Marco Trisciuoglio lecture in Urban Morphology Sapienza course
Lezione di Marco Trisciuoglio al Corso di Urban Morphology
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di Giuseppe Strappa
in “Gianfranco Caniggia architetto” a cura di G.L.Maffei, Firenze 2003
1. LA CRITICA AL MODERNO INTERNAZIONALE
Non c’è dubbio che la collocazione storica della figura di Gianfranco Caniggia, dello studioso, del progettista, possa essere compresa solo nell’ambito di una sostanziale continuità con i portati della propria area culturale di formazione, rispetto alla quale tanto le figure dei “sopravvissuti” che avevano contribuito alla nascita della Scuola di Architettura di Roma tra le due guerre (Fasolo, Foschini, Piacentini), quanto la figura di Saverio Muratori, costituiscono il volano di trasmissione di un’eredità ampiamente dilapidata dall’architettura italiana del secondo dopoguerra.
Il tema del ruolo fondamentale svolto da Saverio Muratori nella formazione del pensiero caniggiano è ampiamente svolto in altra parte di questa pubblicazione.
Si vuole invece qui sviluppare alcune considerazioni, già in parte anticipate nel convegno di Cernobbio del luglio 2002 , sull’eredità che Caniggia ha raccolto di sperimentazioni didattiche operate dalla Scuola di Architettura romana tra le due guerre basate su una nuova centralità della storia nella lettura e nel progetto della realtà costruita, e sul lavoro di “restituzione” delle architetture del passato come premessa all’impiego della “riprogettazione”, ricostruzione, operata con gli strumenti del progettista, dei processi formativi della realtà edilizia attraverso la quale si trasmette concretamente la nozione di organismo come “correlazione integrata, autosufficiente di nozioni complementari tese ad un fine unitario”.
Molto si è scritto, soprattutto nel dopoguerra, ma anche in tempi recenti, sulle posizioni sostanzialmente conservatrici della Scuola di Architettura romana delle origini, ritenuta genericamente “accademica” nell’accezione di ossequio pedante alle forme ed alle norme progettuali tradizionali: una didattica straniata rispetto alle istanze dei tempi in rapida evoluzione e una progettazione contraria allo spirito della modernità che, con un equivoco storiografico strisciante e durevole, viene identificata con l’avanguardia.
In realtà Giovannoni, Fasolo, Milani, e dopo di loro Muratori e Caniggia, che ne riprendono in modo innovativo l’insegnamento, sono perfettamente coscienti delle condizioni indotte dalla modernità e tuttavia, come tutti gli spiriti classici, essi leggono l’avanguardia come perdita delle regole e frammentazione della sostanziale unità del sapere riconoscendo, lucidamente, alla condizione moderna caratteri ben più problematici. Frammentazione che, in architettura, coincide con l’irrazionale distruzione di valori consolidati, con l’intellettualistica, e quindi astratta, sperimentazione ignara di ogni norma.
Essi conoscono bene i presupposti in cui si svolge la crisi della vicenda moderna, come non sia ripetibile l’arcaica unità delle cose che aveva permesso lo svolgersi in continuità storica delle esperienze civili, i cicli di costruzione e decadenza delle forme. E sanno che il mondo ha bisogno di nuove risposte a nuovi, complessi problemi. Ma non condividono, e questo li differenzia dai pionieri del movimento moderno e dai loro epigoni, l’accettazione della crisi e l’adeguamento fideistico ai nuovi miti, la presa d’atto dell’irreversibilità della disgregazione di ogni lingua condivisa, di ogni autentico linguaggio. E poi di ogni stile. Nel solco dei grandi riformatori, tuttavia, essi non si arrendono all’apparente evidenza delle cose leggendo la realtà edilizia non per come essa semplicemente si mostra (cosa, del resto, comune a ogni settore della conoscenza) ma secondo una propria etica progettuale, finendo per far convergere la lettura con un’ipotesi di trasformazione che da senso al reale, unificando nel “pensiero che si fa architettura” la coscienza dei molti fenomeni che l’evidenza dei documenti sembra mostrare come frammenti dispersi.
Le intuizioni di Giovannoni, le grandi visioni territoriali di Muratori, le interpretazioni delle trasformazioni organiche dell’edilizia di base in specialistica di Caniggia, sono letture che non solo sottintendono il progetto: sotto molti aspetti sono esse stesse progetto.
Nel pensiero caniggiano la lettura della vicenda moderna (delle condizioni di crisi derivate dallo smarrimento di fronte ai ripetuti ed estesi scambi areali, all’internazionalizzazione degli strumenti critici del progetto, alla generalizzata serializzazione delle forme, all’insorgenza di nuovi modi di produzione) si ricollega ad una corrente di pensiero che nasce dalla critica a quelle contraddizioni che hanno origine nella radicale scissione tra leggibilità e costruzione generata dalla perdita dell’idea sintetica ed unitaria di organismo. Rottura nella quale, dall’inizio del secolo, riconoscono la formazione dei diversi filoni del moderno internazionale.
Giovannoni pone il problema già negli anni ’30, comprendendo con chiarezza come l’architettura moderna non possa essere ricondotta ad un unico corpus di teorie e strumenti di progetto, individuato in forma sintetica attraverso una supposta lingua comune. Contro la pubblicistica militante che tende ad avallare un’idea unitaria del movimento moderno, Giovannoni sostiene l’esistenza di molte, contraddittorie forme della modernità, individuando nel tema della discordia tra componente tecnico analitica e artistico intuitiva, e nel suo diretto portato individuato dal disorganico rapporto tra struttura (intesa anche nella sua accezione di sistema statico-costruttivo) e forma architettonica, il centro intorno al quale ruotavano principi progettuali tra loro opposti: il processo di parallela trasformazione dei principi della tecnica e dell’estetica, che aveva consentito continui scambi tra discipline complementari, si interrompe nel XIX secolo, quando nella diade costruzione-forma si spezza il filo della continuità stilistica e i due termini “sembrano appartenere ad un organismo che abbia perduto il suo equilibrio fisiologico” .
