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La lezione indiana di Studio Mumbai

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 5 novembre 2012

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La mostra in corso presso l’Accademia Britannica di via Gramsci sul lavoro di Studio Mumbai , una nuova

 

struttura di artigiani e architetti indiani che disegnano ed eseguono direttamente i loro lavori, mi pare possa suggerire qualche utile argomento di riflessione.

Si ritrovano, negli spazi delle loro case, la trasparenza delle pareti di canne dei villaggi immersi nei palmeti, le esili strutture di legno che sembrano appena sfiorare il battuto di cemento e la terra bagnata dai monsoni. La luce filtra all’interno e illumina gli oggetti che la vita deposita sui pavimenti lasciando, tuttavia, misteriose zone d’ombra che sembrano inesplorate.  L’arte sembra solo un lavoro ben fatto.

Ma il ciclo produttivo che genera queste architetture è tutt’altro che arcaico: il sapere artigiano si confronta con soluzioni sempre nuove, sperimenta tecnologie, modelli di scale, coperture, infissi, nodi costruttivi.  Non imita forme nostalgiche e vernacolari. Al contrario, ben piantato al centro della contemporaneità, Studio Mumbai è tra le voci più originali in un mondo che, nel culto dell’invenzione e dello straordinario, si va in realtà appiattendo in appariscenti convenzioni. Le loro opere, ancora non numerose, sono pubblicate sulle principali riviste del pianeta, ottengono premi dovunque, vengono presentate in mostre a Tokyo, Londra, Venezia.  Qualche giorno fa, in una libreria di Amsterdam, mi è capitato di trovare perfino una loro monografia in cinese.

Un fenomeno del quale, credo, dovremmo tener conto.

Perché da noi, seguendo l’eredità di una modernità privata delle sue idee, quello internazionale dei costosi contenitori d’acciaio e vetro, dai tempi dei Ridolfi, Libera, Luccichenti, nessuno sperimenta più l’architettura organica delle nostre pareti massive, corali, protettive che pure possiede un proprio linguaggio moderno capace di esprimere anche le distonie e le frammentazioni del mondo contemporaneo. Quel patrimonio romano di forme murarie e plastiche, ormai abbandonato a qualche isolato conservatore, che pure potrebbe essere di grande attualità per la sostenibilità e il risparmio energetico che consente.

Le opere di Studio Mumbai contengono un nucleo costruttivo e poetico profondamente legato al luogo di provenienza, al mondo delle costruzioni elastiche e trasparenti, eppure sono “esportabili”, entrano in relazione con i circuiti della comunicazione planetaria. Certo, anche la loro è una scaltrissima architettura-spettacolo gestita con piglio hollywoodiano dal “ministro degli esteri” Bijiy Jain. Ma uno spettacolo originale perché guarda all’origine delle cose, alla città vera che si trasforma, alle immagini e alle costruzioni che si riciclano.

Non è possibile che anche da noi qualche giovane sperimenti un’architettura, insieme, locale e globale, che non attinga alla retorica di un passato mitizzato, ma alla storia vitale trasmessa dallo stesso carattere dei materiali?

La vera globalizzazione non è, del resto, una marmellata universale di stereotipi dove, nell’ansia di novità, tutto si stempera e diviene omogeneo, ma un grande mercato che si alimenta di diversità, dei contributi di molte, contrastanti identità.