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La grande cucina del mondo – Cibo & Architettura

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Editoriale di U+D  Urbanform and Design  n°2

di Giuseppe Strappa

Il messaggio messianico dell’appena inaugurata Esposizione universale di Milano e la fiera di forme destinata a comunicarlo, esprimono in modo didascalico le contraddizioni alimentari/architettoniche del pianeta. In questo senso l’ Expo è realmente una rappresentazione planetaria: la deriva contemporanea dell’ opulenza estetizzante dei paesi affluenti che chiede all’arte la sua legittimazione. Molto più, ad esempio, del defilé 2016 di Dior che si è svolto nel celebre Palais Boulles sulla Costa Azzurra, oggi di proprietà di Pierre Cardin. Lì il lusso per pochi di una casa di moda di fama mondiale s’incontrava con la rivoluzione senza centro sognata dall’ abitologo Antii Lovag, costruttore di eccentriche, costosissime ville ispirate a un organicismo di maniera, evocato dal succedersi di forme ameboidi per la gioia dei ricchi della terra. La principesca convivialità sferoidale dell’avanguardia radicale divenuta location e icona delle sfilate più esclusive: il mercato dell’arte solidale a quello della moda. Nulla di nuovo sotto il sole. Sarebbe stato banale, e non meriterebbe attenzione, se, all’interno dell’attuale sistema della comunicazione, elusivo e lucroso, i prodotti eleganti elaborati dall’estro di cuochi e architetti (piatti creativi e architetture spettacolari che soddisfano palati ansiosi di novità) si fossero incontrati a Milano in una fiera raffinata che mette insieme master chef e archistar. Viene invece esibito, mettendo a nudo l’ipocrisia della parte del mondo che ha la pancia piena, un progetto consolatorio, di conciliazione degli opposti. La novità che fa rabbrividire (si fa per dire, ormai siamo abituati a tutto) è l’intenzione di comunicare attraverso i mezzi e i segni delle società dello spreco, un messaggio etico. Nutrire il pianeta. Né più, né meno: ristoranti vip e biodiversità, cucina sostenibile e insaccati identitari che si chiamano “Psychedelic Spin-painted Cotechino”, apparizioni Chic (Charming italian chef) e redenzione dalla fame universale. Come se fosse un mistero che la fame nel mondo è un problema di equilibrio tra risorse e distribuzione. Fabrizio Galimberti notava in proposito, sul Sole 24 Ore, che i prezzi reali del cibo, sul nostro pianeta, sono diminuiti dagli anni ’50 a oggi, segno evidente che la produzione (l’agricoltura, l’allevamento) riesce sempre meglio a soddisfare la domanda. Il fallimento, nell’alimentazione come in architettura, sta tutto nella dilapidazione, nel non sapere (volere) adeguare le risorse ai risultati. La catastrofica An Gorta Mór, la carestia delle patate rimasta tra i grandi disastri del paese, osservava Galimberti, ebbe luogo in un’Irlanda piena di patate. Come nella lingua, esiste ancora, in molte parti del mondo, una cucina quotidiana della necessità, un “parlato” delle materie prime elaborate in modo congruente e necessario, frugale, cui corrisponde una lingua “ufficiale” altrettanto sobria, misurata: i piatti delle cerimonie e dei ristoranti che seguono la vocazione degli ingredienti rispecchiando, comunque, l’ordine e l’aggregazione dei sapori. Come in architettura. E poi esiste la cucina delle società opulente, delle multinazionali del cibo, della Coca Cola e della MacDonaldizzazione, dove i sapori sono imitazioni e manipolazioni. Un parlato quotidiano al quale corrisponde, anche qui, la lingua aulica dei grandi chef, più spettacolare ma altrettanto contraffatta, e inoltre creativa, egocentrica. Come in architettura. Il Padiglione Italia è un po’ la sintesi estetica di queste contraddizioni, costruito com’è su opposti slogan che evocano problemi alla moda: il primitivismo di una struttura naturale, l’immagine della “foresta urbana”, la texture dell’ involucro ramificato che suggerisce tecnologie up to date, la Land Art…. È il sito ufficiale dell’Expo a darne l’interpretazione autentica: il padiglione è un vivaio “metafora rappresentativa di uno spazio che aiuta progetti e talenti a germogliare, offrendo loro un terreno fertile” dove, come ci si può aspettare, tra riferimenti a radici, linfe e chiome, l’albero ” è il simbolo della vita, della natura primigenia, icona centrale intorno cui disporre tutti i contenuti.” Ma dove