Giovannoni legge nella separazione tra “immaginazione” architettonica e costruzione operata dall’eclettismo e, in misura esasperata, dal modernismo di inizio secolo, l’origine di quella decadenza del principio di verità che ha sempre costituito, nel corso della storia, una delle regole etiche che l’architetto è chiamato a rispettare, come dimostra lo svolgimento moderno della stessa architettura romana dove hanno avuto scarso seguito correnti innovative quali il liberty che proponevano un rapporto tra leggibilità e caratteri dell’organismo tanto indiretto da lasciare lo studio delle facciate ad altre discipline ( le arti visive, il disegno industriale). Principio di verità, si noti, che Giovannoni non riduce a semplice rapporto di causa-effetto tra soluzioni statico-costruttive ed esiti plastico-spaziali, introducendo quella nozione di relazione implicita, non meccanica, che media forma e costruzione, che Caniggia svilupperà con grande chiarezza nell’esposizione delle forme di leggibilità “diretta e indiretta” dell’organismo architettonico soprattutto nel secondo dei due volumi dedicati al progetto dell’edilizia di base . Contro le semplificazioni delle correnti positiviste, Giovannoni fornisce una definizione implicita delle nozioni di leggibilità che sembra, infatti, preludere alle riflessioni caniggiane. stabilendo il principio che il fondamento che deve reggere la composizione architettonica non deve avere una “materiale base costruttiva” poiché le regole della costruzione forniscono preziosi mezzi d’espressione nei casi semplici, e tuttavia risultano insufficienti nelle applicazioni di maggiore impegno: il carattere costruttivo deve porsi quale componente o “sentimento generale di composizione” nella formazione del carattere generale dell’edificio, evitando soluzioni che ne mostrino il corpo nudo, addirittura traendo fuori e mettendo “in vista lo scheletro.”
E proprio attraverso riflessioni sulla forma, ammettendo come, in alcuni filoni di ricerca, la leggibilità indiretta abbia prevalso sulla leggibilità diretta dell’organismo costruttivo, Giovannoni individua la scissione dell’unità originale del progetto in diversi, specializzati aspetti del pensiero moderno sull’architettura.
La linea di pensiero positivista è individuata nella sequenza che ha origine nelle affermazioni dello Schopenhauer di Die Welt als Wille und Vorstellung sulla lotta tra peso e rigidità nell’architettura e si sviluppa con le teorie costruttiviste di Viollet le Duc esposte in Entretiens sur l’Architecture, con le affermazioni di Pugin (ritenute anticipatrici, peraltro, di un’ interpretazione funzionalista dell’architettura), per terminare con l’insorgenza dei quesiti posti da nuove sperimentazioni edilizie e da nuovi materiali ai quali i teorici del movimento moderno, segnatamente il Le Corbusier di Vers une Architecture nouvelle, danno una risposta in termini di estetica della macchina e produzione industriale.
Accanto a questa linea di pensiero, e in diretta opposizione al suo apparente pragmatismo produttivista, Giovannoni individua un secondo filone di teorie che privilegiano regole estetiche (dimensionali, geometriche, cromatiche) legate in realtà più alla fisiologia che alla ragione, preteso principio di progettazione. Linea di pensiero che ha le sue radici nei teorici dell’antichità, che sembra trovare nell’arte astratta nuove giustificazioni e che in realtà convive con l’accezione positivista dell’opera dell’architetto senza che alcun critico contemporaneo ne riveli le contraddizioni. Sebbene, inspiegabilmente, Giovannoni, che pure aveva individuato nella teoria delle proporzioni di August Tiersch l’anello di congiunzione fra trattatistica antica e progetto moderno, non esemplifichi nella pratica architettonica i risultati di questa diversa componente della modernità, è evidente l’allusione ad opere quali la lecorbusieriana Villa Stein dove il tracciato regolatore compare, libero da ogni ragione strutturante, quale esorcismo contro l’arbitrarietà della composizione della facciata denunciando la sua nascosta derivazione, attraverso Muthesius, dalla tradizione del pittoresco anglosassone.
L’inizio di una interpretazione moderna del filone espressionista, contrapposto all’estetica “formale ed oggettiva” basata su regole geometriche, terzo gruppo di teorie anch’esso latente nella trattatistica antica e rinascimentale, viene colto da Giovannoni soprattutto negli studi sull’uso della psicologia nell’interpretazione dell’opera artistica di Wölfflin, mentre un quarto gruppo di teorie è riconosciuto nell’opera di quanti fanno derivare le forme architettoniche dall’ambiente, inteso tanto come contesto storico quanto come carattere del luogo, ponendo con chiarezza il problema, che percorrerà l’intera seconda metà del XX secolo, con particolare evidenza negli anni ’70 e ’80, del rapporto ai riferimenti areali, spesso semplificati nella diade internazionalismo-localismo.
E’ evidente il rapporto tra questa interpretazione dell’architettura moderna come lacerazione di una originale, organica totalità condivisa e l’interpretazione muratoriana della vicenda moderna, così come è sta esposta proprio nel periodo che coincide con la prima fase di elaborazione critica del pensiero caniggiano, nei primi scritti del dopoguerra e nelle lezioni impartite presso la Facoltà di Architettura di Roma alla fine degli anni ’50, raccolte e pubblicate da G. Cataldi e G. Marinucci nel 1990 .
Ma Giovannoni ammette anche, al contempo, come le innovazioni teoriche che hanno caratterizzato il movimento moderno, benché disattese dagli esiti, abbiano costituito il tentativo di superare la deriva eclettica di fine Ottocento tentando di ricostruire una forma di nuova pienezza del progetto.
