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IL RINASCIMENTO UMILIATO – Progetti per via Giulia

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 4  marzo 2013

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Il vuoto urbano tra piazza della Moretta e il Tevere, derivato dalle demolizioni operate nel ’39 per unire piazza della Chiesa Nuova a ponte Mazzini, è uno dei nodi architettonici più controversi del nostro centro storico.

Dopo la guerra, tra le tante rovine lasciate dal fascismo, la ferita di piazza della Moretta è divenuta quasi un simbolo, un buco nero della memoria urbana sul quale si sono esercitati infiniti architetti sperimentando idee, metodi, progetti. Su fronti opposti. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, Maurizio Sacripanti vi pose il suo fantasmagorico e provocatorio Museo della Scienza; non molto dopo Gianfranco Caniggia indicò, al contrario, la via del “riammagliamento”, la continuazione dell’edilizia storica, come se la città ricucisse le proprie ferite.

Che questa lunga e nobile storia di riflessioni e confronti si debba concludere, come sembra ormai stabilito, con la desolante decisione di costruire un albergo di lusso, a sorpresa, senza un concorso, senza alcuna partecipazione, sembra un segno dei tempi.

Ci sarebbe molto da discutere su come i pilastri delle nuove costruzioni invaderanno i fragili resti antichi o su quale interesse pubblico giustifichi un enorme intervento che attrae traffico proprio in un luogo che dalle auto andrebbe solo difeso. E non si comprende quale logica la Soprintendenza abbia seguito, quali illustri opinioni abbia ascoltato per permettere che s’intervenga tanto pesantemente sull’immagine di un luogo straordinario come via Giulia, la strada più importante dell’intero Rinascimento italiano, dove hanno lasciato il segno Bramante, Borromini, Sangallo.

Ma il problema è più generale: riguarda il modo casuale e senza regole attraverso il quale i nuovi interventi sembrano “capitare” in un centro storico abbandonato agli interessi privati.

Perché, a seguire la tragicomica successione degli eventi, sembrerebbe proprio che al nuovo progetto si sia arrivato “per caso”.  Nel 2009 iniziano i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A scavo inoltrato, ecco la sorpresa: si scopre che il sottosuolo di Roma è inaspettatamente ingombro di rovine antiche e che i lavori, purtroppo, non possono andare avanti. Però il Grande Buco è stato ormai creato, insieme a un potenziale contenzioso con la Cam, la società appaltatrice. E allora, che fare? Nulla. Meglio attendere. Finché, quando l’attenzione è distratta dalle elezioni, appare una soluzione già definita, conciliatoria.  Un progetto con tanto di approvazioni e pareri favorevoli, bell’e pronto per essere realizzato: oltre all’hotel a cinque stelle, un ristorante, appartamenti di lusso in vicolo delle Prigioni e sul lungotevere e, visto che ci siamo, altre abitazioni su un’area libera in via Bravaria che nulla ha a che vedere con lo scavo. E poi posti auto, un urban center con sala per eventi e convegni… E, al di sotto, le ossa degli stabula romani, centro e ragione dell’intera operazione, sepolte tra fondazioni e parcheggi.

Un disastro urbano legato a un affare immobiliare che la società Cam definisce, con involontaria ironia, “l’unica soluzione sensata e storicamente fondata”.

LA BELLEZZA PERDUTA

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2013

PAOLO CAPRIOLI AG. TOIATI Decordo, ordinanza antibivacco del sindaco nelle aree di pregio storico e artistico.

Non si può non apprezzare l’eleganza, da mecenate d’altri tempi, della fashion house Fendi. Oltre due milioni di euro elargiti per il Restauro della Fontana di Trevi senza chiedere, per i due anni di lavori, una sola immagine pubblicitaria sulle transenne di protezione. Anche chi, come me, non ama le griffe, guarderà d’ora in poi con maggiore simpatia le nuvole di F impresse sulle borse dell’antica impresa romana. La quale avrà pure il suo ritorno d’immagine, ma in modo discreto, subliminale, si direbbe.

Perché Fontana di Trevi, triplo nodo di vie d’acqua, è anche uno dei grandi nodi della memoria universale, un groviglio d’immagini che lega insieme il prorompente carro di Oceano, la barocca sensualità di Anita  Ekberg, il dinamismo delle volute di pietra, le monetine e il sole di Roma riflessi nella grande vasca disegnata da Nicola Salvi.

Si va alla Fontana, cinesi, russi, brasiliani, ognuno con la propria immagine privata, quasi per vedere se esista davvero: ognuno fotografa ma nessuno guarda, come se cercasse non la gioia dello spettacolo fastoso e irripetibile, ma una certificazione, una prova.

Proprio questo fiume di turisti sempre in piena, quest’ansiosa curiosità globale che alimenta un commercio invadente e senza ordine, pone il vero problema della tutela della Fontana. Se, infatti, il suo restauro architettonico è indispensabile, è ancora più urgente restituirne il valore urbano, lo splendore dello spazio che genera e le si avvolge intono invadendo piazza di Trevi.

Una bellezza perduta, trasformata com’è in un groppo di degrado che s’irradia nelle vie circostanti. Il povero visitatore che percorra la strada dal Pantheon alla Fontana, costretto a passare per le forche caudine di file ininterrotte di tavoli, s’immerge in un mondo senza dimensione, in un magma di bandiere della Ferrari, colossei di plastica, centurioni con colli di peluche leopardati, bancarelle dove l’umano stenta a ricavarsi un varco.

Una potente risorsa economica come il turismo si trasforma così in un danno. Dopo aver rovinato le nostre coste dove, tra condomini e casette abusive, nessun forestiero ormai passerebbe le vacanze, dopo aver distrutto la fiorente agricoltura della campagna romana convertita in una periferia diffusa, ora stiamo trasformando i nostri spazi storici in luoghi invivibili, dove il turista si ferma il meno possibile lasciando solo i pochi spiccioli dei menù a presso fisso.

Una follia collettiva che quest’ Amministrazione ha spinto a limiti estremi, ma che ha radici lontane, nella disinvoltura con cui per tanti anni sono stati rilasciati permessi e si sono evitati i controlli.

Eppure, per ridare almeno un po’ di decoro agli spazi più preziosi e fragili della nostra città, non servirebbero milioni ma una ragionevole volontà di governare le trasformazioni in atto. Basterebbe un “restauro dell’uso delle aree pubbliche” da eseguire con poche regole, ma chiare, con qualche divieto elementare, ma rispettato.  Un’utopia si direbbe, nella Roma dei nostri giorni.