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Luci insensate sui monumenti

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di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del  20.07.2002

Roma ha sempre posseduto un suo speciale fascino notturno. Henry James, che vi arrivava da Parigi “dove tutto pulsava e brillava”, annotava la tenebrosità delle sue notti, le strade buie e vuote  nonostante i lampioni a gas attorno al Tritone zampillante. Questo fascino era anche dovuto al difficile rapporto di Roma con l’illuminazione notturna: si doveva arrivare al gennaio del 1854 perché le prime luci a gas cominciassero a sostituire i fumosi lampioni ad olio, e solo nel 1888 furono istallati a via dei Cerchi, nelle officine della Società Anglo-Romana, le prime macchine a vapore per la produzione di energia elettrica destinata alla scarsa illuminazione pubblica. Così rovine e monumenti potevano ancora essere goduti, fino a non molti anni fa, nel bagliore unico ed irripetibile che le pietre emanano sotto il chiarore della luna e anche la Roma di Fellini, in fondo, era ancora la piccola metropoli delle notti misteriose.
Oggi la nostra città, come tutte le grandi capitali europee che ormai vivono anche di notte, ha bisogno di luce, molta luce. Ma, se nessuno rimpiange la Roma sparita dei Roesler Franz, la nostra città non è (ancora) Las Vegas e il nostro patrimonio architettonico dovrebbe essere tutelato anche da un buon progetto dell’illuminazione artificiale. I monumenti romani sono tra i prodotti più alti della cultura occidentale: non possono essere sviliti dalle deformazioni di luci spettacolari poste secondo una bizzarra, arbitraria arte combinatoria.
Chi ha visto la nuova illuminazione del Colosseo sa di cosa parlo: l’unità della costruzione, qualità lodata dai trattatisti di ogni epoca, è ora spezzata da un’insensata serie di anelli scintillanti, che schiacciano la celeberrima gerarchia degli ordini architettonici. E il Colosseo è solo l’ultimo di una nutrita serie di guasti (per fortuna reversibili). Come la berniniana facciata di Palazzo Montecitorio, dimostrazione evidente di come l’organicità solenne delle facciate romane non sopporti la decomposizione provocata da una luce radente e concentrata, ignara di ogni ordine e logica architettonica. E poi la cupola di  San Pietro, e piazza del Quirinale, per parlare solo di alcuni monumenti illustri.
La ragione (o più semplicemente il buon senso) vorrebbe che una luce artificiale discreta restituisse un’immagine autentica del monumento. Magari, se proprio non si riesce a resistere alla retorica, sottolineando con intelligenza la logica della gerarchizzazione tra le parti, che, a Roma, per il tempio antico o il palazzo rinascimentale, è sempre la stessa: basamento, elevazione, unificazione, conclusione.
La meravigliosa strategia costruttiva e il carattere plastico e murario dei nostri monumenti non si prestano al capriccio illusorio delle ombre violente. Il perimetro delle figure scintillanti ritagliate contro il buio della notte li fa assomigliare alle immagini semplificate della pubblicità, dove la parte è staccata dal contesto e affrancata dal significato originale come una lingua che ci pervenga per frammenti divenendo, dunque, incomprensibile. Una lingua ormai considerata morta, evidentemente, che nessuno si prende la briga di rendere accessibile in una città dove pure la nuova architettura, parallelamente, sembra non volersi riconoscere in alcun valore che trascenda il consumo sbrigativo, lo spettacolo istantaneo.
Anche i monumenti entrano così nel nuovo circuito dei paesaggi virtuali, nel mondo analogo della visione semplificata che occupa la retina per pochi secondi. Con grande gioia dei turisti che caracollano grati, per le strade cariche di storia, su enormi autobus dell’Atac da dove il faccione stampato di Zahar Hadid, nuovo astro e simbolo della futura architettura romana, occhieggia compiaciuto.

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