Antinomia tra teorie del moderno e prassi costruttiva che Giovannoni riconosce, tra l’altro, nei manifesti dell’architettura razionale: il suo non è, infatti, il rifiuto tout court del razionalismo “che segue il principio del necessario e del sufficiente”, ma del razionalismo “irragionevole” che finisce per scindere i problemi del progetto in “esagerazione” costruttiva da una parte, e funzionale dall’altra: le facciate “piallate” finiscono per aderire agli stessi principi di arbitrio formale dell’eclettismo, mettendo, tuttavia, nel conto dell’unità progettuale quel residuo di componente spontanea che permette di parlare di arte come “intuizione aprioristica” o “forma aurorale della conoscenza” .
Dietro i più recenti sviluppi del razionalismo finisce per nascondersi, dunque, la stessa frammentazione delle altre correnti del moderno: il principio di verità, esaltato nella tecnica, si rivela in realtà contraddetto dalla mancanza di un ordine generale condiviso, di una disciplina che liberi il progetto dalla mutevolezza delle mode, dall’invenzione estemporanea.
Il pensiero muratoriano, fin dalle prime sintesi degli anni ’40, sembra ampiamente riprendere e sviluppare alcuni dei temi posti da Giovannoni, non solo sostanzialmente riconoscendo le stesse lacerazioni nella vicenda moderna e includendo il modernismo tra gli eclettismi (estetismi ambientali) che hanno perso l’ordine che regola la formazione unitaria degli organismi architettonici, ma riconsiderando, più in generale, lla frammentazione della lingua che precede la prima guerra mondiale come origine della crisi del linguaggio moderno. Fase che, nonostante mostri moderazione rispetto agli eccessi dell’eclettismo ottocentesco, è un passaggio equivoco della storia dell’architettura: non credendo nell’unità del linguaggio, finisce per essere anch’esso un periodo “antistilistico” .
Contrariamente a quanto vorrebbe una storiografia superficiale e disinformata che separa dicotomicamente accademici e innovatori, quella di Giovannoni è una critica all’internazionalismo moderno, dunque, perfettamente aggiornata e fertile di conseguenze, inserita con piena coscienza nel quadro del contemporaneo dibattito. Non si tratta, in altri termini, “da un lato di persone ignare del quadro culturale europeo, – come osserva Caniggia – e dall’altro di persone informate e partecipi. Semmai si può constatare che l’apparente autonomia dei primi nei riguardi degli sviluppi diatopici dell’architettura sia il portato intenzionale della loro attenzione ad una relativa autoctonia di esperienze, del loro continuo riferirsi alla partecipazione al “luogo” obbligante ad una continua scelta critica che porta all’esclusione di modi e di comportamenti ritenuti incongrui al luogo stesso; preferendo piuttosto, dell’esperienza esterna, assumere le valenze dichiaratamente non oppositive al costruito romano” .
In continuità con questo il filone critico sviluppato tra le due guerre, anche Caniggia accetta la sostanziale necessità storica del movimento moderno, ammettendo soprattutto come questi abbia tentato di superare, pur nella contraddizione delle specializzazioni cui si è fatto cenno, lo scollamento della forma leggibile di edifici ed aggregati dai relativi tipi edilizi e tessuti di pertinenza: soprattutto nell’edilizia di base, l’imitazione della leggibilità derivata dall’edilizia specialistica di matrice ottocentesca viene, in alcuni casi con successo, superata dal tentativo di una parte dell’architettura moderna di ritorno al rapporto comprensibile tra costruzione (orientamento dei corpi di fabbrica, tessitura dei solai, disposizione delle pareti portanti) e leggibilità esterna (gerarchizzazione delle aperture, espressione nell’involucro delle unità abitative).
Secondo un’intuizione critica già latente nel pensiero di Giovannoni, l’accusa al movimento moderno è rivolta soprattutto al non aver tenuto conto dei processi formativi, e quindi ai suoi contenuti estetizzanti ed individualistici. I quali processi, tuttavia, continuano ad operare anche nell’architettura più divulgata della modernità, in una sorta di residuo o inerzia areale che anche la più spinta intenzionalità non riesce ad eliminare del tutto. Come nel caso delle case a schiera di Oud a Kiefhoek, dove il ruolo non portante della parete di facciata è dichiarato con evidenza e l’apertura a nastro sembra derivare dalle radici della lingua locale, dalle matrici elastico-lignee dell’area olandese, nonostante la soluzione oppositiva della copertura piana, o nel caso dell’isolato di Fisker a Copenhagen dove la serialità ossessiva delle bucature indifferenti alla dimensione dei vani sottesi è fatta derivare dalla costruzione a traliccio ligneo e finestratura continua, sebbene risulti oppositiva alla tradizione locale la soluzione d’angolo rigirante, più pertinente ad aree di tradizione muraria.
2. L’AGGIORNAMENTO DELLA NOZIONE DI ORGANISMO
La misura di quanto il filone di pensiero che dalla Scuola romana formatasi tra le due guerre conduce a Caniggia sia stato innovativo nel contesto del dibattito, non solo italiano, sugli strumenti del progetto di architettura, è data dal raffronto con le condizioni al contorno. Se rapportato alla contemporanea interpretazione che le contemporanee scuole europee hanno fornito di discipline come Storia dell’architettura o Restauro, ad esempio, non si può non rilevare l’importanza del grande, originale sforzo di sintesi compiuto dalla Scuola romana per il loro rinnovamento attraverso l’esercizio della “restituzione” dei monumenti, non solo come parte costituente della cultura dell’architetto, ma come metodo per estrarre dall’ insieme dei testi trasmessi dalla storia le regole della lingua.
Eredità che Caniggia ha sviluppato, innovato e sistematizzato a tal punto, introducendo il problema della comprensione non solo della lingua colta dei monumenti, ma anche del “parlato” dell’edilizia di base, da fondare quasi una nuova disciplina il cui valore apparirà tanto maggiore quanto più si terrà conto del clima culturale nel quale sono state compiute le sue sperimentazioni didattiche e progettuali, contrassegnato, tranne rare, pur rilevanti eccezioni, da confuse reinterpretazioni del passato inteso come repertorio morfologico da saccheggiare o da esauste rivisitazioni dei principi del movimento moderno .
