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CORVIALE RELOADED (Racconti dalle rovine)

 

di Giuseppe Strappa

in «Metamorfosi» n° 67 del luglio/agosto 2007


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Venivano giù da un grande oblò rugginoso. Balcanici con gli occhi nascosti da pesanti schermi ottici, grassi cinesi con  pantaloni di pelle colorata, un gruppo di tecnici del Nuovo Kerala con i loro copricapo in penne di fagiano. Poggiavano appena il piede sul terreno e già sollevavano lo sguardo impaziente verso la collina, come per porre fine a una lunga attesa.

Cupa e solenne contro il cielo limpido di dicembre, avvolta alla base da muschi e licheni, appariva la Rovina. Smisurata, enigmatica.

Alcuni piani erano crollati all’inizio del terzo millennio per l’incuria degli abitanti, ma la sagoma originale s’intuiva ancora, nonostante le vistose lacune riempite dall’azzurro del cielo. Verso sud, invece, la figura si rompeva contro la luce e lasciava indovinare le infinite aggiunte che si erano stratificate nel tempo, come una spessa crosta, sulle strutture di cemento: costruzioni difensive in resina di reimpiego e pesanti piastre di ferro dalla splendida  ossidazione, tutelate dalla Suprema Intendenza Regionale fin dall’anno dei primi restauri, risalenti ormai al 2273.

Con fatica il gruppo prese a muoversi tra la selva di bottegucce spuntate come funghi  ai piedi dello sito archeologico. Cumuli di montanti in verbonio e logori teli di kuplar si univano a formare una bazar fluido, in eterna trasformazione, dove industriosi immigrati celtici vendevano ogni genere di souvenir.

Anche i rumori si fondevano in un solo brusio di fondo. E su tutto aleggiava, tristissima e misteriosa, la nenia di un piccolo cantastorie irlandese. Le note si avvitavano leggere alle spire di fumo dei bracieri e poi salivano, insieme, verso il sole.

“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser…. Ma mai, mai avrei pensato di vedere uno spettacolo tanto fastoso e potente, le nostre radici autentiche celebrate da questo glorioso monumento in rovina”.

Il ballerino rumeno che aveva pronunciato queste parole era stato evidentemente rapito da un trasporto eccessivo. Eppure le sue esagerazioni non mancavano di una qualche giustificazione.

Perché da tempo, ormai, Corviale non era più soltanto un luogo fisico. Era soprattutto un luogo della mente, una zona molteplice e universale, dove si era concentrato, accavallato, rifuso per secoli ogni tipo di leggende, alimentate dal proliferare di siti dedicati, sui quali si tenevano in esercizio perditempo informatici di tutti i paesi.

Da quando la Rovina era divenuta il caso di studio d’elezione nei principali congressi sulla fine (la fine della modernità, la fine dell’architettura, la fine del racconto) aveva costituito il terreno di prova dei più ostinati falsari di documenti.

Da principio si trattava di contraffazioni piuttosto rozze, al limite del dilettantesco, sfornate da giovani ricercatori delle università terrestri, ansiosi di pubblicare inediti su un argomento ormai conosciutissimo. Ma, col tempo, veri professionisti della falsificazione, non di rado insospettabili docenti di chiara fama in pensione, cominciarono a sfornare falsi impeccabili che avrebbero sfidato le verifiche più sofisticate. Si finì, così, col dubitare perfino dell’attribuzione dell’opera, mettendo in dubbio l’esistenza stessa dell’architetto che l’aveva ideata, il quale sarebbe stato un personaggio d’invenzione, simbolo fantastico e sintetico di una miriade di contributi che si sarebbero succeduti nel tempo.

Il colpo di grazia alle certezze storiche sulla grande opera arrivò verso la metà del primo secolo del terzo millennio, quando un’ondata di virus autoramificati sì abbatté sugli archivi informatici superando tutti i sistemi di sicurezza che li difendevano, infettandoli in modo irreversibile. Non solo danneggiarono i preziosi documenti sull’origine e le trasformazioni della Rovina, ma li corrosero dal di dentro,deformando e trasformando i significati delle testimonianze nel loro opposto. Non si riusciva più a distinguere il vero dal verosimile, l’autentico dalla copia. Allora si tentò di rintracciare gli originali nel GDC, nel Grande Deposito Cartaceo nazionale. Ma ci si accorse, con orrore, che il contenitore sepolto a gas ionizzato destinato alla loro conservazione era stato violato e tutto il contenuto trasformato in un mucchietto di cenere.

