PATRIMONIO GEOLOGICO E POLEMICHE. IL PESO DEL MUSEO
in «Corriere della Sera» del 3.02.2005
di Giuseppe Strappa
L’ingegner Raffaele Canevari era un entusiasta per carattere. Da studente, nel 1849, aveva partecipato alla furiosa difesa di Roma dalle truppe francesi. Con altrettanta passione si era poi gettato nello studio delle costruzioni metalliche che in quegli anni facevano irruzione nella sonnolenta città di Pio IX. Voleva che Roma partecipasse al progresso delle grandi metropoli europee, allo spirito innovatore delle Halles parigine, del Crystal Palace londinese. Realizzava, tra l’ammirazione dei concittadini, ferrovie e ponti sospesi. Poi, appena trasportata la Capitale a Roma, costruì il nuovo Ufficio geologico voluto da Quintino Sella. Fu il suo capolavoro. Soprattutto per la facciata su largo Santa Susanna, dove si svolge la trama leggera del telaio chiuso da grandi vetrate che sembrano anticipare i temi dell’architettura moderna. E per l’interno, dove i solai, sorretti da esili colonne in ghisa, si avvolgono leggeri intorno allo spazio centrale. L’Ufficio, con le sue eccezionali collezioni di pietre antiche, campioni geologici e paleontologici provenienti dall’intero territorio italiano, divenne uno dei simboli del nuovo Stato unitario.
Nel 1994 si decise di ristrutturarlo. Si parlava, in quegli anni, di giacimenti culturali, secondo un’orrenda definizione di Gianni De Michelis, e di come il patrimonio pubblico dovesse produrre reddito. Quale occasione migliore? A due passi dalla Stazione Termini, l’edificio poteva diventare una grande attrazione turistica, con le collezioni di pietre antiche capaci di trasmettere il pathos delle costruzioni romane (a partire dalle mura serviane, appena scoperte nel suo sottosuolo), e l’esposizione dei marmi che hanno dato vita alla statuaria e ai sontuosi rivestimenti dell’età imperiale.
Sarebbe bastato integrare con intelligenza le vecchie collezioni di alabastri, brecce, graniti, raccolte dal generale Pescetto, con alcuni dei volti marmorei di consoli, matrone, bassorilievi funerari dei depositi capitolini, per evocare straordinarie storie di metamorfosi. Con molto meno a Parigi il Museo di storia naturale, ottenuto riordinando in modo contemporaneo vecchie collezioni, richiama fiumi di visitatori.
Invece la ristrutturazione non è mai stata completata, le raccolte sono state disperse, e il reddito, miserabile, è arrivato dalla vendita dell’edificio alla Fintecna. Ancora oggi, dopo quasi vent’anni di chiacchiere, non si sa quale sarà il suo destino. Si sta perdendo, così (nonostante il vincolo architettonico, quello archeologico, le denunce di Italia Nostra) l’occasione per creare un fondamentale Museo di scienze della terra che spieghi i grandi cicli di trasformazione della materia in architettura e come il territorio sia il grande alveo che li accoglie, dove la mano dell’uomo ha prodotto opere sorprendenti, ma anche catastrofi epocali.
Proprio quando l’attenzione all’emergenza geologica del nostro fragile territorio dovrebbe entrare a far parte della coscienza comune, essere trasmessa nelle scuole, si cancella uno degli strumenti che potrebbero comunicarne importanza e valore. Per questo disastrato Paese non è un buon segno.
IL MUSEO PERDUTO
di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del 15 aprile 2013
Da tempo si parla di un museo della scienza a Roma come percorso urbano che coinvolga l’intera città, basato su poli costruiti ristrutturando le collezioni esistenti, dove il legame con la ricerca consentirebbe una divulgazione non banale. Il farraginoso museo della Villette a Parigi, peraltro, mostra in modo spettacolare l’impossibilità di comprendere la totalità del sapere in una struttura unitaria, l’inattualità del museo scientifico come sistemazione classificatoria, enciclopedia delle conoscenze.
Di questa nuova rete il Museo geologico a largo Santa Susanna potrebbe divenire uno dei gangli vitali perché nelle sue preziose collezioni e nell’ architettura della sua ottocentesca sede (nel messaggio innovatore di trasparenza e leggerezza che le sue trame metalliche contengono) si concentrano molte memorie e simboli della cultura scientifica romana.
Non solo. Dai percorsi labirintici delle antiche cave nel sottosuolo, alle mura serviane di tufo appena portate alla luce, fino allo splendore delle collezioni di pietre e marmi antichi dei luminosi piani alti, il rinnovato museo potrebbe mostrare uno spaccato del legame della città col suo sottosuolo. Un legame con la materia che, trasformata da una civiltà plastica e muraria, ha alimentato per secoli vocazioni e durata dell’architettura romana. Un modo di leggere Roma attraverso uno dei suoi caratteri fondanti: i materiali che emergono dalle profondità del suolo, come da un’oscura regione germinale, e vengono immessi nel ciclo vitale della città, dove acquistano la coerenza delle strutture, si aggregano in solari organismi architettonici.
Eppure le molte proposte che si sono alternate sulla sorte dell’edificio disegnato da Canevari (uffici dei servizi segreti, Casa delle Nuove Tecnologie, “mediateca” con negozi e ristoranti e altro ancora) sembrano considerare questo patrimonio non una risorsa, ma un peso di cui doversi liberare. Col risultato che oggi molte raccolte, con i loro olotipi fossili unici al mondo, sono malinconicamente ammassate in capannoni a Castelnuovo di Porto mentre alla grande biblioteca voluta da Quintino Sella sono stati assegnati 240 miseri metri quadrati in due magazzini a lungotevere dei Papareschi!
Non solo Italia Nostra, sulla scia delle battaglie di Antonio Cederna, ha posto con forza il problema, ma la stessa UNESCO ha espresso preoccupazione per la sorte di “collezioni insostituibili”. E centinaia di uomini di cultura hanno firmato contro la manomissione dell’edificio, palinsesto tra i più significativi della via romana alla modernità.
Il valore di un’opera d’architettura non sta solo nel suo oggettivo valore documentario. Contano, soprattutto, i significati che gli sono attribuiti, le letture che ne vengono fatte. Per questo occorre opporsi di continuo alla catena di proposte che si vanno succedendo, le quali finiscono per trasformare il severo edificio di largo Santa Susanna, da magnifica eredità culturale, in contenitore asettico, disponibile, depurato della sua storia.