di Giuseppe Strappa
in “Corriere della Sera” del 5 settembre 2005
Voluto dalla giunta Rutelli con l’unico scopo di immettere l’architettura contemporanea nel centro storico di Roma, il progetto di Meier per l’Ara Pacis non era chiamato a risolvere, al contrario di quanto si dovrebbe chiedere ad ogni buona architettura, alcun problema reale. Ora che l’opera è in costruzione si scopre che, come per un’oscura nemesi, ne crea di nuovi, a catena: troppo ingombrante per essere costretta nell’angusta spina tra il lungotevere e via di Ripetta, la nuova costruzione reclama i suoi spazi vitali. I quali non possono che essere ricavati occupando il lungotevere in Augusta, intubando il traffico in costosi sottopassaggi che genereranno, con i loro squarci, ulteriori problemi.
La nuovissima costruzione dell’architetto newyorkese finirà così per divenire il vero monumento di questo delicato nodo urbano, con buona pace del Mausoleo di Augusto, delle chiese di San Rocco e San Girolamo le quali portano, pur sempre, la firma di Valadier e di Martino Longhi. Del resto sembra che, a Roma, gli architetti più noti vengano colti dall’ansia irrefrenabile di lasciare il proprio segno. Interrogati sulle possibili trasformazioni del nostro centro storico, i protagonisti dello star system internazionale, anche su queste pagine, si sono invariabilmente avventurati in dichiarazioni sull’urgenza degli interventi contemporanei e sulla propria disponibilità a disegnarli.
Poiché, in questo clima, si propone ora un concorso di progettazione per la sistemazione dell’intera area dell’Augusteo, col rischio che gli “esperti” internazionali siano di nuovo scelti tra quelli che si sono guadagnati una solida fama costruendo scintillanti opere a Parigi, Londra o Berlino (e dei quali non è dunque difficile prevedere l’orientamento), forse è il momento di riflettere sulle specificità della situazione romana rispetto alle altre grandi capitale europee.
Valga per tutti il confronto con Londra, il cui rinnovamento è legato al carattere e alla storia di una città dove l’intero patrimonio architettonico (con rare eccezioni) ha meno di tre secoli e dove molti dei monumenti più ammirati dai turisti, come il palazzo di Westminister, non sono, in fondo, che lontani echi ottocenteschi della perduta città gotica. Londra ha, nel proprio DNA, la vocazione della metropoli che si distrugge e rinnova vorticosamente, dove, per secoli, schiere di abitazioni in legno sono nate e scomparse senza lasciare tracce e, ancora all’inizio del ’600, l’unico architetto capace di importare la grande architettura, grazie alla sua formazione italiana, era Inigo Jones. Non meraviglia, dunque, che la forza estetica di quest’instabile universo urbano si fondi oggi anche su forme imprevedibili e iperboliche come la macchina disegnata da Rogers per i Lloyd, nel cuore della City, o l’eccentrica torre appena costruita da Foster (“The Gherkin”, il Cetriolo).
Al contrario, il nostro centro storico, formatosi per possenti stratificazioni murarie ancora tutte presenti nel tessuto della città, ha il privilegio di non essersi trasformato in metropoli contemporanea e può ancora scegliere quel futuro di intensa continuità con la propria storia che ad altri è ormai precluso. E’, questa, una decisione politica che non può trovare alibi nei modelli di trasformazione delle altre capitali europee.
E l’errore dell’Ara Pacis dovrebbe almeno servire a considerare come la Roma storica sia una città che non permette imitazioni: un insieme prodigiosamente organico, nato da un processo di continua collaborazione tra forme architettoniche, anche moderne, non un mercato dove il vestito di ogni edificio può essere scelto secondo la moda del momento o la fama del sarto.