Corviale era così divenuto un luogo virtuale, un’immaginaria regione germinale della cultura occidentale affollata di simboli d’invenzione opposti e deformi, dove ogni comunità ritrovava coesione e confini riconoscendovi, come in uno specchio, le proprie ansie, allucinazioni, speranze.

E nel deserto della memoria cominciarono a sorgere fantasmi e visioni.  Paure che sembravano sopite e che attendevano, invece, in agguato nel fondo delle coscienze uscirono urlando alla luce del sole.

I documenti non hanno mai provato, ad esempio, che ci fosse il minimo fondamento di verità nella leggenda della banda di peruviani che avrebbe ammaliato gli ottomila abitanti di Corviale suonando tutta la notte i loro cajòn e flauti di Pan, attirandoli fuori, nei prati bui, per poi massacrarli all’alba, ad uno ad uno, per rubargli la casa.

Alcuni, incerti riscontri di questi fatti sembravano provenire dallo studio della glittica delle antiche migrazioni latino americane, ma si scoprì in seguito che i sigilli rinvenuti nei piani bassi della Rovina non erano che falsi creati ad arte con vecchie macchine a controllo numerico. Nondimeno la storia, per quanto inverosimile, fu presa per vera, e si trasformò in una sorta d’indiscutibile tragedia sepolta nella storia metropolitana utile a giustificare odi inconfessabili seguiti dagli attacchi più vergognosi, le scorrerie più feroci e sanguinarie contro le inermi comunità che si erano rifugiate tra i ruderi.

Allo stesso modo non poggia su alcuna base scientifica la convinzione, pure caparbiamente sostenuta da illustri accademici, che il progetto di Corviale contenesse un anatema genetico o che un incantesimo avesse dilatato la scala della costruzione fino a farla sfuggire di mano agli architetti, come una nuova Torre di Babele in pannelli prefabbricati.

Doktor Sötil, la guida, con la miscela di ovvietà ed arguzia del consumato affabulatore, espose tutto questo velocemente ai visitatori ben sapendo che si trattava, in fondo, di argomenti piuttosto noti.

“Gli elementi principali dei fatti che determinarono la trasformazione di Corviale – aggiunse osservando con imbarazzo la punta dei propri stivali –  sono, ad ogni modo, certi.”.

Fingendo di non udire il brusio di scetticismo che le sue parole avevano suscitato, proseguì, indicando le rovine “Questo, cari signori – la voce era divenuta di colpo stentorea – doveva essere l’inizio di una nuova era! Certo, di una nuova era felice! Era stato immaginato come uno smisurato, geniale magnete, la rappresentazione della catarsi delle tragedie urbane del XX secolo. Ebbene, per soli dodici copechi io vi guiderò tra i resti di questo sogno meraviglioso, di questa secolare utopia.”

I turisti, tutt’altro che sorpresi, sfilarono pazientemente davanti all’improvvisato condottiero. Le dodici monete cadevano  nella sudicia bisaccia che la guida si era affrettata a spalancare, una ad una, risuonando.

Il gruppo si avviò su per la collina evitando i venditori di infusi e la selva di bambini che si affollavano chiedendo il bakshish.

Entrarono nell’interno semibuio della Rovina squarciato da improvvise lame di luce, attraverso una delle cinque fessure che si aprivano come ferite sulla facciata continua della costruzione. I tralicci, che un tempo sorreggevano i cilindri traslucidi delle scale, si proiettavano sconsolati nel vuoto.

Iniziarono ad aggirarsi, piccoli viventi tra le auguste macerie, quasi con timore, come in un’incisione piranesiana.

La guida mostrava pazientemente quello che rimaneva dei diversi piani, i resti delle cellule abitative che componevano l’immenso organismo e le presunte ragioni del suo declino biologico. Spiegava, con notevole competenza, la differenza tra le case, ormai vuote, poste ai piani bassi e quelle ai piani alti e la probabile funzione del livello intermedio di servizio, il più devastato per essere stato a lungo il terreno di scontro tra le diverse fazioni in cui si erano divisi, nel corso dei secoli, gli abitanti.

