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LETTURA DEL TERRITORIO

PROF. GIUSEPPE STRAPPA

 

1. IL TERRITORIO COME ORGANISMO

Il territorio è architettura nel suo significato più pieno.
Esso nasce dalla collaborazione tra uomo e natura.
La derivazione etimologica del termine (da terra contrapposto al termine mare) contiene la nozione di luogo abitato, quindi trasformato, costruito e ricostruito dalla mano dell’uomo, contrapposto a quella di luogo inabitato.
Il territorio è anche una grande eredità civile, un patrimonio nel quale sono inscritte le scelte e le trasformazioni operate dalle popolazioni che vi sono vissute. Per questo ogni intervento a questa scala obbliga alla comprensione dei caratteri che possiamo conoscere attraverso la sua forma, sapendo che questa forma è l’esito riconoscibile di un processo in atto.
Essendo il territorio costituito da parti collaboranti, è possibile leggerlo attraverso la nozione di organismo, cioè di insieme di elementi, strutture, sistemi legati da un rapporto (variabile nel tempo) di necessità. E come in ogni organismo è possibile riconoscere nel territorio fasi e cicli storici che ne determinano la formazione, la trasformazione, la frammentazione, la rovina.
Quella di organismo territoriale come luogo abitato costituito di parti collaboranti (percorsi, insediamenti, aree produttive) è, dunque, una nozione complessa che sintetizza i processi analizzati a tutte le scale minori: organismo edilizio, organismo aggregativo, organismo urbano.
Il concetto di territorio deriva dal nesso che lega l’idea di suolo naturale a quella delle trasformazioni artificiali operate dall’uomo nel processo di antropizzazione (trasformazione abitativa e produttiva) del suolo stesso. Noi cogliamo questo processo attraverso momentanei stati di equilibrio che  restituiscono un’idea discreta di una sequenza storica che è, invece, flusso continuo di modificazioni e rivolgimenti.
Per questo non è comprensibile il senso storico-processuale di un organismo urbano o di un sistema di percorrenze, se non si colloca la loro formazione all’interno di un rapporto di necessità con l’insieme delle relazioni instaurate nel tempo e nello spazio entro il proprio intorno territoriale. Questa forma del territorio antropizzato non é che l’aspetto visibile di una struttura di relazioni che lega nella nozione di organismo i diversi gradi scalari del costruito e che indicheremo col termine “paesaggio”.
L’organismo territoriale si forma e sviluppa secondo processi differenziati storicamente ed arealmente che possiedono, tuttavia, una loro tipicità, al pari di ogni altro esito del processo antropico. Si può parlare dunque di “tipo territoriale” come insieme dei caratteri fisici processualmente ereditati (patrimonio) comuni ad un intorno storico-geografico, ovvero come insieme delle nozioni e scelte insediative comuni che determinano il complesso delle operazioni di trasformazione del luogo naturale in luogo abitato.
Questa tipicità di comportamento si individua (assume caratteri individuali, unici, irripetibili) nelle trasformazioni reali del suolo determinate nello spazio e nel tempo in funzione di variabili naturali (sistema oro-idrografico, natura geologica del suolo ecc.) e storiche (in relazione, cioè, ad una determinata fase civile). Grazie alla nozione di tipicità è possibile riconoscere il maggiore o minore grado di organicità di un territorio, il quale può essere costituito anche da elementi relativamente autonomi e seriali, che comunque risultano polarizzati da un ordine formativo (dislocativi) più generale, insito nella nozione stessa di organismo.
A somiglianza di quanto avviene nel primo e più elementare dei processi di trasformazione antropica, cioé della materia in materiale, anche l’ultimo e più complesso fenomeno di trasformazione del suolo naturale in suolo abitato é relazionato a scelte operate attraverso un processo di selezione e specializzazione.

–    la selezione (da seligere, scegliere) deriva dalla coscienza della differenza tra le cose e dal riconoscimento della loro idoneità ad essere utilizzate e trasformate. L’operazione di selezione è qui intesa come scelta dell’attitudine di un suolo ad essere percorso, ad essere trasformato per uso abitativo o produttivo; potrebbe essere identificata come momento logico nel rapporto di collaborazione tra uomo e natura, quello attraverso il quale vengono valutate le diverse possibilità degli elementi componenti ad essere utilizzati, eventualmente dopo convenienti trasformazioni;

–    la specializzazione, è l’attività di restringere e trasformare i caratteri di una cosa per renderla adatta a particolari finalità. Deriva dall’individuazione del rapporto di complementarità e necessità tra le cose. L’operazione di specializzazione è qui intesa come trasformazione di parti di suolo in funzione dei particolari ruoli che devono svolgere all’interno dell’organismo territoriale. Gerarchizzandosi, ad esempio, i percorsi assumono caratteri e qualità diverse in relazione al rapporto che instaurano con l’insieme del territorio. In questo senso la stessa costruzione che, se vista sotto il solo aspetto tettonico può essere considerata trasformazione finalizzata di materia, può qui essere intesa secondo la diversa ottica di modificazione specializzata di una porzione di territorio. La specializzazione può essere identificata come momento tecnico-economico nel processo di antropizzazione del territorio, quello nel quale interviene la finalizzazione individuale, cui succederà una finalizzazione collettiva e una sintesi organica leggibile.

