Tag Archives: modernità

RICCARDO MORANDI E IL PROBLEMA DELLA SICUREZZA

LE CREAZIONI DI MORANDI E L’OBBLIGO DI MANTENERE LA SICUREZZA

di Giuseppe Strappa

La Repubblica del 27 agosto 2018

Manfredo Tafuri lo definiva, senza mezzi termini, “il più valido e inventivo strutturista italiano”.
Nato a Roma e di formazione romana, Riccardo Morandi è stato uno dei protagonisti della fortunata stagione che, negli anni del miracolo economico, ha portato l’ingegneria italiana ai vertici mondiali.
I suoi ponti hanno costituito il simbolo della rinascita del paese. Come la Vespa o, meglio, la Ferrari.
A Roma Morandi ha costruito i cinema Maestoso, Augustus, Giulio Cesare, e le innovative strutture “strallate” degli hangar di Fiumicino e del viadotto della Magliana.
Di Morandi in questi giorni si parla molto e a volte a sproposito.
Dopo il disastro di Genova, col passare dei giorni e delle interviste, un’ombra di dubbio sembra avanzare sulla validità del suo progetto. Si cita, tra l’altro, una frase di Bruno Zevi che osservava, negli anni ‘70, come le strutture di Morandi sembrassero “raggelate un momento prima del crollo”. Una frase che, riportata così, fa venire i brividi. Ma inserita nel contesto in cui è stata pronunciata, può servire a chiarire il problema. Zevi era il portatore non solo di un’accezione estrema dell’estetica informale, ma anche della convinzione condivisa che le case, i grattacieli, le centrali nucleari, come le macchine, dovessero avere una vita limitata.
Era crollata quell’idea di durata che per secoli era stato il riferimento di ogni costruttore.
Morandi, come ogni grande architetto, esprimeva in pieno la cultura del proprio tempo. Con lo stesso spirito, in tutto il mondo, si sono costruite grandi strutture in precompresso, dove sono in equilibrio meccanico enormi sforzi di trazione nei cavi d’acciaio e compressione nel calcestruzzo. Un equilibrio rischioso e precario se la manutenzione non ne garantisce il funzionamento.
Noi oggi facciamo i conti con questa eredità di tecnologie sofisticate e fragili che richiedono cure continue. Possiamo continuare a mantenerle in vita, ma dobbiamo valutare ed essere disposti ad affrontarne i costi.
Sapendo, però, che in questo campo non esistono fatalità.

ALESSANDRO ANSELMI arte e figure della modernità

locanselmi

nuovo corso di laurea triennale in scienze dell ’architettura
laboratorio di lettura e progetto dell ’architettura

ALESSANDRO ANSELMI
arte e figure della modernità

Ciclo di conferenze del nuovo corso di laurea triennale in scienze dell ’architettura

Introduce
Giuseppe Strappa

Intervengono
Paola Veronica ell ’Aira
Alfonso Giancotti
Luca Reale

lunedì 19 dicembre,2011,ore 12,00
Facoltà di Architettura,sede di Valle Giulia
via A.Gramsci 53,Aula Fiorentino

Organizzazione
Alessandro Camiz

Segreteria
Alessandro Bruccoleri,Pina Ciotoli,Virginia Stampete,Endriol Doko

 

I NUOVI MUSEI CAPITOLINI


di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 20.12.2005

I molti progetti che Carlo Aymonino ha studiato per l’ampliamento dei Musei Capitolini costituiscono un patrimonio di sperimentazioni sui quali, ritengo, occorre riflettere. Essi dimostrano, per prima cosa, come una naturale vocazione alla trasformazione sia contenuta, per così dire, nello stesso DNA di alcuni edifici. Molti spazi aperti racchiusi al centro di organismi architettonici tendono, in realtà, a “solidificarsi” nel tempo, a formare un nuovo grande vano intorno al quale si annoda e ruota la vita dell’edificio. Una nuova sala centrale, protetta da strutture leggere e trasparenti, diviene così non solo il nodo di flussi di percorsi, ma anche il teatro nel quale si rappresenta l’epifania dell’edificio rinato. Molti tipi edilizi  moderni, i palazzi postali o le borse, ad esempio, derivano dall’”annodamento” di cortili di palazzi, chiostri di antichi conventi. Lo stesso teatro moderno, a partire da quello elisabettiano, nasce in un modo non molto diverso.
La trasformazione dei Musei Capitolini attraverso la copertura dello spazio aperto tra la Galleria degli Horti Lamiani e Palazzo Caffarelli, appare, in questo senso, una scelta di continuità, una sorta di “naturale” aggiornamento del quale era convinto anche Virginio Vespignani, che qui aveva costruito un padiglione ottagonale, poi demolito all’inizio del’900. Una soluzione, in verità, non del tutto felice perché, evitando di continuare processi formativi in atto, dava luogo ad un edificio nuovo e indipendente. Se n’è subito reso conto Aymonino quando ha abbandonato una prima ipotesi di costruzione circolare nel Giardino Romano per disegnare, nel ’93, una lineare, limpidissima copertura, poggiata sugli edifici esistenti che lasciava del tutto libera la preziosa area archeologica sottostante. Sarebbe stata la soluzione ideale: un gesto unitario e sintetico, il cui metodo anticipava di anni la  magnifica struttura con la quale Norman Foster ha “annodato” il labirinto delle sale espositive del British Museum.
Forse era destino che nell’area capitolina, dove la storia ha intrecciato per secoli le molteplici vicende degli edifici e degli uomini, questa rigorosa soluzione dovesse  trasformarsi. Ma è un fatto che, insieme all’innovativa indicazione di leggere e assecondare le trasformazioni tipiche  dell’organismo architettonico, l’opera realizzata, con la sua copertura semiellittica poggiata su sei grandi pilastri circolari,  finisca anche col riproporre, purtroppo nei termini consueti, la vexata quaestio dell’inserimento del nuovo nei contesti antichi.