di Giuseppe Strappa
in “Corriere della sera” del 27.03. 2007
Poteva essere un raffinato spot pubblicitario della fabbrica d’architettura Frank Gehry & Co. E invece quello che Sidney Pollack ha girato sull’architetto più famoso del pianeta, con interviste a personaggi come Dennis Hopper, Julian Schnabel, Philip Johnson, è grande cinema.
Il regista di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, premio oscar nell’85 con La mia Africa, ci racconta come il fenomeno Gehry incarni, fino in fondo, i miti dell’America d’oggi. Il Sogno americano, ad esempio: il successo che l’architetto ha conquistato nonostante mille difficoltà, gli anni passati a fare il camionista, i consigli di cambiare mestiere dei suoi insegnanti di architettura.
E poi il coraggio di abbandonare gli incarichi di una professione sicura ma banale per fare il salto nel buio e seguire il proprio estro creativo. Come non ricordare il Gary Cooper di Fonte Meravigliosa, l’architetto-eroe che rifiuta, secondo consumati stereotipi del cinema americano, ogni compromesso? Possiamo immaginare il sorriso sornione, dietro la macchina da presa, di Sidney Pollack, che di miti americani se ne intende e ne ha dato un’interpretazione amara e pessimista. Eppure la storia dell’ebreo Frank Goldberg (che nel ’54 cambierà il cognome in Gehry) sceso dal Canada al caldo della California insieme al padre povero e malandato per trionfare su un mondo professionale durissimo è assolutamente vera.
Lo psicologo di Gehry, Milton Wexler e i suoi amici parlano dell’ego smisurato che si nasconde sotto l’aria dimessa “da tenente Colombo” dell’architetto: il suo lavoro prodigioso è, anche in termini umani, una sfida al mondo in eterna competizione della metropoli americana.
E non solo la fama, ma le parcelle che percepisce sono il trofeo concreto, indiscutibile della vittoria. Peter Lewis, un cliente tutt’altro che pentito, racconta di aver speso sei milioni di dollari per il progetto di una casa mai costruita.
Ma la storia di Gehry sembra esprimere anche un altro dei più solidi miti del cinema americano: quello della libertà individuale inseguita ad ogni costo che alla fine vince sul male. Dove il male è l’architettura convenzionale (il 99% dell’architettura, dice nel film la rockstar Bob Gedolf senza mezzi termini, “è merda”) mentre il bene è la libertà totale di esprimere emozioni. E le immagini di un Gehry sorridente, che compone con felice candore, quasi giocando, i pezzi dei suoi plastici, fanno pensare che la forma sia ottenuta, come per magia, attraverso la pura liberazione dalle regole.
Non è compito di Pollack mostrare come la spontaneità di Gehry sia il risultato di un mestiere perfettamente posseduto: lo stesso film è un’architettura di cui lo spettatore deve cogliere la leggerezza senza conoscere la fatica spesa per ottenerla. Il film vuole solo indicare (e lo fa con sequenze bellissime) come le architetture di Gehry esprimano “felicemente” la disgregazione della forma che si separa dal suo contenuto disperdendosi in schegge acuminate e dissonanti, in volute di lucidi frammenti. Provocatoriamente Gehry dice di trovare ispirazione nel cestino della spazzatura. Ma in filigrana compare la vita pulsante della sua Los Angeles, città trash, informe, dispersa, come autentica miniera di materiali inventivi filtrati dall’arte della West Coast dei Judd, Serra, Moses, Francis.
Ne risulta la descrizione di uno strano viaggio artistico nei territori estremi e marginali dell’avanguardia. La quale tuttavia diviene, per uno straordinario cortocircuito mediatico, spettacolo popolare, arte ufficiale, santuario culturale con un milione di visitatori che ogni anno si mettono in pellegrinaggio verso una città banale come Bilbao solo per ammirare il suo abbagliante museo.
Gli architetti, si sa, sono i peggiori divulgatori della propria opera. Ma anche in questo Gehry è un’eccezione: il film girato con Pollack è una perfetta architettura della comunicazione che presenta diversi livelli di lettura e contiene perfino, per chi lo voglia leggere, un nucleo di verità profondo e problematico.