sono i contadini, gli allevatori, i pescatori, si chiede Carlo Petrini. E qualcuno si è chiesto cosa si sarebbe potuto fare per la fame nel mondo, nelle favelas sudamericane o africane o asiatiche, con i milioni di euro spesi per l’ Expo. Costruito con una struttura convenzionale in calcestruzzo e acciaio, il padiglione è rivestito da un carter di un miracoloso cemento che “cattura gli inquinanti presenti nell’aria e li converte in sali inerti”. Non il rivestimento come manifestazione e fase conclusiva del processo di costruzione della forma, ma l’addizione costosissima e pittoresca, estranea e autonoma cui la costruzione fa da sostegno. Non solo la soia trasformata perché sembri una bistecca o un formaggio: molto di più e a costi infinitamente maggiori. Un’operazione di marketing, peraltro, ormai consueta. Si è scritto in proposito, in questi giorni che nessun padiglione ha mai preteso la durata di altre architetture che lo scopo di un padiglione è la sua stessa novità. Tralasciando i tanti precedenti (a partire dall’ormai storico stadio di Pechino) rispetto ai quali l’opera milanese non è che un tardo epigone e senza citare gli esempi di straordinaria “permanenza monumentale del temporaneo” (La Tour Eiffel, il Crystal Palace, la Biosfera di Montreal), come non ricordare quanti padiglioni di esposizioni universali hanno espresso appieno lo spirito del tempo? Rimanendo nella memoria, quando il tema lo richiedeva, quali simboli di parsimoniosa misura ed economico rigore. Come quello disegnato da Eiermann e Ruf per l’Esposizione di Bruxelles del ‘58, essenziale, castigato, antiretorico nell’indicare la strada di nuova Germania uscita dalla guerra, in piena ricostruzione, o il paraboloide iperbolico progettato da Le Corbusier per la Philips, vera ricerca sull’espressione geometrica del mondo elettronico dove i materiali sono impiegati in modo essenziale, organico, nella costruzione che coincide con la forma. I padiglioni milanesi, che dovrebbero indicare la “condivisione dei saperi e sapori”, lanciano in realtà ben altri messaggi. Indicano, allo stesso modo di un esperimento in vitro estendibile e generalizzabile nelle sue conclusioni, come oggi possediamo la rovinosa, egoistica disposizione a invadere i luoghi, utilizzando ancora i principi romantici del pittoresco dissimulati come ricerca avanzata. Certo, non è più possibile, nel mondo del virtuale e della simulazione, parlare di autenticità, tanto meno per gli spazi di una fiera. Ma l’idea di realtà evocata e suggestiva che sta alla base dei padiglioni dell’Expo milanese, l’estetizzazione del cibo e dell’architettura, è la stessa che muove l’ego di tanti progettisti: il centro d’osservazione del paesaggio costruito, che ne modifica i contorni secondo una prospettiva spettacolare, sono i desideri e le attese del mercato. Per questo il Padiglione è il simbolo di come noi, oggi, invadiamo il paesaggio costruito. Per quanto non esista progettista che non affermi di aver impiegato, nel disegno di una nuova costruzione, la più grande attenzione per quanto già esiste, non c’è progetto che non sia, a suo modo, padiglione di una qualche Expo, che non usurpi col proprio egocentrismo, facendo perdere loro qualche qualità, i caratteri dei luoghi. Omologando ogni cosa, distruggendo, a modo loro le biodiversità degli organismi. Osservazione, questa, tutt’altro che polemica. L’idea di invasione dei luoghi giace da tempo, accuratamente nascosta, negli strati profondi della coscienza moderna. Almeno dai tempi del Loos di Parole nel vuoto. Uno dei veri fondamenti etici dell’architettura consiste, a me sembra, nel rispetto delle cose che ci circondano, dei processi formativi che hanno portato il mondo costruito a essere molteplice. Dovremmo esercitare la critica che ogni lettura architettonica dovrebbe contenere: dovremmo soprattutto continuare: correggere, indicare. E studiare la struttura leggibile dell’ambiente abitato, la forma reale delle cose, come antitodo a narcisismi e spettacolarizzazioni. A settembre si terrà, a Roma, il ventiduesimo convegno di Morfologia Urbana organizzato dall’Isuf, International Seminar on Urban Form. L’abbiamo dedicato, con un titolo fuori moda, alla “città come organismo”, nella convinzione che esistano strade diverse da quelle del consenso universale, che non tutto quello che è universalmente accettato come buono e nuovo è realmente buono e nuovo.