Queste operazioni possono essere lette attraverso una prima, fondamentale diade di termini opposti e complementari composta da “insediamenti” e “percorsi”, legati al moto ed alla sosta in funzione dei bisogni primordiali dell’uomo di proteggersi e alimentarsi.
Da quanto esposto si riconosce al termine “insediamento” il significato di struttura provvisoria o stabile costituita da un insieme di abitazioni relazionate organicamente ad un’area complementare produttiva. Potremmo pensare i primi insediamenti provvisori, come appartenenti alle civiltà dei cacciatori e raccoglitori, seguiti da insediamenti semistanziali, legati alle prime forme di coltivazione o allevamento, dove la nozione di dimora (etimologicamente derivata da de-morari, indugiare, con il senso di permanenza in un luogo) viene associata più stabilmente a quella di area di pertinenza. Il possesso di un’area é dovuto, in origine, all’appropriazione causata dal lavoro  che vi veniva svolto con maggiore o minore continuità. E’ da ritenere, a questo riguardo, che le prime, embrionali forme stabili di aree di pertinenza possano essere associate alle trasformazioni antropiche dell’età neolitica, con la diffusione delle coltivazioni, soprattutto cerealicole, dovuta all’esigenza di superare l’instabilità della semplice raccolta sporadica.
Ma la definitiva nozione di associazione di un suolo alle strutture costruite dall’uomo per utilizzarlo, e cioé alle modificazioni antropiche stabili, é da ricercare in quelle fasi storiche e in quelle aree dove la necessità di continua manutenzione del suolo comportava una maggiore consuetudine tra lavoro dell’uomo e area produttiva, come nei territori dove le condizioni per la coltivazioni dovettero essere prodotte artificialmente attraverso sistemi di irrigazione permanenti  che comportavano tanto una collaborazione organica tra opere artificiali e suolo naturale quanto una collaborazione organizzativa e specializzazione tra gruppi di lavoro all’interno della comunità agricola.
Questo atto di addomesticamento delle condizioni naturali del suolo, comportando trasformazioni da operare sulla natura semplicemente “incontrata”, implica infatti non solo una scelta insediativa, ma anche la chiara coscienza dell’appartenenza di un suolo alla comunità che lo lavora.
E’ un passaggio culturale che avviene gradualmente attraverso fasi successive di semistanzialità.
Nella conquista della coscienza di identità sociale (il riconoscimento dell’appartenenza al gruppo) collegata alla coscienza di identità territoriale (il riconoscimento di un suolo di pertinenza, più o meno esteso, appartenente al gruppo) consiste l’origine profonda  della natura conflittuale delle trasformazioni territoriali. Natura conflittuale che, evidentemente, non é solo,come potremmo oggi dedurre dalla pura osservazione dei fenomeni di frammentazione in corso, un portato della modernità (della formazione delle grandi periferie urbane, dell’aggressione della speculazione edilizia alla condizione di equilibrio che le nostre generazioni avrebbero ereditato) ma conseguenza dello stesso processo formativo della nozione di “pertinenza”  .
L’appropriazione dell’area avviene progressivamente col consolidarsi della stabilità della dimora e del rapporto di uso produttivo col suolo: dall’ allevamento brado al pascolo, dall’area di caccia alla riserva, dall’area di raccolta al suolo pubblico (in età storica l’ager publicus  romano o il legnatico  medievale). A partire da questi processi si svilupperà una partizione delle proprietà pubbliche e private progressivamente associate al costruito quanto più l’area mostrerà sucettibilità insediativa, dando origine al concetto giuridico di proprietà del suolo fondamentale nella dialettica formativa dell’assetto del territorio.
Processi che lasciano, ovviamente, un loro segno visibile sul territorio il  qulae, per questa ragione, può essere considerato nel suo aspetto fondamentale di “documento”.
Con il passaggio dall’allevamento brado al pascolo si consolida, infatti, la nozione di recinto  associata a quella di area di pertinenza nella doppia funzione di protezione e contenimento: le palizzate del neolitico avevano tanto lo scopo di proteggere quanto di impedire la fuga.
La coltivazione, inizialmente costituita soprattutto da cereali, rappresenta una rivoluzione antropica anche per la necessità di specializzazione dell’abitazione che comporta, dovendosi assicurare, associato allo spazio per la vita domestica, le strutture per la conservazione del raccolto, spesso, nelle aree eurasiatica e nordafricana, nella forma specializzata di silos circolari . Ma il processo di progressiva organicità del territorio matura solo con l’integrazione tra le diverse concause che originano la strutturazione antropica: integrazione non progrediente in modo continuo, anzi, ciclicamente conquistata e riperduta. Delle relazioni  tra queste componenti che tendono a stabilire un rapporto organico tra loro,  alcune hanno valore fondamentale e la relativa cartografia acquista particolare valore per il progettista:
– quelle connesse alla produzione, e cioé tra insediamenti, attività agricola ed allevamento. Solo quando l’integrazione tra fertilizzazione del suolo e produzione di foraggio per l’allevamento si sviluppa in modo continuo, si può parlare di organismo produttivo associato al territorio. Associazione che diviene complessa, ma ancora processualmente leggibile, con la rivoluzione industriale. La contemporanea cartografia dell’ uso del suolo semplifica e riduce i poli e le aree di attività produttiva. Si veda come esempio la cartografia dell’Istituto Geografico Militare al 50.000 (alla fine del XIX secolo scorso) e al 25.000 (nel XX secolo).
– quelle connesse alla proprietà, e cioé tra suoli pubblici e privati. Solo quando viene stabilito e regolamentato l’uso dei suoli a disposizione della comunità integrati ai fondi privati, si può parlare di organismo fondiario (v. più oltre l’esempio del sistema a centuriatio). La cartografia catastale contemporanea semplifica la rappresentazione del territorio indicando i soli confini di proprietà alle scale 2.000 o 1.000.
Riguardato come organismo il territorio risulta composto, per la definizione generale data,  da insiemi di strutture riconoscibili come concorrenti al medesimo fine, ma non autonome: segnatamente, per comprendere il processo formativo dell’organismo territoriale, occorre prendere in esame il  sistema viario o sistema delle percorrenze, e quello strettamente correlato degli insediamenti , o sistema insediativo e, in seguito, una volta esaminato l’impianto generale, anche il sistema della partizione delle proprietà del suolo, o sistema fondiario, e il sistema, strettamente correlato, della utilizzazione delle risorse naturali (aree agricole e manifatturiere) o sistema produttivo, che si formano in una fase storicamente più matura del processo di antropizzazione del territorio.
Questi sistemi non svolgono compiti astrattamente di collegamento, di abitazione e produzione, ma sono inscindibilmente collegati, oltre che tra loro, al relativo sistema oro-idrografico da relazioni organiche: un promontorio naturale, separato da due displuvi, costituisce un primo intorno nel quale l’uomo riconosce caratteri specifici, trova un’identità tra gruppo e suolo naturale, così come, in una fase successiva, un bacino idrografico, isolato da confini orografici difficilmente superabili, costituisce la sede di sviluppo di un’area culturale relativamente omogenea per la facilità degli scambi interni che consente. Questi quattro sistemi, benché strettamente integrati, sono inoltre polarizzati per diadi: non solo storicamente, ma anche logicamente percorrenze e insediamenti costituiscono a loro volta sottosistemi di un sistema di maggiore complessità all’interno dell’organismo, così come fondi e strutture produttive possono essere riguardati come formanti un unico sistema unitario.

2. LETTURA E RAPPRESENTAZIONE DEL SISTEMA DELLE PERCORRENZE, DEGLI INSEDIAMENTI, DELLE AREE PRODUTTIVE

La cartografia è una rappresentazione simbolica di una porzione di territorio: come tale essa costituisce il risultato di una riduzione critica delle nozioni dedotte dall’osservazione del territorio stesso, comunicate attraverso forme simboliche.
Il simbolo (dall’indoeuropeo symballein, unire, mettere insieme), a sua volta, esprime in modo sintetico diverse nozioni considerate fondamentali: esso è dunque frutto di una scelta e di una selezione. Per questa ragione lo strumento cartografico (i simboli e la struttura che lega i simboli tra loro) è in diretta relazione con l’idea che l’autore ha espresso, all’interno di un’area culturale e di una determinata fase storica, del territorio che ha rappresentato.
Come è possibile tracciare le linee di un processo di trasformazione del territorio, così è possibile tracciare le linee di un processo di trasformazione degli strumenti cartografici. Il quale testimonia non solo (e non tanto) le mutazioni dei caratteri del territorio stesso, ma, soprattutto, la conoscenza e coscienza che, nelle diverse fasi storiche e nei diversi intorni civili, l’uomo ha avuto dell’ambiente costruito contemporaneo o del passato.
La Tabula Peutingeriana riporta soprattutto una struttura di percorsi; nell’atlante dell’Italia di Giovanni Magini (1620) non compaiono quasi i percorsi di terra; in una moderna carta automobilistica la rete stradale prende il sopravvento sulla rappresentazione degli altri dati osservabili sul territorio; la pianta di una metropolitana, infine, è soprattutto il disegno simbolico ed astratto di una rete, senza rapporto diretto con le dimensioni fisiche delle distanze tra i poli collegati.
Per il progettista, al quale occorre leggere il territorio in modo attivo, avendo come fine l’intervento, è dunque fondamentale estrarre con coerenza le informazioni dalle cartografie disponibili.
Questa coerenza costituisce il legame tra soggetto e oggetto della lettura territoriale: tra quello che il progettista cerca attraverso la rappresentazione cartografica (legata alla propria nozione di territorio ed allo scopo della lettura) e quanto le diverse cartografie possono offrire (legato alla nozione di territorio dell’autore e allo scopo della rappresentazione).
Nel seguito si riporta un criterio di lettura, legato alla nozione di territorio inteso come organismo, attraverso l’esposizione sintetica della nozione di organismo territoriale, della rappresentazione delle sue strutture (fondamentali all’interno della nozione di organismo esposta), degli strumenti operativi che permettono di estrarre dai diversi tipi di cartografia le nozioni ritenute utili.