Per comprendere quali siano le radici di questa disciplina occorre considerare il ruolo fondante che l’insegnamento della storia, come si diceva, aveva acquistato nella Scuola romana di anteguerra, continuamente aggiornato attraverso l’insegnamento di Gustavo Giovannoni prima, e di Vincenzo Fasolo poi. In realtà questo insegnamento era impartito non solo attraverso i corsi istituzionali di Storia dell’Architettura, ma per mezzo di un vero “organismo didattico” al quale collaboravano, in stretto rapporto di necessità e comunanza di fini, corsi come Caratteri Stilistici e Costruttivi dei Monumenti, impartito per moltissimi anni da Guglielmo De Angelis D’Ossat a partire dal ’37 in sostanziale identità di vedute con Gustavo Giovannoni e nella convinzione che l’intervento di restauro possieda, come tutte le operazioni di architettura, una non eliminabile sostanza critica e, in definitiva, progettuale. Organismo didattico al quale forniva un contributo fondamentale l’insegnamento di Restauro dei Monumenti, impartito, nel primo anno di vita della Regia Scuola di Architettura di via Ripetta nel 1920-21, prima che questa divenisse facoltà universitaria, da Sebastiano Locati, didatta che ebbe un ruolo breve ma significativo, di collegamento con le ricerche lombarde e gli antecedenti del Boito di cui era stato allievo. Formatosi presso l’Accademia di Brera e poi presso il Politecnico di Milano, conoscitore dei caratteri organici dei monumenti romani attraverso il rilievo diretto delle fabbriche, Locati proponeva un restauro basato su regole deducibili, secondo un criterio analogico, dal raffronto stilistico tra opere sincroniche: un restauro che la propria formazione, allo stesso tempo tecnica e artistica, permetteva di considerare come sintesi di tutte le discipline di architettura, secondo un’interpretazione del ruolo del progettista vicina a quella giovannoniana. Insegnamento poi rilevato dallo stesso Giovannoni, che lo manterrà, per vent’anni, fino alla conclusione del suo ruolo di docente nel 1943, a testimonianza del compito fondante che la disciplina era chiamata a svolgere nel più generale contesto del progetto didattico della Scuola romana.
Per Giovannoni la “restituzione” didattica dell’ originale organicità dell’opera, condotta attraverso la lettura di trasformazioni tipiche, costituiva, infatti, uno strumento finalizzato non solo al restauro ma, più in generale, alla comprensione dei processi formativi degli organismi architettonici. Non a caso, di fronte al problema del restauro di un’opera di architettura, Giovannoni proponeva, prendendo le distanze dalle ricostruzioni alla Viollet le Duc e con un’affermazione di principio sorprendente eppure perfettamente coerente con le premesse teoriche, che la restituzione dell’opera completata dal restauro (si noti, anche qui, l’affinità con le riflessioni caniggiane) potesse anche non essere mai realmente esistita.
E’ chiaro, dunque, come il restauro non venisse semplicemente inteso come studio e tutela del documento nei suoi aspetti storici ed artistici, ma come operazione squisitamente progettuale la quale, come ogni progetto, è modificazione critica della realtà costruita e, insieme, risarcimento delle qualità dell’organismo inteso, caniggianemente, come tipo individuato.
Giovannoni si rendeva conto, in realtà, della specificità del metodo di indagine impiegato dall’architetto nei confronti di altre discipline e di come gli architetti, “quando applicano all’architettura i metodi adatti per le altre arti, in cui la tecnica è semplice ed è subordinata al pensiero artistico, divengono anch’essi dilettanti e spesso anche dilettanti presuntuosi.” In questo quadro la storia non poteva essere considerata strumento di conoscenza avente fini autonomi, ma finiva per costituire la concreta premessa a quella “storia operante” che verrà proposta con forza dalla scuola muratoriana nel dopoguerra le cui potenzialità, soprattutto nel campo del recupero, conservazione e tutela dei tessuti storici, la cultura del restauro, come ha osservato coraggiosamente Gaetano Miarelli Mariani, “non ha saputo o voluto comprendere e tanto meno mettere a frutto.”
Anche le discipline del disegno dovevano assumere, infine, una funzione vitale nell’insegnamento della storia dell’architettura della Facoltà di Roma . Proprio il disegno, infatti, diviene non solo strumento di comunicazione e trasmissione grafica, come nelle scuole di applicazioni per ingegneri, ma soprattutto mezzo di indagine e conoscenza, costituendo il legante tra il ruolo della storia e quello della progettazione .
Ne risultava che, secondo una tesi sviluppata da tempo da Giovannoni, il metodo di indagine dell’opera architettonica doveva essere “integralistico”, cioè esaminare i fenomeni che concorrono alla formazione dell’organismo unitariamente, sotto i diversi aspetti “costruttivi ed estetici, di pratiche esigenze spaziali e finanziarie e di espressioni nella rappresentazione esterna, di rapporto con la civiltà e le condizioni sociali” .
Il problema dell’unità dell’insegnamento come premessa alla capacità di sintesi organica espressa dal progetto era stata già posto da Giovannoni nel 1907 con la proposta della figura dell’ “architetto integrale” che avrebbe dovuto essere formata attraverso settori di studio coordinati, finalizzati ciascuno a fornire: una “completa preparazione artistica”; una preparazione tecnica “paragonabile, pur essendo il campo più ristretto, a quella degli ingegneri civili”; una formazione allo studio autonomo prodotta da una cultura generale “che solo può essere data da una scuola superiore”; “una conoscenza ben basata della storia dell’Architettura e di quella dell’Arte” . Idea ripresa da Giovannoni in diverse occasioni con la proposta della figura dell'”architetto integrale”, giudicando che, tra quanti propongono che “l’architettura non è che uno dei rami della scienza del costruire” e quanti sostengono che “l’architettura è sempre e soprattutto un’Arte con l’A maiuscola e non può essere compressa da troppe altre nozioni” la figura dell’architetto deve essere quella del tecnico artista che ha acquisito qualità specifiche non attraverso “nozioni indipendenti, messe insieme alla meglio, ma come manifestazioni di un unico pensiero, di un’unica energia” .