UNA NUOVA SCUOLA PER GLI ARCHITETTI

di Giuseppe Strappa


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in «Corriere della Sera» del 11.04.08

Una grande città come Roma ha bisogno, è ovvio, di buoni architetti. Ma non bastano le iniezioni di architettura, le grandi opere disegnate da star internazionali che possono servire, al più, a promuoverne l’ immagine. Occorre che a Roma si formino nuove generazioni di bravi architetti: la vera modernità, quella che trasforma i luoghi dove pulsa la vita, le periferie, i quartieri sovraffollati, le borgate, sarà progettata dalle centinaia di architetti che, ogni anno, sfornano le nostre facoltà. Ma è vero, come è stato scritto su queste pagine, che oggi questa formazione è un po’ provinciale. Il vero ritardo del nostro intero mondo dell’ architettura è, in realtà, e da anni, dovuto al terrore stesso di essere provinciali.  Sull’onda delle mode, delle nuove specializzazioni, delle contaminazioni tra  discipline, l’insegnamento si è frammentato in mille rivoli. Corsi di laurea triennali di ogni tipo dovrebbero ampliare l’ ’”offerta didattica”, secondo un’espressione da grande magazzino ormai in voga. Come se, per affrontare la complessità di un mondo in convulsa trasformazione, bastasse disperdersi nei suoi infiniti meandri. Inseguendo tendenze e specialismi, si è dimenticato, così, che il centro dell’attività dell’architetto è il progetto, la sintesi che unifica in un solo gesto costruttivo strutture, spazi, materiali, impianti.
Forse siamo allo stadio terminale di una schizofrenia genetica delle facoltà di architettura italiane, nate dall’unione di insegnamenti di ingegneria con quelli delle accademie di belle arti: due anime che non hanno mai trovato una vera fusione. Eppure la Scuola di Architettura romana delle origini ha rappresentato, unificando ogni disciplina nel progetto,  un modello diverso nel quadro italiano che ha prodotto non solo grandi architetti, ma figure importanti in molti campi della cultura: grandi storici, restauratori, archeologi, costruttori, scenografi, critici la cui originalità consisteva proprio nel vedere il mondo con gli occhi del progettista.
Per non essere provinciali forse basta guardare alle nostre spalle, pensare (come si sta, peraltro, sperimentando altrove) non ad facoltà universitaria, ma ad una moderna scuola dove ogni disciplina non si chiude nel proprio statuto, ma è concentrata su un solo scopo: l’educazione al progetto. Sarebbe una scelta contro quella perdita di centro che ha comportato la deriva superficiale dell’architettura italiana testimoniata dalle goffe e datate polemiche in corso. Ultima quella sui nuovi progetti milanesi che vede Mike Bongiorno e Fuksas parlare, con gli stessi argomenti, ancora del grattacielo come energia futura della città. Specchio di questa condizione è l’involontaria autoironia con la quale Milano si accinge a costruire i propri simboli contemporanei come scintillanti oggetti di design: una torre  strizzata e ritorta, un grattacielo puntellato, un altro ripiegato su sé stesso, curvo e molle, come afflosciato dopo uno slancio vitale.