La rappresentazione della struttura del territorio, individuata attraverso le fasi del suo uso antropico, non può che iniziare dalla lettura dei percorsi: dal modo nel quale essi si formano, si consolidano, si articolano, specializzano e gerarchizzano tra loro in modo collaborante, in rapporto di reciproca necessità secondo relazioni di congruenza e proporzione con gli insediamenti cui fanno capo. Il moto dell’uomo sul suolo, i segni lasciati dagli spostamenti, attraversamenti, migrazioni, precedono, infatti,  qualunque altra traccia: qualsiasi struttura legata ad attività lavorativa e stanziamento viene associata ai percorsi, più o meno stabili, che ne permettono l’esistenza.
I percorsi, come ogni dato della realtà costruita, hanno una loro tipicità, sono cioé  riconoscibili, nel loro formarsi ed evolversi, caratteri comuni che ne individuano storicamente la fase di appartenenza e, arealmente, la pertinenza ai caratteri naturali  del suolo cui sono associati.
Una prima, orientativa distinzione tra percorsi tipici può essere attuata attraverso la gerarchia del compito che svolgono, e quindi attraverso le polarizzazioni che distinguono i tracciati definendone le scale:
percorsi territoriali generati in origine dalle migrazioni ed, in seguito, dai collegamenti tra aree culturali di grande polarizzazione (ne sono esempio contemporaneo i percorsi autostradali) ;
percorsi locali, interni a ciascuna area o tra aree di confine, polarizzati dagli insediamenti e dai nuclei urbani;
percorsi fondiari, collegamenti alla scala delle aree produttive;
percorsi urbani, collegamenti interni alle aree urbane.
Questi percorsi si strutturano, a loro volta, secondo gerarchie che stabiliscono rapporti organici nell’uso del territorio (abbiamo già visto, ad esempio, come nei percorsi urbani é riconoscibile un ruolo processualmente diverso dei percorsi matrice, di impianto edilizio, di collegamento, di ristrutturazione ).
Una seconda distinzione può riguardare la stabilità dei percorsi, la quale é comunque legata alla loro gerarchia e alle fasi formative.
Le più elementari e spontanee vie di comunicazione sono costituite dai cammini  originati dal semplice atto del percorrere, e dai sentieri, tracciati in modo sommario dal passaggio frequente di persone e animali, come le mulattiere. E’ interessante notare come i due termini moderni non derivino da etimi impiegati nell’uso del territorio consolidato presso i romani,  ma  da neologismi del latino tardo, quando le strutture di percorsi consolidate erano in via di disfacimento: da un termine di origine gallica (camminum) il primo, e da mitarium, aggettivo sostantivato del termine classico semita, il secondo.

La pista (da pesta e, quindi, pestare, quindi “traccia”, “orma”), é il corrispondente termine che indica, alla scala del territorio, una via segnata dal solo passaggio frequente di persone e animali. Anche se alcune piste rimangono persistenti per secoli  esse rappresentano, per loro natura, una forma precaria e instabile di percorso, non consolidata da strutture insediative, le quali si pongono invece come sole polarizzazioni. Si pensi alle carovaniere, il cui scopo era la percorrenza di un territorio al fine di collegare direttamente due insediamenti urbani , a volte con strutture specialistiche di supporto quali, nel mondo islamico, i caravanserragli disposti ad intervalli di un giorno di marcia. La struttura della carovaniera obbedisce dunque ad un principio formativo diverso da quello della strada, che svolge anche un ruolo strutturante nei confronti degli insediamenti produttivi. Una chiara testimonianza di questa diversità é data, ad esempio, dalla quasi completa sostituzione da parte dei conquistatori turchi, del sistema viario anatolico romano-bizantino con carovaniere che non riutilizzavano le vecchie strade militari e commerciali, pur in condizioni ancora accettabili, con carovaniere che univano direttamente le città principali.
Un esempio di permanenza moderna di tracciati di questo genere é costituita dai tratturi (da trarre, e quindi dal latino trahere, nel senso di portare, condurre da un luogo all’altro) appenninici,  sentieri naturali tracciati dalla transumanza delle greggi. In alcune regioni i tratturi costituivano fino all’inizio del secolo importanti percorsi di attraversamento a scala territoriale, collegando i pascoli, dove le greggi svernavano, ai pascoli estivi ed ai luoghi di mercato.
Al contrario dei tipi di percorsi fin qui esaminati, il termine strada contiene il concetto di stabilità, derivando da strata (sottinteso via), nel senso di via lastricata, e quindi stabilizzata in modo permanente, che richiede lo stesso procedimento critico di qualsiasi altra costruzione, così come l’etimologia di termini recenti quali carraia, rotabile, autostrada, testimonia il loro senso di percorso specializzato.

3. IL PROCESSO FORMATIVO DEI PERCORSI

Determinante é la tipologia di percorsi in rapporto alle caratteristiche idro-orografiche di un territorio, ed alle fasi che rappresentano il processo formativo del relativo sistema insediativo: si possono così distinguere  i seguenti percorsi, che rappresentano, anche, una sequenza storica, da rintracciare nei documenti, per la lettura del territorio (cioé per la sua individuazione e interpretazione):

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Percorso di crinale nel Volterrano. Gallicano. Nucleo urbano alla testata di un crinale secondario

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Gallicano. Formazione delle corti elementari isorientate su percorso di crinale