In realtà le origini stesse, anche quelle remote, della Regia Scuola di Architettura di Roma, indicavano la strada della sintesi organica tra discipline a partire dalla proposta avanzata dalla Commissione dell’Associazione Artistica tra i cultori di Architettura, cui partecipano, tra gli altri, Giovannoni, Magni, Milani, la quale prevedeva un insegnamento nel quale dovevano convergere unitariamente quattro gruppi di discipline: il primo a carattere progettuale basato sulla composizione architettonica, il secondo, basato su materie direttamente mutuate dalle accademie, incentrato sul disegno e la decorazione, il terzo a carattere scientifico mutuato dagli insegnamenti dei politecnici, il quarto ad indirizzo storico comprendente anche il restauro .
Origine e conseguenza del nuovo metodo didattico è la nozione stessa di organismo intorno al quale ruotano i corsi di Composizione. Nel, 1931, nel suo Corso di Architettura, Giovannoni scriveva che gli elementi di architettura si debbono comporre in “organismi che insieme possono dirsi costruttivi in quanto debbono avere una pratica realizzazione e una stabile consistenza, distributivi in quanto si compongono di numerosi spazi elementari tra loro connessi in ragione di una funzione ben determinata, estetici per il carattere di bellezza appropriata al tema ed all’ambiente che debbono assumere sia all’esterno che all’interno”.
Nozione di organismo posta alla base anche degli insegnamenti tecnici, come peraltro in alcune discipline della scuola di ingegneria. La figura di Giovan Battista Milani svolgeva, in questo senso, un ruolo rilevante nello studio della stabilità degli edifici. In realtà Milani, affrontando nel suo fondamentale L’ossatura muraria (Torino, 1920) il solo problema tecnico della progettazione, non solo avvertiva di come questa dovesse essere riferita ad una più generale regola di unitario rapporto di necessità tra le parti dell’edificio, ma riportava letture di organismi architettonici sia antichi che moderni, i quali costituivano i testi sui quali dovevano essere riconosciuti gli etimi e le regole della lingua contemporanea.
Nel dopoguerra Vincenzo Fasolo continuava l’insegnamento di Storia dell’architettura basato sulla nozione di organismo e finalizzato alla progettazione, senza, tuttavia, un sostanziale aggiornamento di metodo e, anzi, riconoscendo i debiti remoti nei confronti delle opere dei trattatisti del positivismo francese del XIX secolo ed in particolare dello Choisy e quelli, più prossimi, nei confronti di Gustavo Giovannoni e Giovan Battista Milani, del quale rileva la chiarezza nell’identificazione del rapporto tra struttura e forma. Ma Fasolo pone, anche, un nuovo accento sull’unità della lettura degli edifici, nella quale la concreta concezione strutturale non è semplicemente il modo di realizzare l’invenzione architettonica ma costituisce parte integrante dell'”espressione” come della soluzione del “problema utilitario”. Lettura che non coincide con l’analisi della sola parte visibile dell’edificio ma che, secondo un’intuizione ripresa dalla scuola muratoriana, riguarda anche la parte non visibile: al punto che, poiché i principi antichi sono ancora validi per le nuove espressioni artistiche, ammonisce Fasolo, è bene far continuare perfino la decorazione nelle parti di edificio che restano nascoste, in modo da avere “la sensazione della loro esistenza anche dove non giunge il nostro sguardo” .
Nella sua Guida metodica per lo studio della Storia dell’Architettura, rilevando le specificità del suo metodo d’insegnamento rispetto ad altri, egli chiarisce che la trattazione affronta gli argomenti “per le finalità che sono proprie al nostro insegnamento, in modo più esauriente per la parte ossaturale. Dobbiamo infatti renderci conto di come questi edifici sono stati costruiti, nei vari mezzi della costruzione, come sono state, cioè, realizzate le relative conquiste spaziali, come sono stati realizzati i rapporti di stabilità fra le parti degli edifici. In altri termini si tratta di analizzare “gli organismi” degli edifici.”
In un clima di profonda crisi delle discipline di progetto e del ruolo dell’architetto, le opere di architettura sono ancora, per Fasolo, manifestazioni del grado di civiltà raggiunta da un intorno civile in una determinata fase storica. La lettura della storia che gli scritti di Fasolo restituiscono è, in realtà, fondamentalmente progettuale, così come sarà progetto la lettura che della realtà costruita fornirà Gianfranco Caniggia: lettura come sintesi dialettica tra intenzioni e capacità del soggetto, e attitudini dell’oggetto . La differenza tra i termini “restituzione” come rilettura attiva della lezione impartita dal monumento, che Caniggia scopriva nei corsi di Storia dell’architettura dei primi anni ’50 , e “riprogettazione” come ricostruzione del processo formativo degli edifici e dei tessuti edilizi, è dovuta fondamentalmente al nuovo accento posto sull’aspetto critico della lettura della realtà costruita.
Alcune delle considerazioni proposte negli anni ’50 da Fasolo relative alla collaborazione, insieme, statica e spaziale delle componenti che collaborano alla formazione degli organismi architettonici, peraltro in parte anticipate dalle precedenti sistemazioni della materia operate da Milani, sembrano costituire le remote premesse alle riflessioni operate dalle scuole muratoriana e caniggiana: si veda ad esempio la sistemazione della materia proposta da G. Cataldi alla fine degli anni ’70 .
