra italiana e, soprattutto, come la nascita di una cultura della tutela dei tessuti storici, dopo le distruzioni operate dal fascismo, sia un fenomeno assolutamente moderno.
E’ importante rileggere questi articoli oggi, quando sembra che, con le condizioni al contorno, siano cambiati anche i valori che di quella cultura erano (e sono) gli indispensabili presupposti e mentre, nella confusione delle idee, molti ritengono che i veri progressisti siano quanti premono perché i nostri centri storici si adeguino alle indiscriminate, radicali trasformazioni in atto in altri paesi.
Ma quali sarebbero le posizioni di Cederna nelle condizioni attuali, quando si costruisce a Pechino un progetto appena terminato a Parigi e al posto di un isolato demolitoa Londra nasce, improvviso, un grattacielo newyorkese? Quando tutto sembra accadere, nella metropoli contemporanea, dovunque e simultaneamente?
Se devo pensare ad un intellettuale capace di interpretare oggi, nel mondo globalizzato, il suo pensiero limpido e intollerante, mi vengono in mente le parole di Rem Koolhaas, vale a dire proprio dell’interprete estremo dell’universo in convulso fermento della metropoli contemporanea e della sua estetica di distruzioni e rigenerazioni, anche perché da noi stuoli di giovani epigoni trascinati dal fascino delle sue architetture dure e inospitali, continuano a visitarne le intuizioni critiche, fulminanti e visionarie.
Pochi si aspettavano che al quesito, postogli in un recente incontro all’Auditorium di Roma, di come la Capitale possa oggi competere con le architetture delle altre città mondiali, Koolhaas avrebbe risposto con parole che avrebbe potuto usare Cederna: “Roma non ha bisogno di alcuna competizione; ha già tutto quello che una città può desiderare. E’ perfetta così.”
Doveva essere questo corrucciato profeta della congestione e della densità iperbolica a darci la sintesi più lucida di quello che molti romani, di sinistra o di destra, conoscono attraverso il sentimento: la necessità, autenticamente contemporanea, di considerare il nostro centro storico come una sola opera d’arte organicamente definita, dove ogni addizione o sostituzione non necessaria (non necessaria!) può provocare catastrofi.
Ieri la questione era quella del “restauro selvaggio”, come lo definiva Cederna negli anni ‘70, che svuotava gli edifici del centro storico romano lasciando solo le facciate. Oggi, a questo problema ancora vivissimo, si aggiunge il contesto minaccioso di una cultura dell’immagine che sembra ignorare ogni valore che non si esprima nell’eccezionalità mediatica dell’oggetto architettonico considerato nella propria perfetta autonomia. Se s’imposta con chiarezza il problema e se ne traggono con rigore le conseguenze, se si riconosce che nei nostri centri storici, caratterizzati da straordinaria organicità, tutto è necessario e nulla è autonomo, le indicazioni per il futuro appaiono in tutta la loro lineare limpidezza.
Tra qualche anno ogni grande metropoli possiederà un cospicuo numero di architetture firmate. I turisti andranno a Shanghai per ammirare le ultime meraviglie dello star system architettonico. Poi, esauriti i fuochi pirotecnici, invecchiate rapidamente le forme, lo spettacolo si sposterà in qualche altro grande e vorace centro del pianeta.
Perché dovremmo entrare in questo vortice? Competere con Pechino o Shanghai dove le opere più sbalorditive si costruiscono ogni anno a decine? Al prezzo di importare nel nostro centro storico le frammentazioni delle periferie quando occorrerebbe fare il contrario.
Koolhaas è rimasto stupito, ha dichiarato, dal rapporto di consuetudine dei cittadini romani con l’antico, dal passato abitato senza feticismo. Noi che questo vero, straordinario, fragile patrimonio possediamo, sembriamo rassegnati al rischio che venga spazzato via dall’ansia di introdurre a forza nuove architetture. Le quali, a parole destinate a rinnovarlo e proteggerlo, in realtà rendono il passato distante, banale: omologato, anch’esso, a quell’irrefrenabile bisogno di spettacolarizzazione che, tracimando dai media, sembra ormai il vero motore di ogni trasformazione.
Che oggi, nel generale clima di possibilismo culturale, di mediazione, di diffusa tolleranza verso danni irreversibili al nostro patrimonio storico, si debba cercare una voce perentoria e disinteressata proprio tra i cantori della dissoluzione della città contemporanea, la dice lunga sul vuoto lasciato dalla figura di Antonio Cederna: vuoto morale, intellettuale, politico.