I percorsi di crinale, seguono l’andamento naturale della linea di spartiacque che divide due bacini idrici. Questa linea é spesso già sede di una pista territoriale naturale che collega aree diverse tra loro perché  isolate dalla conformazione orografica del suolo  (bacini idrici).
La ragione della formazione della più antica struttura di percorrenze di un territorio a partire dal crinale delle aree montuose è da ricercare proprio nella scala di questi collegamenti, ma anche nella possibilità di orientamento garantita dal seguire l’inviluppo dei punti geograficamente più elevati di un territorio, oltre al vantaggio di evitare i problemi di attraversamento delle basse pianure, spesso ancora paludose nelle prime fasi di strutturazione del territorio, e comunque di più problematico attraversamento per la necessità di superare, se non si rimane all’interno di un singolo bacino idrico, i guadi e i valichi che comporta. Nella primitiva formazione dei percorsi di crinale è da ricercare la ragione per la quale, come afferma anche Fernand Braudel , la civiltà si evolve dalla montagna verso il mare, contrariamente a quanto la nostra “civiltà di pianura” indurrebbe a credere. Va anche notato, fattore non secondario delle scelte nella prima fase di antropizzazione, che il percorso di crinale non richiede rilevanti opere di adeguamento del suolo essendo la sua sezione pressoché orizzontale.
A seconda dell’importanza del sistema montuoso cui sono associati i percorsi di crinale sono gerarchizzati in:

percorsi di crinale principale, seguono le catene principali e costituiscono la sede naturale per le penetrazioni territoriali attraverso la discesa ai diversi bacini idrici. Vengono strutturati di preferenza dove é possibile utilizzare lo spartiacque più continuo.
Nell’ Italia centro-meridionale i percorsi di crinale principale, di pura percorrenza perché utilizzati per i soli spostamenti territoriali nord-sud, si sono formati già nell’età del rame e del bronzo, e sono costituito dagli spartiaque della catena degli Appennini, sede naturale delle percorrenze migratorie delle popolazioni italiche. Si distingue un crinale italico più alto, verso la costa adriatica, ed un crinale etrusco, meno continuo e rilevato, verso la costa tirrenica.

–    percorsi di crinale secondario, potenziali crinali insediativi che seguono le linee spartiacque che si dipartono dal crinale principale, costituendo l’accesso ad altrettanti promontori che si affacciano  su valli, direttamente o attraverso promontori secondari. Nell’ Italia centro-meridionale sono evidenti le serie di crinali secondari che, partendo dal crinale italico, si dirigono verso la costa adriatica in successione serrata, seriale, e dal crinale etrusco verso la costa tirrenica in successione  più distanziata.

–    percorsi di controcrinale locale, che si formano come percorsi su isoipse ad alta quota e servono quindi ad unire punti nodali dei percorsi di crinale secondario. Vengono generati dall’esigenza di scambio e presuppongono non solo una struttura elementare di insediamenti stabili, ma anche una prima forma di specializzazione produttiva che renda necessario lo scambio stesso. In pratica sostituiscono, per alcuni tratti, il percorso di crinale principale e si pongono su una giacitura alternativa ad esso. I percosi di controcrinale presuppongono il raggiungimento di una elevata capacità tecnica di modificare la forma del suolo richiedendo di superare almeno un compluvio e, a differenza dei percorsi di crinale, di adattare la sezione inclinata del suolo, con scavi e riporti, alla sezione necessariamente orizzontale del percorso.

–    percorsi di controcrinale continuo, che si formano come percorsi su isoipse a bassa quota e tendono a sostituire integralmente i percorsi di crinale principale.Sono percorsi di scambio a vasto raggio tra insediamenti generati da esigenze commerciali.

–    percorsi di controcrinale sintetico, che sono prodotti da due crinali con guado interposto, o posti a scorciatoia di un crinale principale. Il superamento del guado ha il significato di connessione tra due aree culturali, di estensione delle connessioni e degli scambi, inducendo alla formazione di un mercato prima e, spesso, di un nucleo urbano poi.

percorsi di fondovalle, che si svolgono, invece, seguendo le linee di compluvio del sistema orografico, risultando così opposti e complementari ai percorsi di crinale. Vengono formati alla fine del processo di impianto della struttura territoriale e sono i meno stabili, come meno stabile é l’occupazione delle pianure, che richiede continuità nel lavoro agricolo e nelle sistemazioni idrografiche relative. Si distinguono:

–    percorsi di fondovalle principale, i quali non seguono in realtà la linea di compluvio: come i percorsi di crinale  non seguono esattamente la linea di displuvio, per le difficoltà naturali che essa può presentare (picchi, pareti ecc.) ma si adattano ad essa attraverso raccordi di quota, così il percorso di fondovalle può non occupare la sede immediatamente adiacente ai corsi d’acqua, ma porsi, più spesso, a ridosso di essa, adattandosi ai sistemi di piccoli rilievi del terreno o seguendo le linee di margine della pianura (percorsi pedemontani).

–    percorsi di fondovalle secondario, che si dipartono spesso dalle pedemontane, per seguire i compluvi delle valli comprese tra due promontori, risultando complementari ai percorsi di crinale secondario.Questi percorsi svolgono un ruolo importante di collegamento tra bacini idrici, raggiungendo i valichi a cavallo tra di essi.

Gli insediamenti si costituiscono, in forma storicamente tipica soprattutto nell’Italia centrale  , a partire dai  rilievi montuosi ed a scendere verso la costa, dove si saldano in una struttura organica con gli insediamenti complementari che si formano intorno ai guadi ed agli approdi.
E’ evidente come, contemporaneamente alla discesa a valle ed alla progressiva specializzazione della produzione, nasca la necessità dello scambio e dei relativi percorsi: insediamenti e percorsi sono dunque legati  da uno stesso processo formativo.
Primi a formarsi sono gli insediamenti di crinale, che si formano sui crinali secondari dalla discesa dal crinale principale impiegato per i grandi attraversamenti. Processualmente, quindi, si formano prima gli insediamenti in quota, che rappresentano la prima forma stabile di occupazione del suolo, spesso al livello delle sorgive, e successivamente gli insediamenti che tendono ad occupare l’intero promontorio fino alla testata sulla valle.
L’insediamento di testata di crinale (o di basso promontorio) costituisce dapprima una polarità territoriale, seppure a scala ridotta, costituendo la terminazione (e quindi polarizzazione) di un percorso, e successivamente, un nucleo protourbano , un nodo di scambio (attraverso la formazione di nodalità di percorsi) con la valle, nel momento in cui ha origine la fase di occupazione e strutturazione  delle pianure, spesso paludose, nei quali si stabiliscono gli insediamenti di fondovalle, soprattutto alla confluenza di percorsi in corrispondenza di guadi, e quindi prima della biforcazione dei fiumi, dai quali si sviluppano nuclei protourbani (per il ruolo di mercato che la nodalità territoriale assume) e quindi, nei casi di forte polarità, nuclei urbani.
Caso particolare dell’insediamento di basso promontorio è l’insediamento acrocorico, collocato su un rilievo orografico elevato rispetto all’intero territorio circostante e quindi difeso dalle caratteristiche del suolo non solo su tre lati ma sull’intero perimetro. E’ comunque evidente che, quando l’insediamento non avvenga in uno stadio avanzato della formazione del territorio per il solo controllo delle grandi vie di transito, il comportamento dell’insediamento acrocorico risponderà al principio di essere derivato dal processo formativo del crinale secondario cui è orograficamente e storicamente legato e dal quale derivano i percorsi originari che lo hanno formato.
Nel IV sec. a. C., quando inizia la colonizzazione romana e la strutturazione o il consolidamento dei fondovalle, il territorio della penisola é strutturato ancora in nuclei protourbani. Nelle aree interne appenniniche centro-meridionali gli insediamenti a carattere tribale (pagi) consistono in nuclei arroccati su promontori. In questa fase, soprattutto nell’Etruria e nella fascia costiera dell’Italia centro-meridionale, è già strutturato un sistema di poleis, città stato che risentono, spesso in modo indiretto,  l’influenza della colonizzazione greca.