Parlava di getto e quasi correva temendo di non terminare prima del buio. Ma si fermò in improvviso raccoglimento di fronte ad un grande vuoto dove resti incomprensibili e muti sembravano testimoniare un antico disastro. Era evidente come alcuni piani fossero crollati già quando la costruzione era abitata (la guida ne attribuì la causa alle disastrose dilatazioni termiche negli anni del Grande Riscaldamento della crosta terrestre) formando una strana cavea circondata da terrazze.

Lo spazio che precipitava tra solai spezzati e monconi di ferro, chiuso in alto, chissà quando, da una copertura di fortuna, aveva generato un singolare microclima che favoriva la crescita di specie vegetali insolite per le nostre latitudini. Come la rara Chamaedorea oblongata, palma da tempo ritenuta estinta, e felci straordinariamente rigogliose, soprattutto inconsuete varianti (ma qualcuno parlava di deformazioni genetiche) della famiglia delle epifite, particolarmente delle Platyceria willinckii. Si era così formato, nel grembo più segreto ed oscuro della Rovina, un curioso orto botanico al quale i visitatori si accostavano sempre con rispetto e timore. Un luogo curioso ed umido, di grande valore didattico, che aveva acquistato nel tempo un proprio pubblico di affezionati frequentatori.

Ma sul fondo buio e fradicio della cavità, mai visitato per secoli da essere umano, si intuiva lo sviluppo abnorme di alcuni vegetali carnivori, mostruosi d’aspetto, che si diceva provenissero da un pianeta misterioso e lontano. I vecchi raccontavano come, molti anni addietro, la Croce del Sud, la nave spaziale più gloriosa e più bella della flotta pontificia, avesse planato lungo la costa del Tirreno con i motori in fiamme, ondeggiando come un uccello ferito, per poi virare di novanta gradi all’altezza di Roma nel disperato tentativo di compiere un atterraggio di fortuna.

La massa gigantesca aveva lasciato un solco di tre leghe lungo la pianura  fino a fermarsi, smisurato mostro sbuffante ed esausto, proprio ai piedi della collina. Uno dei motori si era staccato dalla carlinga rotolando lontano e ora giaceva desolato come l’artiglio di un misterioso animale ucciso. Nessuno sapeva da quale viaggio la nave tornasse. Molti testimoni, tuttavia, giuravano di aver visto l’unico sopravvissuto, con il volto ustionato, uscire dal relitto fumante e trascinarsi con un sacco sulle spalle fino al piano interrato della Grande Rovina. Quel sacco avrebbe contenuto i semi delle piante carnivore, come se il superstite, prima di morire, avesse voluto che la vita e la leggendaria epopea della Croce del Sud dovessero, in qualche modo, continuare. Ancora non era noto, comunque, come questo mondo vegetale in continua trasformazione si sarebbe evoluto.

In alto, tra le liane che pendevano dai solai crollati, era stato ricavato un tempietto sormontato da un timpano.  La Madonna dell’Ozono vi era raffigurata, al centro, con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo, nell’atto di salvare Corviale, riprodotto in maiolica ai suoi piedi, dalla tragica ondata di calore che si era abbattuta su Roma, uno dei sette flagelli del XXI secolo che aveva  distrutto quasi tutta l’edilizia costruita dall’IACP a partire dalla metà del secolo precedente.

Il breve, silenzioso raccoglimento, costituì il necessario intervallo prima di ammirare i resti più appassionanti e discussi: i lunghi percorsi dalle prospettive vertiginose che ribaltavano all’interno dell’edificio il comportamento della città tradizionale del XX secolo, con le abitazioni allineate lungo un percorso pubblico e spazi condivisi per la sosta e il divertimento.

I visitatori si spinsero fino al termine di uno dei percorsi interni, poi si mossero lungo un altro, in senso inverso, fino alla fine. Verificarono con cura, dopo un chilometro di cammino, quello che tutti conoscevano: la strada non portava da nessuna parte. E si chiesero, per l’ennesima volta, come una città potesse iniziare dal nulla e finire nel nulla.

I visitatori attesero, incuriositi, l’interpretazione della guida.

“Per molto tempo si è pensato che l’edificio non potesse finire qui, che il percorso interno dovesse pure portare da qualche parte, come sarebbe stato logico.” Doktor Sötil parlava ora a bassa voce, quasi stesse facendo una confidenza più che dare una spiegazione. “Un percorso senza conclusione era, perfino per i moderni del XX secolo, qualche cosa che ripugnava, contro natura.

