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UNA LEZIONE FRA IL CIELO E LA PIAZZA

di Giuseppe Strappa

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in “Corriere della Sera” del 1 novembre 2008

Piazza Farnese è più bella del solito sotto un cielo lilla che ci regala, dopo tanta pioggia, una luce bizzarra e iridescente.

Comincio a montare il mio cavalletto da pittore sotto lo sguardo incuriosito dei carabinieri di guardia all’Ambasciata francese. Quando arrivano, alla spicciolata, gli studenti, capiscono che si tratta di una lezione all’aperto.

Inizio a parlare. La giovane Milù, la mia cagnetta che ha insistito per accompagnarmi, mi osserva perplessa sotto le auguste pietre della fontana.

Spiego ai ragazzi, prima di tutto, il senso dell’iniziativa, la protesta per i brutali tagli dei fondi all’università. Come già ora gli stanziamenti ottenuti da Valle Giulia, gli ambitissimi e rari finanziamenti per i Prin, progetti di rilevante interesse nazionale, destinati a migliorare lo sviluppo delle periferie, siano ridicoli di fronte al mare di soldi e di cemento che la speculazione sta riversando sui nostri quartieri. E quanto sia irrazionale che un dipartimento che costa allo Stato un bel po’ di quattrini, venga alimentato da pochi spiccioli. Come se un’industria che produce pomodori in scatola, azzardo, decidesse di risparmiare non acquistando più pomodori. Gli studenti sorridono.

Comincio la lezione: l’architettura che nasce dalla vita.

Cerco di disegnare, su carta da pacchi, la nascita del tessuto romano, la solidarietà tra le modeste, dignitose case a schiera che si uniscono, formano le contrade, si trasformano in isolati, in case in linea, in palazzi. Un grande fiume ininterrotto di costruzioni, aggiornamenti, rovine, rifusioni.

Un fabbro del posto, che conosco da anni mi fa una sofisticata domanda sui nodi tettonici della casa romana, tra l’ammirazione dei ragazzi. Quando alcuni turisti cinesi ci fotografano, capisco che siamo entrati in una cartolina, che facciamo parte del colore locale.

Ci spostiamo a Campo de Fiori, un testo d’architettura didattica che spiega, con un colpo d’occhio, quello che nessun disegno può comunicare. Quanto aveva torto Le Corbusier quando diceva che non bisogna portare gli studenti di architettura a Roma, dove mancano il Settecento e l’Ottocento, i secoli della modernità! Tutte le facciate che vediamo sono ottocentesche.

La modernità muraria romana nasce dalla trasformazione di tracce profonde, come depositi della memoria che riemergono attivi e vitali. La poesia nascosta di queste facciate, spiego, si può capire solo studiandone la lingua. Li avrò convinti?

Arriviamo a via di Grottapinta, dove il tessuto di case è orientato dal sostrato potente del teatro di Pompeo e si avvolge nella raggiera delle sue rovine.

Sulla magica curva che, fastosa e pedagogica, separa gli edifici dal cielo, le nuvole preparano nuova pioggia.

Termina la lezione. Milù, spossata da tante chiacchiere, si è addormentata sui gradini del Teatro dei Satiri. Ma lei sa già, sono sicuro, che Roma è un premio.