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Il sistema dei percorsi in relazione all’ipotesi della formazione pianificata della città di Trani (da G.Strappa, M.Ieva, M. Dimatteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale, Bari 2003)

Gli insediamenti costieri di approdo sono centri specialistici per il commercio e lo scambio (in questo simili ai nodi di mercato che si formano, spesso, in corrispondenza dei guadi) dai quali si originano sulla costa nuclei urbani in corrispondenza, spesso, con insediamenti di basso promontorio più interni, alla testata di crinali secondari, con i quali viene instaurato lo scambio (non nascerebbe un approdo se non esistesse un’area produttiva da raggiungere).
Il sistema dei percorsi e degli insediamenti si forma secondo estesi periodi temporali che corrispondono, schematicamente, ai grandi cicli della storia del territorio:

ciclo d’impianto, databile dal Paleolitico al IV sec. a.C, attraverso il quale si struttura l’intero territorio, da monte verso valle, attraverso percorsi, insediamenti, nuclei protorbani e primi nuclei urbani propriamente detti in corrispondenza dei controcrinali sintetici;

ciclo di consolidamento, databile dall’espansione romana del IV sec. a. C. al declino del IV-V sec. d. C., attraverso il quale si stabilizza la struttura già impiantata, integrata dall’organico strutturarsi dei percorsi di fondovalle e dei relativi nuclei urbani. In realtà processi analoghi e diacronici di grandi strutturazioni dei fondovalle avvengono nei maggiori bacini idrici dell’antichità, come nelle valli del Tigri-Eufrate, del Nilo, del Gange;

ciclo di recupero, individuabile nel periodo medievale tra la fine del IV-V sec. d.C. e la fine del XII sec., durante il quale si perdono le strutture di fondovalle organizzate in periodo romano e si riutilizzano e trasformano le strutture precedenti di promontorio

ciclo di ristrutturazione, corrispondente al periodo dal XIII secolo all’età contemporanea, durante il quale si riorganizzano le strutture di fondovalle parzialmente abbandonate nel ciclo di recupero, con estese opere di bonifiche.

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Fasi formative della struttura territoriale dell’Italia centrale (da AA.VV., Cortona, Struttura e territorio, Cortona 1987).

 

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Formazione del sistema delle percorrenze radiali e controradiali in relazione ai fossi della Marranella, di Gottifredi, di Centocelle a Roma sulla base della carta IGM del 1872 ( da G.Strappa, a cura di, Studi sulla periferia est di Roma, Francoangeli, Milano 2012)

4. BIBLIOGRAFIA

Testi di carattere generale:

G.Strappa (a cura di), Studi sulla periferia est di Roma, Francoangeli, Milano 2012

G.Strappa, M.Ieva, M. Dimatteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale, Adda, Bari 2003

G.Strappa, Unità dell’organismo architettonico, Dedalo, Bari 1995 (on line su questo sito)

F. Farinelli, I segni del mondo, Firenze 1992.

F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1986

G.Caniggia,G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Lettura dell’edilizia di base, pp. 203-249,  Venezia 1979.

G. Cataldi, Per una scienza del territorio. Studi e note, Firenze, 1977

Come esempi significativi di lettura di  organismi urbani particolari si possono utilmente consultare:

G.L.Maffei (a cura di),  La casa rurale in Lunigiana, Venezia 1990.

AA.VV., Cortona. Struttura e storia, Cortona 1987

G.Conti, D.Corbara, Per una lettura operante della città. L’esempio di Cesena, Firenze

ARCHITETTURA MODERNA MEDITERRANEA

da

G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,

in Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, a cura di E.F.M. Emanuele e G. De Giovanni Centelles. UNESCO, Roma 2004.

INDICE

1.     caratteri generali
2.     architettura tra le due guerre
3.     il dopoguerra e la crisi contemporanea

1. CARATTERI GENERALI

Cancellando di colpo la tradizionale nozione di area culturale, le storie ufficiali di architettura moderna (almeno a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende di architetti ed edifici intorno ad alcuni nodi critici, spesso volgarizzati in slogan, che individuano movimenti, correnti, tendenze a carattere prevalentemente internazionale. Storie, tutte che, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee o nordamericane, delle quali interpretano valori, tendenze, aspirazioni: quello che viene comunemente classificato come “internazionalismo architettonico” e che sarà codificato nell’International Style è, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente emergente, che ha finito per esportare i propri modelli culturali nelle aree meno “sviluppate”, generandovi per reazione, al contempo, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una presa di coscienza delle proprie specificità alla quale non è stata data, fino ad ora, una definita collocazione storiografica
Il tema dell’architettura moderna specificamente mediterranea – della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante- costituisce, dunque, un argomento per molti versi insolito e nuovo
La consapevolezza, infatti, di un’identità architettonica relativa a una vasta area culturale estesa all’intero bacino mediterraneo, identificabile per caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando nel XX secolo proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del cosiddetto Movimento moderno, a conclusione di un processo che, a partire dalle trasformazioni economiche e politiche del XVII secolo, avevano finito con lo spostare verso nord il ‘centro del mondo’ relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Nelle aree nordeuropee e nordamericane lo sviluppo dell’architettura moderna aveva condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione delle aree un tempo di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi portanti e non chiudenti. Sviluppo contrapposto a quello  organico, la cui origine proveniva dal mondo della pietra e delle murature massive del Mediterraneo e che era stata esportata, in età moderna, nei paesi nordici col Rinascimento.
E’ altrettanto evidente come nelle cosiddette aree plastico-murarie dell’Europa mediterranea, del vicino e medio oriente e nordafricane la transizione al moderno si è caratterizzata per l’esteso impiego di materiali naturali massivi e opachi, adoperati in sistemi costruttivi portanti e al tempo stesso chiudenti. In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta al cemento armato non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente nuove, ma ha proceduto per aggiornamenti e caute innovazioni.
Si può senz’altro affermare che la persistenza di un’organicità di tipo plastico-murario costituisce durante gli anni ’30 del ‘900 una scelta cosciente degli architetti che produce, almeno in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura mediterranea moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore di una lingua a matrice muraria capace di stabilire, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame organico tra distribuzione, struttura, leggibilità.
Una diade di polarizzazioni tra aree dagli opposti caratteri, questa, resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere incerta o ambigua ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso le nozioni di organicità e continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto i tipi edilizi quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme di caratteri condivisi.
L’attuale declino di una architettura plastico-muraria, connesso anche alla mancanza di sperimentazione moderna della tecnica lapidea per le murature portanti, spiega quindi perché il carattere di modernità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e con i materiali artificiali; mentre la massività e i materiali naturali sembrano connotare l’architettura in senso premoderno.
In realtà la cognizione del carattere del materiale, la coscienza che il suo impiego non è solo una componente tecnica che riguarda l’esecuzione dell’edificio ma il portato di una cultura e il fattore primo dell’invenzione architettonica (l’organismo architettonico come riconoscimento e trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma, sintesi di trasformazioni della natura in realtà costruita) sembra appartenere, prevalentemente, alla sopravvivenza moderna delle aree organiche mediterranee.
“Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”
Dunque la materia  come origine prima della realtà costruita.  secondo la tradizione latina per la quale con materia rerum  si intendeva  l’origine delle cose. Il termine, del resto, etimologicamente deriva da mater : la materia  come madre di tutto il costruito ma anche “ceppo” dell’albero che fornisce la nozione di processo come  sequenza di trasformazione. Anche nell’architettura moderna, la differenza tra materia e materiale  non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione   quanto  la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio

