Corriere della Sera
TOR SAPIENZA E DINTORNI
periferie senza identità
di Giuseppe Strappa
Gli abitanti che da Tor Sapienza prendevano gli sgangherati autobus dell’Atac dicevano di «andare a Roma». Il senso condiviso della lontananza si accompagnava al conforto di appartenere a una piccola comunità dove qualche forma di equilibrio solidale dava sicurezza, rendeva vivibili quei luoghi.
Le borgate non erano solo l’inferno raccontato da Pasolini. In posti come questo si viveva una sorta di familiarità condivisa poi scomparsa nel magma informe dell’espansione urbana.
Alle villette isolate, costruite da una cooperativa socialista negli anni ’20, si unirono le palazzine del dopoguerra a formare un vero tessuto urbano unificato dai percorsi della Collatina e di via Tor Sapienza. Mentre nascevano i segni di un nuovo futuro con le fabbriche d?avanguardia (la Voxson, la Sir), un piccolo nucleo operaio si raccoglieva intorno alla torre delle scuole, cupo landmark fascista divenuto, col tempo, quasi cordiale.
Poi, in pochi anni, tutto cambia. Uno dopo l’altro, chiudono gli stabilimenti. La città diviene metropoli, con i sui miti e le sue contraddizioni. Nella convinzione che quel tessuto sia sbagliato e che occorra redimerlo, si pianificano interventi astratti, autonomi, opposti ai processi in atto. Anche l’ormai famoso nucleo di via Morandi, messo di traverso e arroccato sulla collina, separato dal surreale viale De Chirico, è uno di questi frammenti.
Tor Sapienza diviene una delle tante schegge della periferia, stretta tra il Mercato delle carni con le aree della prostituzione, l’insensato tratto urbano dell’alta velocità realizzato a pochi metri dalle abitazioni, l’Autoparco militare, il campo Rom di via Salviati, con i suoi roghi tossici, che la città ha respinto ai propri margini. È andata distrutta l’identità e la dignità di un piccolo mondo in trasformazione che aveva resistito alla crisi e all’ondata delle immigrazioni.
Al contrario dell’immagine diffusa dai media, nella vecchia Tor Sapienza gli stranieri non sono rifiutati. Si sono radicati, anzi, e integrati con i vecchi e nuovi abitanti.
Nell’isola di via Morandi, invece, quei segni di modernità e speranza immaginati dagli architetti, sfondo delle risse razziste e dei cassonetti bruciati dei telegiornali, sono diventati i simboli della città matrigna, che protegge con cura alcuni quartieri e trasforma altri in discariche urbane.
E ora si pensa di risarcire le periferie abbandonate col progetto di quattordici nuove piazze da costruire con i sampietrini rimossi dalle strade del centro. Ancora una piccola, patetica, irrisoria perfidia.
Strappa Giuseppe
(02 aprile 2015)