Fasolo distingue, dandone un’interpretazione evoluzionistica, due grandi categorie di sistemi statico-costruttivi cui corrispondono altrettanti sistemi spaziali: sistemi lavoranti per gravità, non spingenti, su sostegno continuo o discontinuo (i sistemi architravati, pertinenti soprattutto alle antiche civiltà della Grecia, Egitto, Persia ) dei quali viene implicitamente individuato il carattere di ripetibilità e serialità; sistemi lavoranti per azioni verticali e orizzontali, quindi spingenti, su sostegno continuo o discontinuo (le strutture voltate pertinenti soprattutto alle antiche civiltà della Mesopotamia, dell’Etruria, di Roma), costituiti da elementi differenziati in funzione del compito costruttivo assegnato, dei quali viene individuato il carattere di maggiore organicità, preludendo alla definizione di organicità fornita da Caniggia come “carattere di un’aggregazione fatta di elementi individuali per posizione e forma peculiari, quindi non ripetibili né intercambiabili, come pure carattere di ciascun elemento componente di essere collocabile in una sola posizione, in un solo ruolo in seno all’aggregazione, e di avere una sua forma ed una sua propria funzione, opponibile e complementare rispetto ai ruoli, posizioni, forme e funzioni degli altri elementi componenti. ”
E il sistema statico-costruttivo interviene, unitariamente alle altre componenti, anche nell’ordinare i diversi tipi di impianti spaziali: si veda ad esempio la distinzione operata da Fasolo tra organismi centrali a copertura pesante o elastica e organismi centrali coperti a cupola, dove la componente statico-costruttiva, prima ancora di costituire lo strumento per erigere l’edificio, viene unitariamente spiegata come componente di una lingua, come parte integrante del tipo individuato nel progetto, insieme all’impianto distributivo e spaziale, al cui carattere concorrono la natura dei materiali e la loro lavorazione.
Caniggia riprende peraltro, apertamente, la nota esposizione delle “nove righe” dell’ordine dorico proposte da Fasolo da cui deriva un’interpretazione strutturale del codice classico, le nove righe (e le otto zone che sottendono) indicando l’origine della lingua colta trasmessa ai monumenti delle epoche successive dal parlato della costruzione spontanea.
Se è vero che la dimostrazione caniggiana del legame tra gli etimi profondi della lingua e le ragioni costruttive che hanno contribuito alla formazione di codici deve riconoscere probabilmente nell’eredità trasmessa da Fasolo, anche se spesso sotto la forma implicita dell’intuizione, più di un antecedente, va rilevato, anche per non avallare inesistenti derivazioni meccaniche, come non compaia nelle trattazioni di Fasolo e, più in generale, nelle letture storiche della Scuola romana, prima delle riflessioni caniggiane, la fondamentale analisi del rapporto organico (logico e processuale) tra tessuto ed edificio. La formazione del palazzo che Fasolo legge nelle successive trasformazioni, a partire dalla casa nobiliare, è ancora legata, ad esempio, all’interpretazione tradizionale della storiografia italiana della quale egli stesso aveva contribuito a fornire un’articolata versione nel secondo volume de Le forme architettoniche, redatto insieme a Giovan Battista Milani . E se nella didattica caniggiana ricomparirà come basilare la lettura delle pareti sul cortile interno, già proposte da Fasolo come vera facciata principale dell’edificio, le individuazioni di Caniggia hanno, nondimeno, un significato radicalmente diverso e innovativo: nascono dal presupposto che il palazzo debba essere interpretato quale specializzazione del tessuto (“dal tessuto e nel tessuto”), come aggregato “ribaltato” nei suoi percorsi all’interno dell’edificio riproponendo tutti i caratteri delle gerarchizzazioni urbane, finendo così per spiegare la sostanziale continuità delle diverse scale del costruito e dimostrare, anche, dati della realtà edilizia che nelle esposizioni di Fasolo comparivano come semplici constatazioni.
3. LA RIPROGETTAZIONE
Pur privo della sistematicità che nel dopoguerra caratterizzerà l’insegnamento muratoriano e caniggiano, il metodo di comprendere la realtà edilizia attraverso la lettura ricostruttiva, attraverso l’analisi dei rapporti necessari alla formazione delle strutture collaboranti alla formazione dell’organismo, informa l’intera didattica della Scuola superiore di Architettura di Roma fin dalla fondazione e, segnatamente, l’insegnamento delle discipline che più direttamente ruotano intorno al corso di Storia dell’Architettura.
Nel dibattito che aveva seguito l’applicazione del decreto del 31 ottobre 1919 istituente la Regia Scuola superiore di Architettura, Vincenzo Fasolo si era spinto addirittura a proporre, riconsiderando i primi mesi di esperienza della nuova Scuola, che l’intera fase formativa dello studente fosse esclusivamente basata sulla lettura della realtà edilizia, soprattutto (ma non solo) nella sua parte specialistica e monumentale: che i primi tre anni di insegnamento, in sostanza, fossero interamente dedicati allo studio della formazione e trasformazione degli organismi architettonici come luogo della sintesi di tutti gli insegnamenti della Scuola. I quali sarebbero divenuti vere e proprie strutture collaboranti all’organismo didattico generale, unificato dalla storia: allo studio della forma degli organismi dovevano infatti concorrere: le materie tecnico-scientifiche, alle quali veniva delegata l’analisi degli schemi statici dei diversi sistemi costruttivi; le materie di “cultura generale”, che avrebbero dovuto spiegare le cause remote delle trasformazioni collocandole in un quadro più generale di quello esclusivamente architettonico; quelle artistiche, che avrebbero dovuto far conoscere allo studente il senso degli apparati decorativi; quelle, infine, più propriamente compositive, che avrebbero dovuto essere impartite attraverso disegni di copia ed esercitazioni di “applicazione a temi concreti” che non dovevano costituire ripetizione di repertori, ma traduzione secondo un’ “ispirazione personale”. Premesse, tutte, secondo la proposta di Fasolo, alla progettazione moderna, argomento di studio degli ultimi due anni di corso, la quale doveva dunque risultare quale esito di un processo formativo del quale le discipline storiche erano chiamate a dimostrare la necessità. Non è difficile scorgere i questa proposta che, estremizzando polemicamente opinioni pure condivise, incontrerà sostanziale seguito, le radici della diade lettura-progetto che informerà i successivi sviluppi di una parte della didattica progettuale romana.