Vedete quelle grandi buche? Si è scavato molte volte a ridosso delle testate della Rovina cercando una traccia, una spiegazione ma, ogni volta, senza risultato. Brutus Bernstein, all’inizio del XXII secolo, pubblicò un’ingegnosa ipotesi ricostruttiva che mostrava due gigantesche sfere in calcestruzzo sulle opposte testate dell’edificio. Dovevano essere, secondo l’illustre teologo armeno, i poli, antitetici e complementari, delle percorrenze interne, i quali rappresentavano l’ineffabile armonia delle sfere celesti. Corviale sarebbe stato la riproduzione della Città di Dio, microcosmo concluso e autosufficiente dove una rigida regola monastica avrebbe dovuto governare la vita degli abitanti.

Il glorioso Zetema W. Pecorella coltivò a lungo, invece, la suggestiva congettura che quello che vediamo ora non sarebbe che il moncone, solitario e muto, di un’immensa città lineare che doveva arrivare fino al mare. Per anni devastò con infiniti scavi la piana tra il vecchio quartiere Aurelio e la costa di Castelfutzano alla ricerca di evidenze archeologiche che confortassero la sua avventurosa teoria. Finché un’insurrezione dei contadini che abitavano le terre intorno ai resti di Caval Palocco, esasperati dalle continue perdite del raccolto, non lo costrinse a desistere.

Anni dopo, quando gli uomini riuscirono a riflettere senza pregiudizi sulle due inconciliabili teorie, si capì che si trattava comunque di bambagia storica, di due soluzioni consolatorie al problema, un’ultima, disperata barriera della coscienza che non voleva ammettere l’evidenza: che la ragione non appartiene al Razionale, anche, e forse soprattutto, in architettura.”

Non tutti approvarono le parole piene di convenzionale saggezza della guida, ma ne apprezzavano, col progredire delle spiegazioni, la grande competenza e chiarezza. Solo un rotondo agrimensore del Regno Cristiano del Quebec, ultima isola francofona nel gran mare neocinese, sembrava non capire.

La visita si avviava alla conclusione. L’azzurro del cielo, che appariva di quando in quando tra scale crollate, polverosi scaffali vuoti e vecchi vasi di plastica, si andava trasformando in un bagliore opalescente e diffuso.

I visitatori, esausti per i tanti corridoi, sentieri labirintici e ballatoi percorsi, approdarono al tepore di una taverna posta al settimo livello, dove era prevista una lunga sosta.

Qui, davanti ad un calderone di zuppa fumante, ognuno raccontò a turno i propri corviali.

Jorge Kamut raccontò del palazzo circolare di Gora, dove i saggi si disponevano serenamente nell’apparente armonia turchese dei gironi esterni, i filosofi in quelli cremisi più interni, seguiti dai magistrati, disposti in complessi anelli di celle amaranto, poi dai curatori, ordinati in confuse camerate circolari scarlatte, finché si arrivava al centro misterioso e magmatico, al bianco nucleo polare che conteneva tutte le follie del palazzo, ma anche le sue verità e, quindi, il germe della propria rovina.

Un mongolo dal volto bruciato dal sole, frugando nella memoria, ne rinvenne uno nel centro abbandonato di Buyant-Huaa; un arabo ricordò di aver visto qualcosa di simile costruito sulle macerie di quella che fu la superba città di Doha; un vecchio georgiano ricostruì, con poche, energiche frasi, l’immagine del luminoso falansterio di Suhumi, costruito in basalto dorato sulle rive del Mar Nero e distrutto dalle lotte intestine degli abitanti.

In ogni angolo del mondo, si scoprì dopo ventiquattro racconti, l’uomo aveva cercato di dare forma ai suoi sogni e quanto più aveva creduto nelle proprie utopie, tanto più cocente era stata la sconfitta.

Rimaneva, secondo il programma, l’incontro con un gruppo di specialisti che si stavano occupando del restauro della Rovina e del possibile, cautissimo uso sociale di alcune sue parti di minore rilevanza documentaria. I visitatori indugiarono a lungo sui ballatoi a discutere, eccitati, sull’andamento dei lavori e dove questi potessero definirsi propriamente restauro e dove recupero, dove riuso e dove ripristino o risanamento, ristrutturazione, rifacimento, ricostruzione, rinnovamento, miglioria.