Questo carattere dell’architettura mediterranea legato ad una cultura materiale antica, al riconoscimento del carattere dei materiali ed al loro sapiente impiego, distillato in esperienze millenarie, è stato individuato tardi, con molta difficoltà. L’idea moderna di carattere dell’architettura mediterranea nasce con il declino del consolidato  stereotipo di un paesaggio che pittori, poeti, viaggiatori, avevano per lungo tempo identificato con l’eredità classica greca e greco-romana e del quale, dalla metà del ‘700, si scopre un’aspetto radicalmente diverso. Un paesaggio che, soprattutto in Italia, era stato idealizzato nell’ariosità trasparente di colonnati e trabeazioni (in strutture fondamentalmente trilitiche, portanti e non chiudenti) rivela quasi d’improvviso, quando i viaggiatori si spingono oltre i luoghi deputati dei grandi monumenti e superano la barriera geografica di Roma e Napoli, la propria natura di territorio organicamente antropizzato, costituito da chiese, monasteri, anche rovine antiche, ma soprattutto da abitazioni, di grande forza plastica: un mondo di murature potenti e di case dalle piccole finestre: volumi massivi sotto la luce, solidi, stabili, continui.  Si scopre, anche, l’altra faccia della classicità, quella delle grandi pareti continue, delle volte, delle cupole, degli archi, delle piattabande. La realtà comincia a scrollarsi di dosso, anche nell’immaginario europeo, l’aristocratico museo delle rappresentazioni letterarie che, sulla scorta dei classici latini e greci, si era sovrapposta al paesaggio mediterraneo.
Si scopre che, anche in architettura, accanto al greco, lingua colta, esiste il parlato quotidiano, il volgare diffuso. Nel Peloponneso, sulle coste della Sicilia, sulle isole dell’Egeo,  poteva apparire l’immagine di un tempio (periptero ecc.). Un lampo che rimane impresso nella retina e di cui la memoria, proprio per l’eccezionalità dell’evento, custodisce a lungo il ricordo. Ma accanto alla lingua colta, derivata dalla cultura lignea degli (Achei?) ci si rende conto che il parlato quotidiano era ed è soprattutto plastico e murario.
La Basilica di Massenzio, il Pantheon, (espressioni di una koinè estetica e costruttiva strettamente legata all’Oriente mediterraneo e della quale il mondo di forme bizantino sarà erede e continuatore) ma anche i grandi basamenti in rovina dei santuari di Ercole a Tivoli e quello di Giove a Terracina, piuttosto che la Basilica Ulpia o i templi di Paestum, sono i monumenti che interpretano meglio, in forma aulica, i caratteri di una lingua diffusa che trova un suo esteso elemento costitutivo nelle abitazioni, nell’ edilizia di base che contiene e trasmette la struttura, le regole della lingua stessa.
Una realtà rapidamente comunicata e diffusa dal fiume di stampe alimentato dal Grand Tour che riproducono monumenti inseriti in tessuti urbani fondati sulle preesistenze antiche. Tessuti che si andavano altrettanto rapidamente aggiornando: l’intero paesaggio urbano italiano si andava trasformando con la formazione di quella casa plurifamiliare  “in linea” che diverrà il fondamento stesso della città moderna europea.
Un processo dove i tessuti “sostrato”, di formazione antica, la cui eco è riportata nelle tracce della Forma Urbis, costituiscono dunque la base che assicura la continuità della lingua, pur nelle estese trasformazioni e continui aggiornamenti. Tessuti, a loro volta, che partecipano di una più vasta comunità culturale,  formati come sono da case unifamiliari (domus), da case plurifamiliari (insulae) originate dalla trasformazione di quei tipi a corte elementare che costituiscono un patrimonio comune protostorico che si estende, in pratica, all’intero bacino del Mediterraneo. Case che nel mondo latino subiscono uno specifico processo di plurifamiliarizzazione (insulizzazione) e specializzazione (tabernizzazione) che dà luogo a tessuti di case a schiera monocellulari e monoaffaccio (pseudoschiere), ancora perfettamente leggibili nella città italiana di origine antica ( a Roma, ad esempio, nelle aree di Tor di Nona, Campo de’Fiori,  Trastevere, o in Puglia nei tessuti storici di città come Trani, Bitonto, Altamura) . Ma anche nelle trasformazioni successive (X-XV secolo), permangono caratteri costanti tipici del concetto antico di casa, come l’unità unifamiliare e l’impiego della corte come elemento di distribuzione cui corrisponde, anche, un sincronico aggiornamento dei tipi edilizi con la formazione della casa a schiera  bicellulare, con il piano terreno specializzato a bottega. E la casa a corte antica è alla base non solo del processo formativo dei successivi tessuti abitativi, ma anche dell’edilizia più complessa, come i palazzi, che dall’edilizia di base derivano per specializzazione.

Si veda il caso della formazione del palazzo veneziano, uno degli esempi più chiari della vitale continuità nelle trasformazioni della forma della città mediterranea, dove permane un impianto a domus , le cui dimensioni tipiche legano il recinto edilizio al più generale sistema di partizione del suolo nel mondo romano, dimostrando la sostanziale continuità del processo di trasformazione del territorio dal Tardo Antico  al Medioevo (la misura base dell’heredium, derivato per frazionamento decimale della centuriatio, origina l’actus, la metà del cui lato costituisce la misura base del fronte del lotto sul quale viene impiantato il recinto della domus). La domus da luogo, infatti, tanto a filoni tipologici specialistici quanto a plurifamiliarizzazioni dequantificandosi in unità di schiera monocellulari (pseudoschiere) mantenendo, tuttavia, i propri principi generatori legati all’uso dello spazio recintato.
Le dimensioni ricorrenti riscontrabili tanto nell’utilizzazione delle terre emerse quanto nella costruzione del suolo artificiale sul quale viene edificata la domus unifamiliare veneziana deriva dalla dimensione canonica di mezzo actus, oppure (fronte di 40 pedes) , direttamente, dal frazionamento dell’heredium in tre parti secondo una direzione (due strigae  intervallate da spazio libero) e in sei secondo l’altra, che da origine all’aggregazione ricorrente a margini quadrati sullo spazio comune del “campo”.  Schematizzando un processo assai complesso, i lotti di dimensioni maggiori vengono disposti di preferenza col lato lungo a nord in modo da avere il passaggio acqua-terraferma  parallelo al lato occupato dalla prima edificazione che si dispone secondo il tipico isorientamento rivolto a sud.
Il percorso interno viene nel tempo coperto dando origine al “portego” (porticato) che geometrizza il percorso e da inizio alla formazione dell’asse, polarizzato ai due estremi dagli ingressi. La successiva edificazione avviene sul lato rivolto a sud, a partire dal percorso esterno a maggiore nodalità, secondo il processo tipico della tabernizzazione  con la formazione delle linee dividenti interne complementari all’asse accentrante. Questo spazio interno assume fondamentalmente due ruoli in funzione delle trasformazioni economiche e sociali, già avanzate nel XII secolo, che inducono alla differenziazione del tipo a domus  in residenza signorile o palazzo, da una parte, o alla sua suddivisione in abitazioni per le classi a basso reddito, dall’altra. Nel primo caso si forma lo spazio nodale dell’edifico specialistico, la “sala veneta” leggibile anche all’esterno, attraverso la polifora, come  spazio in origine aperto, trasparente; nel secondo si forma il percorso interno (calle), asse dell’aggregazione a schiera.
La leggibilità delle facciate che deriva da questo processo, tanto nella casa-fondaco bizantina, che gotica, che nei successivi tipi rinascimentali, rivela immediatamente margini, asse accentrante, spazio nodale, linee dividenti. L’intera polifora viene considerata come limite di uno spazio virtualmente aperto, per cui non deve sorprendere che (carattere comune, peraltro, all’area gotica) l’asse accentrante C possa incontrare, a volte, il pieno di un elemento verticale.

