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L’ ARTE DI LEGGERE I TRACCIATI

di Giuseppe Strappa

Prefazione a: Lina Malfona, Il tracciato urbano, Melfi 2012

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In sanscrito mandala, manda-la, significa “racchiudere l’essenza”.
Il mandala è, nella sua sostanza, regola d’orientamento che, tradotta in geometrie, individua lo spazio sacro al centro del mondo. Il suo fondamento sono le connessioni tra le figure che formano, tutte insieme, un disegno coerente. Questo disegno non è, tuttavia, il semplice risultato dello spazio vuoto tra le forme: è l’essenza stessa della composizione, la struttura latente che ne precede la formazione. Senza la coerenza indiscutibile del tracciato, il mandala non sarebbe che un insieme sparso di figure, disseminazione di segni privi di  rito e liturgia. Allo stesso modo, senza il succedersi sinuoso o labirintico dei suoi elementi, privato dell’ordine circolare che ne regola i ritorni o della freccia del tempo che da agli eventi indirizzo e concatenazione, ogni racconto si ridurrebbe a una serie fortuita di accadimenti.
Tracciato non è il disegno di una cosa, ma il disegno tra le cose che consente di trascendere il contingente e il particolare legandoli ad una più generale scrittura.
Possiede, quindi, un indubbio ruolo didattico e sintetico costituendo, per noi, una scelta senza la quale ogni architettura sarebbe inverificabile, ogni costruzione potrebbe assumere qualsiasi forma.
Per questo indicarne oggi il significato fondante nella composizione dello spazio abitato alle diverse scale rappresenta, ritengo, anche una non equivoca scelta di campo, il tentativo di superare la seduzione di un’adesione estetica alla casualità del mondo costruito, cogliendone fascino e suggestioni, per riaffermare il compito ineludibile del nostro mestiere che è legato alla responsabilità delle scelte, alla formazione di una particolare, e per noi indispensabile, forma di conoscenza capace di dare unità all’operare. Argomento oggi tutt’altro che scontato, che richiede qualche spiegazione.
Poiché il mondo in cui opera è poliedrico e in permanente mutamento, è evidente che l’architetto non possa che impiegare oggi, nel progetto, materiali delle più diverse provenienze. Lo richiede la stessa condizione contemporanea nella quale soluzioni contraddittorie convivono e vengono ugualmente accettate, le storie divengono tutte sincroniche e figure un tempo lontane partecipano di uno stesso svolgimento costruttivo. Definire il proprio ambito di ricerca, ma anche la poetica ad essa inevitabilmente legata, diviene comprensibilmente difficile. E tuttavia, anche in questo contesto, ogni gesto di architettura è chiamato a fissare i propri limiti, a riconoscersi all’interno di un perimetro, di un ambito di scelte. Per l’architetto, infatti, la teoria è θεωρέω nel senso letterale del termine: consiste soprattutto nell’“osservare”, riguardare secondo il proprio punto di vista il mondo costruito sulla base di ipotesi che non sono solo scientifiche, ma contengono molte cose: soprattutto la propria scala di valori e il flusso di esperienze che l’ha formata. La sostanza della teoria di architettura, come dimostrano tutti i trattati che percorrono la sua storia, è fondamentalmente critica.
Se da una parte il mondo virtuale, per propria natura ubiquo, sembra indicarci, sulla scia di una fascinazione peraltro antica, che di ogni verità è vero anche il contrario, la dinamica concretezza del tracciato sembra affermare che nel magma del reale ogni cosa ha un verso e tutto è orientato, che, rispetto a quella del passato, la città contemporanea possiede la stessa necessità di direzione e orientamento avendo, di sostanzialmente diverso, soprattutto una grande instabilità, la propensione ad un più rapido mutamento.
E’ in questo senso che il ruolo del tracciato, nell’ accezione attribuitagli in queste pagine, trascende il significato di strumento e diviene ermeneutica del progetto: lettura, interpretazione, disegno. Vedendo le cose in questo modo, il tracciato acquista il significato di struttura profonda della forma, il suo riconoscimento e ridisegno diviene un’arte interpretativa e generatrice che riattualizza strumenti antichissimi, dal piano gerarchicamente regolato allo schizzo che individua, nel molteplice, l’insieme delle trasformazioni possibili, l’ordine nascosto nel disordine.
Argomenti dei quali compare in filigrana, in queste pagine, il chiaro fondamento storico, ma ai quali viene anche attribuita una valenza, complementare e meno indagata, che si potrebbe definire logico-geometrica.