In realtà, sebbene il lavoro da fare fosse immenso, l’attenzione era concentrata da anni esclusivamente su di un singolo pannello di facciata rovinato al suolo., Trasportato con ogni cura in laboratorio, il malconcio elemento era divenuto terreno di scontro tra diversi gruppi di ricercatori, con confronti che investivano complesse filosofie d’intervento.

Quando i visitatori arrivarono in vista dei laboratori, cominciarono ad intravedere le sagome di alcuni tecnici in camice bianco presi da viva agitazione. Si trattava di esperti appartenenti a due diverse scuole di pensiero. Un energumeno calvo con il cranio ornato da tatuaggi floreali, sosteneva urlando che il pannello andava ricostruito a l’identique, fregandosene dei poveri resti del materiale originale; l’altro, un milanese smilzo dagli occhi arrossati, ripeteva, resistendo alla gragnola di improperi, che la rovina andava lasciata deperire così come la natura richiedeva, anzi comandava. Tra urla raccapriccianti, si scambiavano insulti terribili (“tardoromantico”, e anche di peggio) estesi alle reciproche famiglie accademiche e padri spirituali. Altri  tecnici, divisi in fazioni, si lanciavano oscure minacce condite da volgari allusioni a turpi inclinazioni sessuali dei relativi maestri.

Mentre la guida, passando oltre, semplicemente fingeva di non accorgersi di quanto stava accadendo, i visitatori compresero che i lavori alla Rovina non sarebbero mai terminati.

Uscirono che si avvicinava la sera. Il sole scendeva, glorioso, dalla parte del mare, enorme disco di titanio incandescente sospeso sulle nebbie che cominciavano a salire dai ruderi dell’aeroporto di Fiumicino.

L’urlo lontano di una sirena ricordava la confusione sulla Terra e le prime stelle, alte nel cielo, il supremo Ordine cosmico.

La grande Rovina, ormai priva di vita, mandava un’ombra lunga e lugubre sul fianco della collina che si andava spopolando.

I visitatori erano saliti all’interno di un lucido torpedone a pattini magnetici e si aspettava solo qualche isolato ritardatario per tornare in albergo.

Finalmente l’ultimo turista si affrettò a salire tenendo tra le mani una scatola di cartone. Aveva comperato per pochi centesimi, dal banchetto di un rigattiere, un’ antica sfera di vetro con dentro un Corviale in miniatura che brillava agli ultimi raggi di luce.

Se si scuoteva la sfera una folata di neve sintetica roteava intorno all’edificio di plastica avvolgendolo in una spirale luminosa.