Questo grande flusso vitale che trasforma la città antica italiana nella città moderna attraverso un processo ininterrotto di trasformazioni è testimoniato dalla  rifusione delle abitazioni unifamiliare di origine medievale in aggregati plurifamiliari, processo immediatamente leggibile nella forma dei centri storici delle nostre città attraverso la permanenza delle dimensioni delle cellule elementari che determinano la partizione delle facciate e la dimensione dei nuovi corpi di fabbrica, esprimendo la vocazione dei tipi più semplici alla convivenza organica, alla formazione di unità a scala maggiore. Vocazione che, progressivamente acquisita e intenzionalizzata, diviene linguaggio cosciente, in un passaggio assimilabile alla transizione dalla lingua solo parlata alla lingua scritta, permettendo, anche, di acquisire intenzionalmente caratteri imitativi dell’edilizia specialistica.
Alla fine dell’800, alla nozione tradizionale ed accademica di organismo architettonico  si va sostituendo una diversa, originale concezione critica dei caratteri degli edifici come portato di un processo in atto, che accoglie la trasformazione indotta dal mutare dei tempi come “incremento”, non sostituzione, di un patrimonio di conoscenze tecniche ancora operanti.
E’ esemplare antecedente di questa fase di fertile incertezza il caso della costruzione del nuovo tessuto della Capitale, quando gli architetti romani(Passerini,Carimini,Carnevali,Azzurri)  affrontano il tema dell’edilizia abitativa con lo spirito di chi ancora progetta i grandi monumenti, secondo il ruolo tradizionale dell’architetto che disegna episodi urbani irripetibili. Il progettista di fine secolo ha, in realtà, ancora una stretta consuetudine con il disegno delle emergenze; quando questo ruolo si trasforma egli “… appropriandosi del problema del tessuto – come scrive Caniggia – del connettivo edilizio, delle case, pare che non muti affatto l’immagine che ha di sé. Può affermarsi che, paradossalmente quando progetta case tenda a produrre “altro”: altro e più sublimato prodotto, analogo a ciò che i suoi predecessori avevano per secoli ideato”.
Nei nuovi quartieri, alla struttura rigidamente seriale delle abitazioni plurifamiliari (se si eccettua il frequente decremento dell’altezza del mezzanino) si affianca, favorita dal carattere segnatamente murario della casa in linea romana, una leggibilità da palazzo, gerarchizzata, come accennato, secondo modalità mutuate dagli edifici specialistici. E’ nell’edilizia alto borghese che si sperimenta, invece, un cauto rinnovamento della lingua attraverso sincretismi con forme derivate da sperimentazioni in corso in altre aree europee. Esempi dimostrativi di questa fase di contenuto rinnovamento sono le opere di architetti come Raffaele Canevari,Andrea Busiri Vici, Giulio Magni, soprattutto, che entra in diretto contatto con le diverse versioni nazionali del modernismo europeo: la secessione, lo jugendstil, il liberty. Se nel corso della sua permanenza all’estero, la ricerca di Magni oscilla tra lo storicismo delle opere pubbliche maggiori ed il modernismo delle occasioni professionali private, dai primissimi anni del ‘900, tornato a Roma, confronta la memoria degli esperimenti modernisti, ancora viva, col  tradizionalismo del clima locale, del quale coglie gli aspetti meno scontati, quelli turbati dal contatto con le vicende internazionali: nella sua villa Marignoli sono evidenti non solo gli echi del costruttivismo storicista di stampo mitteleuropeo, ma anche del lascito dimenticato dei sincretismi romani di Edmund Street.
E tuttavia, anche negli esperimenti per la borghesia come nelle grandi costruzioni abitative, a cavallo della fine dell’800, permane la sequenza delle fasce di stratificazione architettonica (basamento elevazione, unificazione, conclusione) ormai slegata dalle ragioni costruttive che l’ avevano originate e dalla gerarchizzazione dei piani.
Applicazione tuttavia, non del tutto illegittima perché la facciata nella tradizione plastica e muraria non é mai il portato meccanico, (e nemmeno necessariamente il portato diretto) dell’edificio, ma ne è la sintesi riconoscibile, prodotto di una riflessione sulla capacità dell’architettura di esprimere valori oltre  il dato puramente costruttivo e distributivo.
Queste fasce di stratificazione orizzontale permarranno a lungo, almeno per tutti gli anni ’40 del 900, anche nelle opere più aggiornate.
Si veda l’esteso impiego moderno del basamento, derivato  dalla soluzione di problemi di stabilità dell’edificio e poi codificato nel processo di tipizzazione degli elementi, che permette di non contraddire l’ordine “naturale” dell’involucro esterno, contro le soluzioni oppositive impiegate nell’ “attacco a terra” delle opere della produzione internazionale.
O le soluzioni dell’ elevazione, dove il legame tra dato tettonico ed espressione dell’edificio rimane sempre solidale e leggibile anche attraverso l’esteso uso del rivestimento,
Come pure mostra una grande permanenza la fascia di unificazione (spesso assorbita nei volumi puri della produzione moderna mitteleuropea), che nell’organismo tradizionale ha origine strutturale, quale orizzontamento e legame generale dell’edificio, allo stesso modo della trabeazione nell’ordine classico e la conclusione, la cui negazione è uno dei cavalli di battaglia del movimento moderno.
La transizione ai tessuti della città moderna avviene dunque attraverso un organico processo di aggregazione delle unità di schiera iniziato nei quartieri romani più antichi di Trastevere, Ponte, Colonna, dove è ancora riconoscibile, attraverso la trasformazione e unificazione delle facciate, traccia indelebile di continuità, la permanenza delle coppie di bucature trasmessa dalle unità monofamiliari, fino ad arrivare alla parete ritmica delle case in linea della prima metà del ‘900, dove sopravvivono le regole compositive dell’edilizia specialistica ereditata.
Tipi edilizi e tessuti ancora capaci di indicare regole di formazione e trasformazione a tutt’ oggi operanti, la cui comprensione , sia detto per inciso, è indispensabile non solo e non tanto per gli interventi sul patrimonio storico, quanto per la costruzione, una volta riconosciute le innovazioni e gli aggiornamenti pertinenti alla fase storica che stiamo attraversando, di una nuova, possibile organicità della città futura.
Permane, in altre parole, nell’area romana, contrapposto al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina, sostituibili da prodotti più aggiornati il senso della durata dell’architettura,  nei due significati  : in senso storico, come individuazione di un processo di trasformazioni continuo (ereditato e trasmissibile); in senso fisico, come  resistenza alle aggressioni degli agenti atmosferici e del passaggio del tempo (l’edifico è rivestito completamente in solido travertino che nasconde e protegge la struttura in calcestruzzo).
Durata contrapposta al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina. Si pensi, per capire la specificità di caratteri nell’architettura romana del periodo, che venivano costruiti in Olanda, negli stessi anni , ad esempio,  progetti di architetti come  Duiker o Brinkman, dove il riferimento alla macchina era evidente attraverso l’uso di tecnologie metalliche spesso imitative di quelle meccaniche, in particolare navali.

