di Giuseppe Strappa
in “La Repubblica” del 4 marzo 1992
E’ il settembre del 1929. I giornalisti stranieri giunti a Roma per il XII Congresso internazionale delle Abitazioni e dei Piani Regolatori vengono scorazzati, con la cura che la propaganda impone, a visitare i nuovi quartieri popolari costruiti dal regime. Le loro corrispondenze, tranne qualche cenno alla correttezza costruttiva delle opere, lamentano invariabilmente lo stato di desolante arretratezza dell’edilizia economica romana. Joseph Gantner, dell’autorevole “Frankfurter Zeitung”, è in prima fila tra quanti ironizzano sui goffi tentativi di nobilitare il tema della casa a basso costo con strumenti eccessivi, apparati decorativi ridondanti, col risultato che alcune abitazioni economiche sembrano ministeri, altre potrebbero essere state costruite “da Borromini per un cardinale” ,
E’ comprensibile dunque il loro stupore quando vedono apparire sul Lotto 24 della Garbatella, tra gli stralunati palazzetti neobarocchi sparsi nella campagna ancora coltivata, un piccolo quartiere dalle forme semplicissime, una famiglia di volumi silenziosi appena increspati da poche allusioni alla vocazione rurale del luogo : qualche alto comignolo, qualche bugnato in tufo o mattone, gli sporti dei tetti, familiari e paterni, che danno ombra su nitidi piani ad intonaco.
La sorpresa è generale. Gli articoli cambiano tono: cominciano a riportare con ammirazione il “luminoso esempio di costruzioni moderne e razionali” parlano di “un raggio di luce nell’uniforme monotonia degli edifici” dove le costruzioni testimoniano il nuovo impulso verso “un chiaro, deciso, non sentimentale modo di costruire”.
Le case innovative del Lotto 24 erano il risultato di una competizione che aveva visto associati alcuni tra i migliori giovani architetti romani (Aschieri, De Renzi, Cancellotti, Vietti, Marchi, Marconi) ad altrettante imprese di costruzione per partecipare ad un concorso “costruito” . I progetti delle abitazioni ,il cui costo era stabilito in partenza, non dovevano cioè essere giudicati sulla carta, ma dal vero e le costruzioni, in seguito, abitate stabilmente. Il bando prevedeva case “ad alloggi sovrapposti” con accesso diretto dalla strada, secondo una formula di protezione dell’intimità domestica che oggi si va riscoprendo un po’ dovunque, soprattutto nei nuovi quarteri della banlieue parigina. Se il termine avesse ancora qualche senso , le tredici case prodotte dal concorso del ’29 potrebbero essere definite un modello di architettura moderna.
Erano costruzioni di una razionalità solare, latina , che poco aveva in comune con le contemporanee ricerche, un po’ lugubri ed ostentatamente dimostrative, del celebrato razionalismo tedesco. Lontanissime dallo spirito dell’ existenzminimum , da quell’ansia di trovare la superficie minima abitabile che sembrava la panacea dei problemi della penuria di alloggi . Vi dominava, invece, l’idea di una modernità paradossalmente intesa come ritorno, come recupero di antiche leggi di semplicità compositiva. Ne sono esempi cristallini le case di Mario De Renzi, costruite all’angolo tra via delle Sette Chiese e via Borri ,o le nitide abitazioni di Gino Cancellotti ,al centro del lotto triangolare, dove il rigore dell’impianto non deriva dall’adeguamento della forma alla funzione, ma dalla limpida poesia di una geometria quasi palladiana.
Fu un giornalista del “Deutsch Bauzeitung” ad accorgersi di un altro carattere originale dell’architettura romana che queste case testimoniavano: egli notava come tra i giovani italiani fosse sconosciuto il personalismo cumune agli architetti tedeschi, come essi rifuggissero dai manifesti: “Qui è la forza della tradizione che da al quadro urbano un’energia che è affatto caratteristica”. Una modernità non inseguita nei personalismi delle avanguardie artistiche, dunque, e nemmeno nelle suggestioni del mondo della macchina, ma evocata attraverso la semplificazione, il realismo costruttivo. Lontani dai protagonismi delle avanguardie, i giovani architetti romani rifiutavano quella componente ideologica che si è rivelata la parte più fragile del Movimento Moderno.
Oggi queste case restano , nonostante l’incuria , tracce durevoli di una solida tradizione moderna romana: un’eredità che va ricostruita ricomponendo i frammenti che una storiografia arrogante ha relegato tra i fenomeni provinciali (la storia, si sa, anche in architettura, è scritta dai vincitori) .
Tracce che dimostrano ,contro un’ opinione radicata da tanti guasti recenti, che non tutto quello che a Roma è stato prodotto di nuovo è stato costruito contro la città; che l’intelligenza, come la buona architettura non é sempre destinata al fallimento. Anche in una città cinica come Roma.
Per questa ragione le case del Lotto 24 vanno protette : esse debbono testimoniare, come segno di ottimismo verso la città futura, un ricordo e un’attesa.