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La città a pezzi

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di Giuseppe Strappa

in «AR» n° 87/10 gennaio-febbraio 2010

– Mi sembra, prima di tutto, importante sottolineare come l’apertura di questa nostra festa dell’architettura sia iniziata invitando non un’archistar, come qualcuno si aspettava, ma un architetto appartato e fuori moda come Paolo Soleri che ricerca ancora un’alternativa alla spettacolarizzazione del nostro mestiere e, a novant’anni, ci ha trasmesso, con pacatezza, alcune tra le cose più interessanti, originali, e lucide che io abbia sentito in questi ultimi tempi. Credo che questa scelta possa essere di buon auspicio perché la nostra iniziativa trovi una propria strada originale tra le tante kermesse di architettura che ormai proliferano un po’ dovunque.
Roma città plurale: a me sembra che il titolo di questo forum dia adito a diverse interpretazioni, qualcuna fuorviante. Suggerisce, ad esempio, l’idea di un organismo urbano del quale noi cogliamo aspetti diversi e particolari, un organismo fondamentalmente unitario, secondo un’interpretazione che si potrebbe inserire nel grande flusso della tradizione romana della città frammentata, ma unita da una forma generale comune e condivisa. Un’interpretazione che rimanda alle metafore paradossali del tardo antico: Roma come casa che contiene molte città, dove l’immagine organica dell’abitazione esprimeva la visione della forma capace di contenere e, insieme, dare senso al molteplice, alle singole parti divise. Ma anche quella della metropoli contemporanea, che si vorrebbe incomprensibile e che, tuttavia, in fondo, mantiene una propria organicità strutturale, se solo si volesse leggerla, dove le schegge e i brandelli delle lacerazioni sono uniti dallo scheletro delle grandi infrastrutture, dalle arterie e dalle vene del sistema di percorsi che fanno intuire come il multiforme ed il complesso siano il portato di una nuova unità fluida e instabile, che non riusciamo ancora a definire. Ecco, a me sembra che la Roma attuale non sia nulla di tutto questo, che sia, più che una città plurale, un insieme diviso di città. Forse questa specificità ha origine, almeno in parte, nel piano regolatore del ’62 che ha previsto, soprattutto nell’espansione ad est, una città destinata a crescere attraverso insediamenti autonomi, separati da aree verdi, ma riferiti alla struttura unificante del  Sistema Direzionale Orientale. Noi abbiamo ereditato le rovine di questo piano, siamo orfani di un’idea di modernità che non si è tradotta in forma. Lo SDO non è mai stato nemmeno iniziato, il verde è diventato i prati di pasoliniana desolazione che conosciamo, aree d’edilizia abusiva, di discariche, smorzi, sfasciacarrozze. I quartieri d’edilizia economica hanno elaborato nel tempo proprie forme di autonoma sopravvivenza, a volte anche decorosa, ma estranee alla vita di una città distante e matrigna. “Vado a Roma” dicono i giovani dei quartieri periferici per dire che vanno al centro, dove c’è tutto quello che manca dove abitano: i servizi, i negozi, il divertimento.
Nonostante tutto, sebbene su quello che sto dicendo siano state innescate infinite polemiche, oggi assistiamo ad un’espansione che prosegue ancora, nei fatti, quella stessa linea dissennata, senza nemmeno l’illusione che il fiume di cemento che si sta riversando nelle periferie, possa avere qualcosa a che fare, almeno, con la città proposta dal movimento moderno quasi un secolo fa e che aveva ispirato un piano già ritardatario nel ’62.
Un’espansione che obbedisce, ancora una volta, alla regola di insediamenti autonomi ma, nei fatti, non autosufficienti, che non formano la metropoli contemporanea, ma nemmeno la continuità della città ereditata, separati gli uni dagli altri, come tante isole che si vanno ormai saldando senza che nessun sistema organizzatore, tra tante polarità rimaste nei piani e sulla carta, le possa realmente integrare. Il problema è di ottica, di prospettive: sembra che non sia possibile pensare che per rovine o frammenti. E’ il trionfo del contingente e del casuale, della trattativa tra politica e promoter sui piani e sui progetti. Le proposte di questi giorni per nuove “cittadelle dello sport”, per esempio, prevedono tutte strutture autonome: migliaia di metri cubi di nuove abitazioni con al centro uno stadio di calcio.
Accettando il compito di mediazione che il progetto à chiamato a svolgere, non ci si è mai soffermati sul ruolo che l’architettura potrebbe avere nel ricostruire i pezzi dispersi delle periferie.
Sembra che il dibattito recente sull’architettura contemporanea si sia concentrato piuttosto sul rinnovo del centro storico. Non riesco a capire per quale ragione, quando si parla di architettura contemporanea e di rinnovamento a Roma, si debba parlare inevitabilmente della sua parte storica. Problema che sembra preoccupare, molto più delle periferie, non solo gli architetti italiani, ma anche quelli stranieri. Dalle dichiarazioni rilasciate dagli architetti che hanno frequentato Roma nella stagione recente, emerge come regolarmente il problema del rinnovamento del centro storico appaia il più urgente tra tutti.
Vorrei soffermarmi su questo problema, non perché sia realmente la questione principale, ma perché è lo specchio delle contraddizioni che vive l’architettura romana contemporanea.
Che il centro storico si debba rinnovare è indubbio: il problema è quale tipo di “contemporaneità” noi dobbiamo prevedere per Roma. Dovremmo considerare con maggiore attenzione, io credo, la nozione contemporanea (contemporanea, non moderna) di “tessuto”, nodo centrale dell’architettura romana estendibile, in forme diverse, dal centro storico alle periferie. L’attenzione al tessuto potrebbe essere il motore del rinnovamento e una scelta assolutamente attuale. La tradizione moderna romana andava, infatti, in direzione diversa. Lo stesso Gustavo Giovannoni, nelle sue teorizzazioni degli interventi su Roma,  proponeva esattamente il contrario, la teoria del diradamento, con il monumento al centro ed il tessuto aggregativo di peso trascurabile.
L’importanza della vitalità del tessuto e della sua funzione di lingua comune è una scoperta recente, che risale al dopoguerra. È una scoperta che ci induce a pensare che il bene cui attribuire valore non è solo il monumento (ed estendendo la nozione dal centro all’intera città, non l’episodio straordinario) ma proprio questa radice profonda che dà il carattere all’architettura romana. Una radice che, per intervenire tanto nella costruzione del nuovo quanto nel patrimonio di edilizia storica, bisognerebbe comprendere a fondo e che quasi mai è stata compresa. La quale potrebbe spiegare come i nuovi interventi di architettura “alta”, le opere firmate che dovrebbero dare nuova qualità alla periferia, dovrebbero “derivare” dal tessuto abitativo al contorno.
Nei libri di architettura e in quelli di storia dell’arte ogni edificio firmato da un grande architetto viene interpretato per la sua eccezionalità. Ma basta pensare al palazzo romano per capire come questo non sia altro che l’interpretazione colta di una nozione condivisa di tessuto che costituisce il sostrato indispensabile per comprendere il monumento e per fare architettura. Sono edifici congruenti “necessari”. Basterebbe guardare la pianta dei pianterreno della città di Roma per vedere come tutto obbedisca ad uno stesso modulo derivato dall’abitazione.
Un lavoro utile che potrebbe fare l’amministrazione è ridisegnare, con rigore scientifico, la pianta dei pianterreno della città di Roma. Pianta che potrebbe divenire il palinsesto sul quale ragionare e dal quale trarre indicazioni che, aggiornate alla luce delle nuove condizioni, potrebbero fornire un utile contributo di metodo per progettare il nuovo. Un palinsesto che  andrebbe esaminato non col gusto antiquario del nostalgico che vuole riproporre il passato, ma con gli occhi nuovi e spogli di pregiudizi di chi vede i disastri dei contemporanei e si chiede che cosa, della città umana e vivibile, sia andato smarrito.