Non solo. E’ anche esplicita, nelle considerazioni che Fasolo porta a sostegno della sua proposta, la centralità della nozione di tipo: in realtà lo studio degli organismi del passato non serve tanto a conoscere nel modo tradizionale la storia dell’architettura quanto a prendere cognizione di come alcune forme degli edifici risultino storicamente “necessarie”, siano limitate nel numero, e possano essere aggiornate per far fronte alle necessità della condizione moderna: “nell’architettura come nella vita – egli non a caso sostiene – l’invenzione ha un posto limitatissimo” .Nonostante l’estremismo aggressivo col quale Fasolo avanza la sua proposta, egli incontra solo la parziale opposizione dei colleghi e Arnaldo Foschini, titolare del corso di Composizione, solleva, in fondo, riserve di carattere pratico piuttosto che obiezioni di principio.
La peculiarità dell’insegnamento della Storia dell’Architettura impartito da Fasolo consisterà, in realtà, proprio nel tentativo di trasmettere allo studente l’osservazione degli organismi architettonici come risultato e unificazione di strutture collaboranti. Le sue lezioni si svolgevano ricostruendo graficamente e dettagliatamente gli elementi dell’edificio, legandoli poi secondo rapporti di necessità costruttiva e spaziale fino a rappresentare l’organismo intero, quasi che compito dell’insegnante fosse quello di progettare alla presenza degli studenti, aiutato in questo da una leggendaria capacità grafica, un nuovo organismo a partire dagli strumenti propri di una determinata fase civile.
Anche la ricostruzione dei caratteri dell’opera architettonica attraverso il rilievo diveniva, in questo quadro, lettura, ovvero ripercorrere il processo formativo del monumento con gli strumenti delle misurazioni e dei rapporti dimensionali, cui lo studio del tipo edilizio dava senso e contenuto e non a caso Giovannoni conclude il suo discorso inaugurale della nuova Scuola di Architettura con un’ elogio della funzione del rilievo quale strumento didattico finalizzato alla progettazione, per la quale, appunto “il principale sussidio sperimentale sarà quello del pratico rilievo dei monumenti locali, nobili od umili, per acquistare la precisa evidente comprensione del loro tipo, e del loro significato con l’anatomizzarli, rifacendo, per così dire, in senso inverso il cammino che percorsero l’architetto e gli artefici che ne composero l’organismo e ne modellarono gli elementi: a cominciare dalle piante e dalle disposizioni costruttive (che solo chi non comprende la concezione architettonica può dire superflue), per giungere ai progetti ed ai particolari decorativi del rivestimento.”
Ma la pratica della riprogettazione ha anche un’altra origine, remota e non necessariamente coincidente con quella degli studi storici: deriva dalla quotidiana consuetudine, non solo professionale e didattica, con i monumenti romani e dal particolare indirizzo che la tradizione di studi e interventi sull’antico aveva dato alla disciplina di restauro, dove la “restituzione” (si pensi ai tanti antecedenti dei quali la figura di Piranesi esemplifica, amplificandoli, qualità e problemi), costituiva il principale strumento didattico. Quando la prassi del progetto moderno vedeva la progressiva divaricazione tra le componenti tecnico-analitiche e artistico-intuitive, l’unità delle conoscenze necessarie alla formazione dell’architetto, lo studio dei monumenti diviene disciplina che, al di la delle finalità professionali, svolge il compito fondamentale di educare non solo alla visione unitaria del disegno delle diverse componenti dell’edificio, ma alla sintesi degli stessi processi formativi che presiedono alla composizione architettonica, individuati nella sostanziale continuità tra lettura e progetto: la lettura operata dall’architetto non è mai constatazione inerte, presa d’atto dei documenti della realtà costruita, ma è, ancora prima che volano della tradizione, già operazione progettuale che coinvolge la coscienza critica del soggetto, la sua capacità di scegliere e interpretare, secondo un metodo che percorrerà per intero la scuola di architettura romana fin quasi ai nostri giorni. Il monumento deve dunque essere interrogato nel suo divenire storico e compreso attraverso le fasi del suo formarsi concreto per mezzo del “saggio di ricostruzione”. Più in generale il restauro viene inteso nella sua vasta ed originale accezione di atto critico, fondamentalmente progettuale, che restituisce l’opera compiuta, non l’insieme dei frammenti trasmessi dalla storia: studia in che modo l’elemento sia testimone di una struttura di relazioni che lo legava, in origine, ad altri elementi cui era unito da una regola necessaria. E questa struttura, come, ad un grado superiore, i sistemi e lo stesso organismo ereditato, non può che essere riconoscibile attraverso la comparazione con altre strutture e sistemi simili.
Questa moderna concezione del restauro dei monumenti propizia, anche, il formarsi di una nuova articolazione della nozione di “tipo” in quanto insieme di leggi e regole, storicamente individuate, che determinano una relazione (tipica, appunto) tra elementi, strutture, sistemi che concorrono alla formazione dell’organismo architettonico.
La riprogettazione proposta nei corsi di Caniggia (a Genova, a Firenze, a Roma) è, sotto molti aspetti, erede, aggiornamento, estensione di grado di tutto questo: storia come ricostruzione di processi ancora in atto tanto alla scala dell’edificio quanto di quella dell’aggregato edilizio, restauro come riscoperta delle leggi costitutive della realtà costruita non solo (e non tanto) del monumento, ma soprattutto degli aggregati di edilizia di base, oltre che risarcimento dei danni provocati da una cultura oppositiva nei confronti dei caratteri ereditati della città e del territorio. Il restauro non è dunque solo conservazione del valore artistico e documentario della singola opera edilizia o dell’organismo aggregativo: è ripristino del loro valore di organismo, che presuppone un diverso modo di riguardare il rapporto tra “autentico”, “falso” e “integrazione”, fornendo legittimità alla ricostruzione di un testo, anche se non autentico, allo stesso modo di come si può leggere la riproduzione di un manoscritto, la quale non possiede certo il valore di documento dell’originale, ma ne mantiene, per intero, il valore letterario.
