di Giuseppe Strappa
In “La Repubblica”, 1 agosto 1991
ARCHITETTURE DI MARE E DI COSTA
La storia delle architetture moderne delle coste e delle isole del Tirreno (le avventure dei luoghi, le vicende degli insediamenti) giace sepolta nelle viscere delle conurbazioni per le vacanze, come un resto antico e prezioso sotto una colata lavica : frammenti ormai smarriti tra orde di villette kitsch , modernissime tracce che appaiono tra distese di ruderi edilizi vecchi di soli trent’anni. Sogni, anche, rimasti sulla carta, disegni mai realizzati. Documenti di una vocazione moderna tradita. Storie sommerse e, a volte , ancora miracolosamente vitali ed attive.
“Non amavano il mare, ne parlavano quasi con soggezione; dicevano libeccio sottovoce, temendo di provocarne le furie.” I pastori di rado si affacciavano, all’inizio del secolo, alla costa sotto Capo Linaro. Si accostavano timidi e taciturni all’osteria a ridosso del castello degli Odescalchi “vestiti di pelo come fauni”, osservavano sospettosi il litorale, ma pensavano ai pascoli sicuri, alle terre d’origine sulle montagne.
Come i pastori descritti da Marinella Lodi, lo sperone di capo Linaro, unico rilievo della costa a partire da Roma, sembra essersi spinto fino al mare per un puro accidente orografico. Sembra appartenere piuttosto all’entroterra, ai Monti della Tolfa, ai Sabatini: un lembo di costa di sicura vocazione terrestre, il cui continuo rapporto di diffidenza col mare si è rafforzato nei tentativi frustrati di stabilire un legame con le imbarcazioni che, in ogni epoca, si scorgevano in lento movimento al largo, dirette verso il porto vicino che nei secoli cambiava nome (Centumcellae, Civitas Vetula, Civitavecchia). Quando, a metà del ‘600, si costruì finalmente un porto, papa Innocenzo X ne dispose l’immediato interramento, come un’anatema per aver rotto l’isolamento marino del luogo .
A partire dagli insediamenti più antichi destinati all’ otium dell’ aristocrazia romana, questi piccoli rilievi sembrano propizi, invece, a quella “civiltà di villa” che percorre gran parte della storia del paesaggio italiano.
Il principe Baldassarre Odescalchi deve aver compreso bene questa lezione quando, nel 1887, acquistò all’asta dall’ Ospedale Santo Spirito la tenuta di Santa Marinella e il castello quattrocentesco che nel tempo i Barberini avevano trasformato in palazzo fortificato. Il principe dispose immediatamente i piani per una lottizzazione e ne favorì la crescita utilizzando scaltramente lo strumento della pubblicità: la stampa divulgava l’inaugurazione di ville dove si svolgevano feste memorabili, residenze lussuose frequentate dal bel mondo, abitate da soubrette famose. La prima villa fu costruita per sé dall’ingegner Raffaello Ojetti, che in quegli anni stava ampliando per il principe palazzo Odescalchi in via del Corso a Roma. Ne seguirono presto altre. In realtà, tuttavia, le foto di fine ‘800 mostrano il luogo occupato da costruzioni rade, sperdute tra le sabbie e la macchia mediterranea selvaggia, con capanne di legno avventurate sull’arenile quasi a sperimentare la rudezza del mare, a rassicurare le sortite sulla spiaggia di timorose famiglie borghesi . Costruzioni aggrappate alla ferrovia per Roma come ad un cordone ombelicale, dove non si riesce ad immaginare il passeggio, le orchestrine, i sorbetti ,i piccoli agi, insomma, di una stazione balneare credibile. Capisaldi di una conquista ancora precaria, queste ville adottavano le piante semplicissime, i volumi pragmatici e un po’ spogli della colonizzazione al primo impatto con un territorio non ancora domato. E’ solo molto più tardi, col nuovo secolo, che si apre , sotto la regia dell’ammiraglio Astuto, presidente della Cooperativa “Pirgus”, la fiera