LABORATORIO LPA – INCONTRO CON ROBERTO MAESTRO SUL PROGETTO PER IL CASILINO 23


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Incontro del 18 1 2010 a Roma sul progetto del Casilino 23
Relazione di Roberto Maestro

Ho lavorato con Ludovico Quaroni per un paio di anni dopo il mio ritorno dall’Africa, all’incirca tra il 1963 e il 1965. Avevamo uno studio in via Nizza dove andavano e venivano vari architetti: alcuni come titolari, altri come collaboratori, altri ancora come semplici amici di passaggio, Un periodo molto stimolante e per me formativo.
Quaroni era il contrario di un capo autoritario: era una persona molto intelligente, ma insicura. Aveva in uggia chi lo definiva “maestro del dubbio” perché riteneva che, se era vero che lui aveva dei dubbi, non era vero che li volesse comunicare agli altri. Aveva un’idea della progettazione architettonica come un lavoro di gruppo, dove ciascuno affidato un ruolo diverso. Idea che gli derivava da una sua esperienza nel cinema, dove ognuno fa la sua parte senza sovrapporsi guidato da un regista e secondo una traccia o un soggetto. Lui per certi aspetti si sarebbe Immaginato come soggettista (anziché che regista). Un soggettista pronto a mettersi in discussione e a lasciare spazio alle idee degli altri, anche se più giovani e inesperti di lui. L’ideale per un giovane architetto poco più che trentenne molto presuntuoso, come ero io e con molta voglia di misurarsi sui grandi temi dell’architettura e dell’urbanistica.

Al tempo del progetto del Casilino 23 sperimentammo una sorta di “brain storming” progettuale, Una tecnica in uso negli studi pubblicitari, consistente nel confronto diretto (scontro) tra idee diverse e quanto più contrastanti tra loro, senza seguire una linea precisa.
Avevamo allora discusso e deciso una qualche linea comune? Io ricordo le cose delle quali si parlava quando si parlava di Roma e della sua periferia, A me la periferia di Roma piaceva, invece Quaroni la trovava anonima retorica e, tolto pochi rari esempi, pretenziosa è volgare. Sosteneva che Firenze aveva conservato il suo carattere anche nella periferia, Roma invece no. Il disegno dei quartieri era inesistente: un insieme di architetture dissociate che non riuscivano a creare un luogo riconoscibile.

