di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 22.11.2004
Alla fine degli anni ’70 apparve Delirious New York, uno strano saggio che proponeva, per la città futura, il modello della metropoli americana, la “cultura della congestione”, della precarietà, della trasformazione continua. La densità e l’instabilità non erano più problemi urbanistici, ma qualità necessarie da comprendere, coltivare, riprodurre nei progetti attraverso la compresenza, perfino il conflitto, di molte funzioni.
Per la prima volta il suo autore, l’olandese Rem Koolhaas (giornalista e sceneggiatore prima di divenire architetto), eleggeva la congestione ad essenza stessa della condizione contemporanea, l’ accoglieva come il “vero fuoco della modernità”: l’ assumeva, insieme, come valore e metodo di progettazione.
La trama regolare delle strade di Manhattan cessava così di essere letta come tracciato ordinatore per trasformarsi in territorio neutro, disponibile alla scrittura di “un capitolo nuovo nella storia della sopravvivenza, dove la lotta si combatte tra specie meccaniche”.
New York, che nei primi decenni del secolo scorso, con le sue contraddizioni e le sue seduzioni, aveva avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario moderno europeo (“una catastrofe – diceva Le Corbusier – ma una bella, degna catastrofe”) diveniva il modello della città che si rigenera e ricostruisce ciclicamente contenendo il germe dello sterminio e della creazione. Da Metropolis a Blade Runner e oltre.
Proprio in questi giorni Rem Koolhaas è stato scelto come progettista per la trasformazione delle aree dei Mercati generali all’Ostiense.
Sebbene sia convinto che Roma abbia il dovere storico di trovare una propria strada all’architettura contemporanea, credo che la decisione abbia almeno due aspetti positivi.
Il primo è che si compie una sperimentazione in un luogo finalmente opportuno.
L’area dei mercati all’Ostiense pone, infatti, il problema, comune a molte città europee, delle grandi aree dismesse le cui complesse domande sembrano richiedere le soluzioni che Koolhaas ha sperimentato in tutta Europa attraverso un metodo combinatorio capace di mediare la rigidità dell’architettura costruita con l’inevitabile indeterminatezza e mutabilità dei programmi. Non un progetto ma una strategia di grafici che si frammentano, stratificano, coagulano come layer sullo schermo di un computer.
Il secondo è che una grande opera romana (delle dimensioni delle Halles parigine) viene affidata ad un autentico innovatore dell’architettura europea.
La sua teoria del “manhattanismo”, elaborata in forme sempre più sofisticate, sperimentata nel corpo vivo delle città europee, è stata probabilmente la ricerca più originale sull’architettura moderna dalla scomparsa dei pionieri. Una ricerca che da vent’anni viene imitata un po’ dovunque.
E proprio perché una schiera di epigoni, in tutto il mondo, ha trasformato le sue intuizioni in convenzioni stilistiche e la durezza perentoria delle sue architetture in commerciale maniera, il contatto con una delle radici profonde della ricerca contemporanea costituirà forse un’iniezione salutare nella cultura romana.