Almeno un secolo di analisi della città basate sulla pura constatazione della sua forma, su diadi astratte come isolato-viabilità, pieno–vuoto,  costruito-inedificato, hanno fatto dimenticare il valore, temporalmente anteriore e spazialmente accentrate rispetto all’edificato, del percorso e del suo tracciamento.
Ancora una volta è il processo che spiega lo spazio che oggi abitiamo. L’uomo conosce il suolo che abita percorrendolo; non diversamente da qualsiasi animale se ne appropria lasciando tracce. Sono questi, del camminare e del segnare un percorso, i primi gesti che fondano la struttura del territorio: aree insediative e produttive, case e terreni coltivati verranno dopo e la loro forma seguirà il rapporto segnato dalla solidarietà tra “supporto orografico”, per usare un termine impiegato da Lina Malfona, e la vita che vi scorre. I crinali percorsi dalle popolazioni che si sono insediate sulle due sponde del Tevere in prossimità dell’Isola Tiberina, costituiscono ancora una traccia indelebile sulla quale è sorta la struttura (non solo viaria, si badi, ma architettonica)della Roma moderna. La quale conserva il sostrato dell’antica, quando sono scomparsi gli edifici, soprattutto attraverso la durata dei suoi percorsi.
Ebbene la fase iniziale dell’edificato, all’origine della città (di qualsiasi città) si addensa attorno ad un percorso, il quale diviene lo spazio accentrante che informa il costruito. L’isolato è, in questa fase, puro disegno geometrico, conseguenza di fasi costruttive che completano un’area definita. Esso verrà identificato molto dopo, nella città alienata del XIX secolo che si va trasformando in metropoli, e non indicherà mai un’appartenenza. Ancora oggi, nei tessuti che hanno conservato le proprie matrici, la contrada, lo spazio tracciato dal primo percorso che preesiste all’edificazione, è il luogo in cui l’abitante si riconosce, lo spazio condiviso dell’empatia e della socialità, monade della polis e della vita politica, infine, per usare le categorie di Hannah Arendt, luogo del discorso.
A questo dato, alla funzione centripeta del tracciato geometrico inteso come geometrizzazione di un percorso, occorre oggi guardare, come ha iniziato a fare l’autore di questo studio, con la freddezza del geologo che esamina un fenomeno tettonico per cercare, sotto lo strato superficiale, i sedimenti e le tracce di moti profondi che spiegano l’attuale forma del suolo.
Senza nostalgie, dunque, né pregiudizi.
Si scoprirà allora che lo spazio contemporaneo è specularmente opposto a quello aristotelico, al “limite immobile” che avvolge i corpi, che non solo i tessuti delle città, ma tutti gli spazi architettonici, a qualsiasi scala, trovano la loro struttura profonda nel moto e nella vita di cui i tracciati/percorsi sono la traduzione architettonica, sia che individuino l’asse orizzontale che il fedele percorre dal portale all’altare in una chiesa, sia che indichino il viaggio verticale dell’ascensore in una torre per uffici o il cammino meccanizzato in un aeroporto.

Vorrei concludere queste brevi note segnalando come la lezione più fertile, in questo senso, derivi dai processi di trasformazione della città italiana, dove l’edilizia abitativa e seriale composta lungo un tracciato stradale si “annoda” progressivamente, il tessuto si trasforma in edificio attraverso la mutazione dei percorsi formando nuovi organismi che potrebbero indicare, oggi,  una possibile, originale strada di sperimentazione per il progetto.
Il senso e l’utilità didattica, per noi, di questi nuovi organismi, che il palazzo romano sintetizza in modo esemplare, risiede nel fatto che essi non costituiscono l’esito di invenzioni individuali, come vorrebbe un’interpretazione tardoromantica ancora largamente diffusa, ma rappresentano il prodotto vivo e necessario della trasformazione di tracciati nella città. Il palazzo romano è il risultato, infatti, della singolare collaborazione tra metamorfosi di parti di tessuto e durata del sostrato geometrico antico. La solidarietà tra elementi (le unità di schiera, diffuse in tutta la città fin dal XIII secolo) dovuta a nuovi regimi di proprietà si traduce nell’unificazione delle facciate, nella formazione parete ritmica, ma soprattutto nell’introiezione dei tracciati dei percorsi esterni polarizzati e continuati in verticale delle scale. Come in un tessuto urbano rovesciato, i nuovi percorsi hanno la funzione, di volta in volta, di percorso matrice, di impianto, di collegamento. L’edificio diviene così, allo stesso tempo, la rappresentazione di una piccola città compiuta e l’espressione di un rapporto genetico di solidarietà e congruenza con il tessuto abitativo. Quando si spingono a grandi dimensioni e sono totalmente progettati, questi edifici/tessuto sembrano ancora ereditare i caratteri del loro ambiente costruito, condividerne geometria e misura formativa, collaborare con l’intorno a formare un solo disegno: come per il mandala, i tracciati regolatori sono la loro essenza.
L’ architetto/artista è,  insieme, l’interprete e l’innovatore di questi principi che, a saperli riconoscere, sono leggibili anche ai nostri giorni. Non solo attraverso edifici come il Palazzo dell’Industria disegnato da Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro, dove il lascito è evidente, ma anche in opere insospettate, come la sede della  Deutsche Bank a Berlino di Gehry che lette sotto quest’aspetto, finiscono per avere l’interesse di un tessuto dai tracciati rovesciati, dove lo spazio centrale è annodato dalla copertura trasparente, in modo non diverso da tanti altri episodi che hanno segnato la vera storia del passaggio alla modernità, dalla formazione delle galeries e dei grandi magazzini del XIX secolo, a partire dai passages, ai tanti palazzi i cui cortili, coperti, hanno segnato la formazione di un nodo spaziale e l’origine di nuovi organismi moderni.
Un modo, dunque, quello di leggere e progettare per tracciati, che permette di interpretare l’intera storia della città moderna alla luce di un’ attendibile teoria che ripropone la priorità dei fenomeni generali e profondi sugli esiti frammentati della città contemporanea.
Mi sembra che questa sia la strada fertile intrapresa da Lina Malfona con questo lavoro che, indicando una via poco battuta, costituisce una scelta tra le più impegnative, implicando non solo la necessità delle basi teoriche del mestiere di architetto ma anche, indispensabile corollario,  l’urgenza del metodo per applicarle.

Giuseppe Strappa
Roma, novembre 2011