È in quel clima di critica alla città contemporanea, che nacque l’idea di un quartiere che costituisse fino dal suo disegno di insieme, un segno riconoscibile, di appartenenza a questa città, Si veda a questo proposito il saggio “Com’era bella la città,come è brutta la città “ pubblicato sulla rivista Spazio e Società di De Carlo.
Facemmo dei disegni basati su forme ellittiche e circolari, che non ci convinsero perché le ritenemmo statiche, chiuse in se stesse, Cercavamo forme urbane che proponessero un disegno estensibile alle zone confinanti, una forma dinamica aperta ad aggiunte e integrazioni. Io avevo vinto il mio primo concorso di progettazione con un motto significativo: “antipaese”.
In quegli anni lavoravo contemporaneamente al progetto del terminal per Venezia con un progetto che proponeva “l’ultima parete del canale grande” una parete che si apriva sulla laguna con un ventaglio di moli,
Tra Roma, Firenze, Venezia, Tunisi era più il tempo che si passava in treno che al tavolo da disegno. È quando siamo lontani da una città che si riesce a immaginarla e a pensarla in modo sintetico (l’ellisse di una piazza, la rotazione delle gradinate del Colosseo…).

È così che nacque l’idea del quartiere Casilino 23. Un disegno che ricordasse un grande rudere fuori scala, come lo sono certe parti della Roma antica che emergono dalla trama delle palazzine. Oggi il progetto lo leggo così, ma quando si scelse quel disegno non pensavamo certo di ispirarsi alla Roma dei Cesari. Cercavamo solo un segno forte “moderno” che fosse riconoscibile anche dall’aereo (Il satellite venne dopo), Un disegno che giocasse sull’effetto prospettico falsato dovuto alla disposizione a ventaglio di corpi di fabbrica ad altezza variabile. L’importante era non creare ripetizione.
Quaroni sosteneva che la ripetizione serve solo al costruttore per ridurre i costi, mentre la gente vuole una casa che sia diversa, riconoscibile. Vuol abitare in un quartiere diverso dagli altri, da amare e da esserne orgogliosi, come lo è per Trastevere ,i Parioli o San Frediano a Firenze.
Sotto questo aspetto possiamo dire che il Casilino 13 si può ritenere un successo: la gente che ci abita, ci si riconosce. Non sempre capita anche quando gli architetti sono bravi (vedi lo “Zen” di Palermo).

Il discorso potrebbe chiudersi qui. Il nostro è  soprattutto un lavoro al servizio della gente. Ho visitato ieri questo quartiere dopo tanti anni, un progetto nel quale abbiamo realizzato solo il disegno urbanistico, ma che è stato realizzato con pochissime varianti, I progettisti dell’architettonico che hanno seguito le nostre indicazioni in modo intelligente (condividendone gli obiettivi) sono, secondo me quelli che hanno lavorato meglio, Ma il progetto urbanistico era sufficientemente forte per reggere anche variazioni nell’architettura dei singoli fabbricati.
Io preferisco, naturalmente, quel gruppo di case rivestite in cortina di mattoni, contenute in una geometria solida semplice, senza tanti giochi di balconi sporgenti, e con il tetto che segue  un’unica linea di pendenza dall’altezza di un piano a quella massima di otto piani. Averne costruiti di più alti mi sembra sia stato uno sbaglio.

Ritengo comunque che la città sia un organismo vivo difficile da ingabbiare in un disegno definito una volta per tutte. Le variazioni apportate derivano da scelte economiche forse inevitabili. Ad esempio il centro commerciale, posto nel fulcro del “Ventaglio” è stato orientato con il fronte verso il quartiere esterno, molto più popoloso. Così l’attività commerciale interna al quartiere non ha retto la concorrenza. Si poteva evitare forse, che il quartiere perdesse quella vivacità determinata dalla presenza di attività commerciali integrate alla struttura residenziale.
Per il resto il quartiere si presenta bene. È tenuto pulito, la gente si comporta in modo educato, curando i giardini e gli spazi comuni. Io dopo aver traversato una periferia romana fortemente degradata, ne sono rimasto  piacevolmente sorpreso e ammirato. Ma questo è merito dei suoi abitanti che si sono organizzati in difesa del proprio quartiere e di conseguenza della propria città. A questi vanno i miei complimenti insieme agli auguri di successo per gl’ impegni futuri.

Roberto Maestro
Roma 18 1 2010

 

 

 

Plastici dei progetti iniziali


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Una delle alternative al progetto definitivo


Plastico di studio della versione definitiva

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