Jacques Herzog e Pierre de Meuron, cantine Dominus, Napa Valley, California, 1996-98

Jacques Herzog e Pierre de Meuron. Villa a Tavole, Imperia, 1983

LA CASA DI ABRAMO


di Giuseppe Strappa
in “Conoscersi e convivere” , N° 2, 2007
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Considerare l’architettura come linguaggio di pace, superando i rischi della retorica, è uno dei grandi temi che la Casa dell’Architettura di Roma propone da tempo.
La prima iniziativa presa in questa direzione è stata l’organizzazione nel 2006 (con la collaborazione dell’Ufficio per le Politiche della Multietnicità e la Casa delle Letterature) di due giornate di dibattito dedicate alla convivenza multietnica nel bacino del Mediterraneo: la prima incentrata sul tema dello spazio sacro nelle grandi religioni monoteiste (La Casa di Abramo, 23 giugno) e la seconda sul retroterra culturale che, per molti aspetti, accomuna le città mediterranee  (Un solo Mediterraneo, 24 giugno)
Gli incontri, come mostrano alcuni degli interventi svolti in quella occasione e che vengono pubblicati nelle pagine che seguono, si inserivano nel quadro di un programma della Casa dell’Architettura di Roma che mira a stabilire un terreno d’incontro non solo tra discipline, ma anche tra culture diverse in un periodo, come quello che stiamo vivendo, nel quale i conflitti tra comunità politico-religiose sembrano avere nel Mediterraneo uno dei centri focali.
Ci è sembrato allora opportuno, da architetti, mettere in evidenza i caratteri comuni del territorio e della città mediterranee.
Perché il Mediterraneo è sempre stato considerato, nel corso della storia, luogo di conflitti tra civiltà provenienti da territori lontanissimi: dalle steppe degli Altai, dalle sabbie dell’Arabia, dalle foreste del Nord Europa. Non è stato notato, invece, come l’architettura delle città mediterranee possa essere letta come espressione solare e ottimista della convivenza tra umanità diverse abbracciate da una comune cinta di mura.
Queste città dello scambio e della fusione finiscono per mostrare, se si guarda oltre la differenza delle architetture “alte” (dei palazzi, delle sinagoghe, delle moschee, delle chiese) uno stesso carattere riconoscibile, quasi una lingua condivisa dai tanti tessuti di semplici case della quale s’intuisce, attraverso l’emozione delle forme, una radice comune.
Il riconoscimento di questa impronta, evidente e concreta, è un dato assolutamente moderno: corrisponde al declino dell’interpretazione convenzionale del paesaggio mediterraneo che pittori e poeti avevano per lungo tempo identificato con l’eredità classica, idealizzata nella luminosità di trabeazioni e nella trasparenza di colonnati. Quando i viaggiatori, dopo la metà del’700, si spingono nell’Italia meridionale, si rivela, quasi d’improvviso e con radiosa evidenza, la natura di un territorio organicamente antropizzato, un mondo di murature massive e di case dalle piccole finestre. Volumi puri sotto la luce, solidi, stabili, continui, diffusi sull’intera costa del Mediterraneo.
Si scopre così come, anche in architettura, accanto alla lingua ufficiale esista un diffuso “parlato” quotidiano e come dietro l’immagine solenne di un tempio ionico (un lampo che rimane impresso nella retina e nella memoria proprio per la sua eccezionalità) viva una lingua plastica e muraria diffusa, trasmessa dal flusso inesauribile di pacifiche case a schiera o a corte che hanno formato l’essenza della città mediterranea
E comincia a formarsi, anche, la consapevolezza di una possibile, comune identità.
Comprendere queste radici significa anche capire come la ricostruzione dei territori palestinesi, ciprioti, israeliani, libanesi massacrati da anni di guerre, partecipi non solo delle stesse tragedie, ma anche di un fecondo lascito, di un sedimento comune costituito dalla forma delle case, delle città e del territorio.
In questo quadro il tema dello spazio sacro ha un ruolo del tutto particolare per la storia stessa delle grandi religioni monoteiste che si sono sviluppate nei paesi del Mediterraneo, le quali trovano un loro punto d’incontro proprio nell’architettura religiosa delle origini.
E’ vero che, nel corso del tempo, ognuno sembra aver letto nelle scritture della propria religione le conferme che andava cercando e la moschea, la sinagoga, la chiesa, sembrano oggi, considerate nei loro esisti architettonici, espressione di gelose diversità. Eppure, se si ripercorre il processo formativo della loro architettura, espresso simbolicamente in tutte le scritture, ma evidente anche nella concretezza del costruito, si scopre la loro origine comune nella casa. Origine che esprime i valori più profondi dello spirito religioso ebraico, islamico, cristiano: la pietas e la fratellanza tra gli uomini identificate nel gesto dell’accoglienza.
Dal confronto tra i diversi libri sacri, si scopre una comune, appassionata identificazione dell’architettura dello spazio domestico con l’idea del legame che può unire uomini diversi sotto uno stesso tetto. La tenda di Abramo costituisce l’espressione religiosa comune di questa casa delle origini, raccogliendo la poesia dello spazio protetto e, insieme, aperto al diverso, al viandante.
Nella Bibbia Abramo accoglie i tre viandanti che arrivano alle querce di Mamre sotto la propia tenda, dove prepara un banchetto per gli sconosciuti ospiti. Nella Torah la casa di Abramo è il simbolo stesso della chesed, dell’amore verso il prossimo. Nel Corano, nella sura di Imran, la Kaaba eretta da Abramo è “la prima casa costruita per l’uomo”, destinata a divenire “luogo di riunione e rifugio”.
Uno stesso spazio originario sembra dunque esprimere, insieme, lo spirito religioso e le radici comuni delle civiltà che si sono affacciate sulle rive del Mediterraneo.  Producendo forme murarie avvolte intorno ad una corte centrale, essenza della casa delle origini che darà vita a tanta architettura mediterranea.
Proprio a Roma queste radici comuni hanno trovato una sintesi straordinaria e vitale, l’alveo condiviso dove gli infiniti contributi regionali si sono trasformati in messaggio universale.
Per questo il riferimento alla casa di Abramo, evocata più volte nel corso degli incontri, sempre più frequenti a Roma, tra le comunità ebraica, islamica, cristiana, sembra un richiamo non solo ad un patrimonio comune, a tradizioni accolte come proprie da popoli diversissimi, ma anche al ruolo di generoso spazio dello scambio, di grande Casa comune del Mediterraneo, che la nostra città, ancora una volta, sembra chiamata a svolgere.