delle vanità della borghesia romana. Vengono edificate le prime residenze nelle quali l’architettura, come in una vetrina, mostra le condizioni sociali, le aspirazioni, il censo del proprietario. Il tipo edilizio é quello del “villino di città”, con una torretta o un’altana che ne segnala l’individualità. Sono costruzioni informate ad un eclettismo prudente, secondo la tradizione romana, dove però non mancano invenzioni discrete, alimentate da una balneare levitas. (come nella villa Zamboni-Bertagnolio in via Aurelia , nella villa Soria a lungomare Marconi o nel vicino villino Zocchi) e dove non mancano echi modernisti che increspano, ad esempio, i volumi dell’ eccentrica villa Bettina costruita dall’architetto Gilardoni. E tuttavia, come nota Marta Francocci in un prezioso libretto che può servire da guida a queste architetture (La stazione balneare di Santa Marinella, 1887-1940 , edizioni Carte Segrete) non è un caso che l’unico esempio di adesione totale alle esperienze moderniste sia costituito da quel villino Cerrano che Gino Smorti disegna in stile liberty per un direttore del vicino cementificio, per un ceto imprenditoriale,cioè , dallo spirito innovativo assai raro nell’ambiente romano.
Negli anni ’20 si diffonde l’uso del terrazzo, sostituito al tetto, mentre si vanno scoprendo, forse con ottimismo eccessivo, i poteri taumaturgici delle radiazioni solari che , sosteneva una rivista dell’epoca “ti scovano il bacillo in mezzo alle viscere e lo annientano inesorabilmente.” Negli anni ’30 si costruiscono anche le prime ville “razionaliste” i cui volumi elementari parlano ancora una lingua comprensibile , dividono un codice comune con le costruzioni precedenti, come villa Genesi in via Capo Linaro, che conserva i motivi tradizionali della torretta e del bow-window.
E’ il periodo di maggiore splendore della piccola epopea borghese di una cittadina divenuta esclusiva ed elegante, dal lusso non importuno, serena nonostante la presenza di qualche gerarca.
Una stagione di pienezza che prelude, tuttavia, alla decadenza. Le cui cui prime, lontane avvisaglie si intravedono già negli anni ’20 con la lottizazione dell’area di Caccia Riserva, dove i “villini” ad alta densità per il ceto medio anticipano il modello delle palazzine , protagoniste dello sfascio edilizio del dopoguerra. Prima della distruzione sistematica del litorale laziale, tuttavia, Santa Marinella vive ,negli anni ’50,una breve, estrema stagione di fasti. Si costruiscono ancora ville raffinate che dialogano con la tradizione, come quella disegnata dall’architetto Luigi Racheli in via Ulpiano per l’industriale della birra Franco Peroni, mentre anche le palazzine sono costruite con cura, come quelle sulla via Aurelia ,rivestite di maioliche blu , progettate da Monaco e Luccichenti.
Poi, nel ’54, Luigi Moretti costruisce in via Capo Linaro per la principessa Pignatelli una villa dalle forme assolute, chiare come un gesto simbolico. E’ l’immagine di una svolta epocale nel destino di Santa Marinella. La “Saracena” (questo è il nome della villa, alla quale seguirà, postuma, “La Califfa”) parla un linguaggio nuovo, che rompe col passato. Un linguaggio presto imitato a sproposito e volgarizzato su tutta la costa laziale . Rivolta al mare , la costruzione è protetta verso la strada da volumi ciechi, rifiniti in intonaco grezzo, respingenti e inaccessibili come bunker. Perduta la cordialità dei “villini signorili”, la nuova, famosa villa volge aristocraticamente (gelosamente, commenta l’architetto) le spalle alla cittadina dove ancora passeggiano re Farouk e Ingrid Bergman. Quasi un presentimento,un ultimo tentativo di sdegnosa difesa dal turismo di massa .
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