in “La Repubblica” dell’ 1/7/1992.
Raccontano le cronache che il pontefice Nicolò V , iniziatore della nuova fabbrica di San Pietro, avesse pronunciato sul letto di morte un lungo discorso che rappresentava insieme un testamento spirituale e una sorta di progetto per la futura politica edilizia della Chiesa romana . Spiegava in sostanza il pontefice come fosse più facile che il popolino “ignaro di cose di lettere” potesse comprendere la lungimiranza della Chiesa attraverso la grandiosità degli edifici e dei monumenti che per mezzo delle asserzioni dei dotti e degli eruditi. Il grande papa aveva trasmesso ai successori un programma di gestione politica dell’architettura non solo di didascalica chiarezza , ma ancora attualissimo, come dimostrano le ragioni che sono all’origine, nel bene e nel male, di molte delle opere più note dell’architettura moderna e contemporanea. Si vedano, ad esempio, i grandi lavori parigini e barcellonesi, il cui ruolo di mass media va incontrando insieme , non a caso, incondizionati favori e aspre critiche .
Ha perciò ragione monsignor Ennio Francia quando nota , in una dotta lettera a questo giornale, come le polemiche dei giorni scorsi sorte intorno alla ricostruzione della demolita casa di Santa Marta a ridosso delle mura vaticane facciano parte di una lunga tradizione di inevitabili contrasti tra potere politico , popolo, artisti: da sempre la costruzione di un’opera d’architettura è, anche, la rappresentazione di un conflitto .
Va tuttavia detto con molta chiarezza che quello che sorprende nel “pasticciaccio” di via della Stazione Vaticana é proprio la volontà di voler ostinatamente ridurre questo confronto ad una povera questione di cubatura edilizia, magari da risolvere con fulminei interventi estivi , come sembra annunciare l’avvilente incannucciata posta sulle mura per nascondere all’esterno i lavori, indizio immancabile del più desolato abusivismo romano.
I recinti, a lungo andare, possono divenire un modo di vedere il mondo: il confronto sulla nuova costruzione non é solo di competenze, ma di differenti prospettive (anche topografiche) tra chi sta fuori delle mura e considera quanto vi é contenuto prezioso o sacro, e chi, arroccato all’interno, sembra considerare il perimetro murario una sorta di remota periferia ,un confine utile soprattutto a stabilire limiti univoci, soglie invalicabili .
Oggi in tutta Europa,da Barcellona a Parigi, come al tempo dei grandi papi-costruttori, i lavori per le opere pubbliche vengono esibiti con ostentatazione: giganteschi cartelli annunciano con cura orgogliosa, attraverso dati e disegni, il tipo di lavori, i costi, le quantità, a volte la data prevista per il completamento delle opere. Perfino nella sciatta consuetudine edilizia romana, quando i lavori non sono abusivi, viene rispettato l’obbligo di indicare all’esterno del cantiere il tipo di concessione comunale ed il nome del progettista.
Possibile che, dopo due mesi di polemiche riportate ormai anche dalla stampa estera, dopo le proteste della Facoltà di Architettura di Roma, dopo gli appelli rivolti al Papa, al Presidente della Repubblica, all’Unesco per il rispetto della “Convenzione del patrimonio mondiale”, i responsabili dell’operazione di via della Stazione Vaticana non sentano il dovere civile di mostrare con chiarezza le proprie intenzioni rendendo pubblico il progetto, sostenendone apertamente le ragioni ? E’ interesse di tutti che la polemica, ormai inevitabile, si svolga sul piano civile della certezza dei dati e non sulle tante ipotesi avanzate, a volte in modo incautamente fantasioso, sull’onda di comprensibili preoccupazioni. Tanto più che l’Avvocatura capitolina si é espressa in merito alla vicenda riconoscendo nell’art. 12 del nuovo concordato del 1985 la reciprocità tra Stato italiano e Vaticano in materia di tutela del patrimonio architettonico della Chiesa.
Il problema della sistemazione dello spazio a ridosso di San Pietro è, da sempre, questione della massima delicatezza. Tanto che all’inizio del ‘700, quando si pose concretamente il problema della sistemazione dell’area di piazza Santa Marta e della demolizione della vecchia sagrestia ancora incongruamente addossata all’abside, il problema venne studiato a lungo, col contributo dei migliori ingegni del tempo .Nel 1711, ad esempio, venne bandito un concorso per una nuova sagrestia che si adattasse all’augusto Tempio “senza alterar punto il sistema e l’ossatura di quello”. Al concorso , vinto da un goffo progetto di Niccolò Besnier , fece seguito nel 1715 un’altra competizione tra architetti alla quale partecipò lo stesso Juvarra . Solo dopo lunga riflessione, esperimenti, modelli, disegni, si arrivò alla sistemazione definitiva realizzata tra il 1776 e il 1784 demolendo la chiesetta di Santo Stefano degli Ungari e costruendo la nuova sagrestia progettata da Carlo Marchionni.
Perché per la ricostruzione dell’attigua casa di Santa Marta non si dovrebbe pretendere la stessa attenzione? Certo, i tempi sono cambiati e mentre a Roma la cultura delle bustarelle ha fatto dimenticare le ragioni dell’architettura , in Vaticano un nuovo pragmatismo sembra ispirare gli interventi sul patrimonio edilizio della Chiesa. Eppure, almeno in un contesto di valore universale come San Pietro, non é pensabile che si possa operare con la disinvoltura di un ufficio tecnico :l’intero nucleo edilizio compreso tra piazza Santa Marta e le mura, che nel tempo si é andato intasando di costruzioni senza ordine, dovrebbe essere recuperato con l’attenzione e lo studio che il luogo reclama, attraverso un nuovo piano che elimini le superfetazioni e restituisca dignità e decoro ad uno degli angoli più sfortunati della Città del Vaticano.
Ci si attende, in altre parole, che questa vicenda possa porre con coraggiosa saggezza, nella grande tradizione della Chiesa romana, la questione ardua, e da tempo inedita per la nostra città, degli interventi architettonici nei grandi contesti storici . Non risolversi ingloriosamente tra astuzie filistee e schermaglie legali .