di GIUSEPPE STRAPPA
in «Corriere della Sera» del 4.11.2001
Posto nei termini di conservazione o innovazione il problema dei nuovi interventi per Roma, come quello dell’Ara Pacis, risulta insolubile. Se non c’è dubbio, infatti, che la città si vada inevitabilmente trasformando secondo un processo fisiologico inarrestabile, è anche vero che l’ammirazione acritica per le nuove architetture mitteleuropee, per le decostruzioni, per l’ high-tech con cui gli innovatori hanno identificato la modernità (si veda l’esito dei recenti concorsi di progettazione) non possono che propiziare nuovi guasti. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che le rivoluzioni introdotte dai pionieri, consolidate nel tempo come carattere «autentico» del moderno e perno dell’architettura universale, sono in realtà l’esito specifico di un processo che da secoli opera nelle aree egemoni del nordeuropa. Di contro, la cultura legata alla continuità, alla consuetudine costruttiva plastica e muraria, ha sviluppato a Roma un’architettura moderna dove tutto è legato da una stessa nozione di organicità, dove spazio, distribuzione, struttura, obbediscono ad una stessa legge formativa. Un’architettura forse difficilmente apprezzabile da palati assuefatti agli scintillanti exploit alla Frank Gehry, ma che ha dimostrato, attraverso opere straordinarie, come la nozione di durata dell’architettura sia un patrimonio alternativo al mito, in declino, della macchina e a quello, emergente, dell’informatizzazione. Quando pensiamo una nuova architettura per Roma dovremmo forse giudicarla secondo la sua condizione di futura rovina, della quale quella presente non è che uno stato di provvisorio passaggio, una transizione. Basterebbe allora paragonare l’immagine di miserevole disfacimento suscitata dai molti capolavori della modernità ufficiale caduti in rovina, con la nobiltà che collassi statici e perdita di funzione hanno attribuito agli edifici antichi, per capire come l’ideologia del moderno internazionale, esaltando l’idea di obsolescenza, demolizione, sostituzione, risulti estranea al carattere dell’architettura romana.
Ma a Roma, almeno nella sua parte consolidata, il rapporto solidale e necessario tra l’organismo urbano e gli elementi che lo compongono lega i resti dell’eredità antica alle fondazioni della città barocca, i tracciati medievali alle costruzioni di età umbertina. La grande civiltà degli spazi pubblici romani è, soprattutto, il risultato di una secolare arte di costruire la città legata alla cultura condivisa del generale e del comune contro l’accidentale e il frammentario. Qui il problema della forma di uno spazio pubblico non può che modernamente porsi nel processo di trasformazioni che hanno costruito lo spazio attuale modificando la materia portata a riva dalla storia.
Posta in questi termini, anche la polemica sulla sistemazione dell’Ara Pacis potrebbe avere un respiro diverso: se i fotomontaggi di Meier mostrano con chiarezza la estraneità del nuovo museo al carattere del luogo, il vuoto che ormai le demolizioni hanno generato a ridosso del lungotevere si offre alla riflessione sul carattere della Roma futura, propiziando la formazione di un grande spazio urbano che leghi organicamente l’area sul fronte di San Rocco e San Girolamo (l’antico Porto di Ripetta), il Mausoleo di Augusto, l’asse di via di Ripetta. Le generose energie profuse nei progetti sarebbero state utilmente impiegate, almeno, per porre un problema di vasta portata.