di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 02.09.2004
Nel 1527 il topografo Marco Fabio Calvo leggeva nei resti della Roma antica, da quella quadrata di Romolo a quella radiocentrica di Augusto, geometrie sempre più complesse che finivano per proporre, insieme, una ricostruzione simbolica e una figura di città ideale: i frammenti enigmatici e inselvatichiti dell’impianto antico sembravano annunciare, agli occhi degli uomini del Rinascimento, la forma condivisa della città ideale e futura.
Ma la coscienza dell’antico come patrimonio collettivo doveva essere già viva fin dal V secolo se editti come quelli emanati dagli imperatori Onorio e Maggioriano richiedevano che le spoglie della passata grandezza fossero reimpiegate solo per costruire nuove opere pubbliche. Un riuso, peraltro, nel quale l’intelligenza del ruolo strutturale e simbolico della rovina costituiva, quando la scarsità di risorse induceva al saccheggio dei monumenti classici, una forma attiva di tutela. Forse l’esito più alto della familiarità romana con l’antico è stato fornito dal genio di Michelangelo con la sintesi architettonica di S.Maria degli Angeli, dove gli spazi solenni e la materia stessa delle terme di Diocleziano vengono trasmessi alla basilica cristiana. In questa consuetudine, profonda e ammirata, con un passato operante che pervade la città moderna e che abita come sostrato profondo i suoi edifici, è contenuto il carattere più autentico della Roma storica: materiale magmatico composto di segni sparsi, frammenti esplosi e riassorbiti il cui senso è dato dalla loro inevitabile associazione alle forme della vita che fluisce. Sulla comprensione di questo dato evidente e sul rispetto scrupoloso delle testimonianze dovrebbe essere fondata, credo, ogni operazione sul patrimonio archeologico. Mostrando due opposti pericoli.
Il primo è costituito dall’irruzione nelle aree archeologiche dell’architettura internazionale “firmata”. La qualità delle trasformazioni non può essere assicurata invitando, come sembra si voglia fare, architetti dello star system a presentare progetti che saranno giudicati da colleghi di uguale orientamento. Il nostro patrimonio archeologico non ha bisogno di immagini spettacolari che ridurrebbero, secondo un dilagante “effetto Bilbao”, i resti antichi a sfondo di estetizzanti virtuosismi (va riconosciuto a Massimiliano Fuksas, in proposito, il merito di aver presentato la sua proposta come diagramma e affermazione di principio).
Il secondo è costituito dalla deriva specialistica di un’archeologia intesa come scienza da laboratorio, che accumula conoscenze attraverso l’indagine e le ordina in polverosi scaffali. Lo scavo, senza un’idea di città che unisca restauro e ruolo contemporaneo delle testimonianze antiche non è solo è inattuale, può essere dannoso. E poiché il nome che si da alle cose finisce per trasformarle, forse dovremmo smettere di impiegare termini come “parco archeologico” che prefigurano la fine del ruolo vitale dell’antico e la sua trasformazione in oggetto di una contemplazione antiquaria e vagamente cimiteriale.