Non è inutile, in proposito, ricordare come Giovannoni avesse proposto, dove il monumento non fosse semplice rudere ma “organismo vivo e completo”, un’operazione di restauro “che ne restituisca l’armonia”, operazione “non solo opportuna, ma doverosa.”
La città storica diviene, quindi, il testo che custodisce l’origine della lingua, nel quale occorre riconoscere le leggi del parlato quotidiano: è soprattutto qui che si può rintracciare l'”architettura nascosta”, qui si possono cogliere quei sintomi del divenire processuale che potrebbero permettere, ancora oggi, una progettazione non oppositiva alla cultura edilizia ereditata .
Filtrate attraverso le fondamentali sperimentazioni dei corsi tenuti a Roma da Muratori fin dall’anno accademico 1961-62 sul tema della riprogettazione di tessuti (storici come Tor di Nona, ma anche contemporanei come Centocelle), le esperienze che Caniggia propone agli studenti tendono ad avvicinarsi “asintoticamente”, per approssimazioni successive, a quel processo reale del costruito che il processo critico conquista gradualmente attraverso la lettura.
Lettura che da origine, essa stessa, ad un metodo di progetto che, per essere direttamente derivato dalla realtà costruita, evita le secche ed i rischi dell’ideologia che hanno in larga parte contribuito al disastro delle teorie dell’architettura moderna.
Problema che Giovannoni si era in qualche modo già posto, seppure in termini schematici, riconoscendo come la teoria finisca per avere ragioni ed esiti autonomi rispetto al progetto: “La teoria va per conto proprio, traccia le sue forme rigide, svolge la propria filosofia unilaterale tutta serrata nella sua armatura; la realtà segue una strada spesso quasi completamente indipendente da quella; ma senza che tale così netta differenza di pensiero e di procedimento sia accompagnata da uno screzio formale. Sembra anzi che un tacito accordo sia stabilito per consentire libertà d’azione agli artisti, con un elegante infingimento che fa accettare a questi umilmente gli alti principi che la teoria vuol porre a loro guida. L’arte, nel suo faticoso lavoro evolutivo ha bisogno di uno strato di foglie morte per nascondere e proteggere la germinazione nuova.” Constatazione che investe il problema della lettura delle opere del passato, rispetto alle quali si continuano ad usare (giudizio posto alla base del rinnovamento critico muratoriano e caniggiano) gli strumenti della storia delle teorie artistiche, senza che vengano tenuti nel dovuto conto i loro caratteri di organismo (le piante, le ragioni costruttive).
In realtà Giovannoni, a differenza di Caniggia che si muoveva sui presupposti di una sistematizzazione della materia già operata da Muratori, arriva alla nozione di organismo aggregativo per approssimazioni successive abbandonando progressivamente teorie generalizzanti. Se l’ iniziale teoria giovannoniana del diradamento proponeva un’idea astratta di tessuto, essa nel tempo, tuttavia, subisce un’ evoluzione che tiene conto dei caratteri dell’ambiente circostante il monumento, del suo valore storico e artistico: le nuove gerarchizzazioni di spazi e percorsi che l’operazione di “sistemazione” comporta, se correttamente progettate, possono risultare in un aggiornamento dell’aggregato urbano in funzione di nuove polarizzazioni. In altre parole, sebbene lontana dalla prassi caniggiana, rispetto alle contemporanee posizioni, anche del moderno nordeuropeo, che isola l’edificio storico, anche abitativo, nel proprio lotto di pertinenza, Giovannoni si avvicina progressivamente ad un’idea di aggregato edilizio come individuazione di una più generale legge tipica, cioè di un tessuto. Nozione della quale Giovannoni, affrontando il tema nuovissimo della “città cinematica”, intuisce i potenziali sviluppi alla scala urbana, in alternativa alla diffusa convinzione degli urbanisti moderni di poter dividere la città in parti monofunzionali e specializzate, di separare il principio dello zoning dall’idea di forma urbana legata al progetto edilizio: “Tracciare tronchi di strada senza sapere dove possano proseguire od istituire linee tranviarie o ferrovie metropolitane interne o di cintura – scriveva – senza tener conto della loro funzione edilizia rappresentano espressioni di un empirismo che si sostituisce ad una concezione razionale” .
Ma accanto alle affinità e derivazioni, va riconosciuto come, anche alla luce dei successivi studi su fonti e antecedenti, la parte della ricerca caniggiana che riguarda la formazione dei tessuti e le sue trasformazioni e specializzazioni, risulti di sorprendente originalità, avendo poco riscontro nelle scuole di architettura italiane. Le differenze di metodo con le parallele ricerche tipologiche italiane è stata ampiamente indagata. Alcune analogie sono state recentemente riscontrate, invece, con alcuni studi condotti da geografi che, negli stessi anni delle prime ricerche condotte da Caniggia, avvertono l’urgenza di un esteso rinnovamento degli strumenti di indagine sul territorio e cominciano ad indagare problemi di morfologia urbana. In Inghilterra il geografo M.R.G.Conzen, docente di Human Geogaphy presso la Newcastle upon Tyne University di origine tedesca, sperimenta sulla cittadina di Alnwick un metodo di analisi della struttura urbana basato sul processo di partizione del suolo dei lotti (plots) e la loro aggregazione in isolati (blocks) relazionati da un sistema di percorsi (streets system). Conzen, che pure Caniggia non ha mai conosciuto, propone un metodo di lettura finalizzato alla restituzione di un processo formativo basato su alcune ipotesi generali del comportamento dei tessuti urbani di formazione medievale che presenta notevoli analogie con le riflessioni caniggiane sull’aggiornamento progressivo dei tipi edilizi e sulla contemporanea permanenza degli impianti e del tessuto . E tuttavia la ricerca di Caniggia si differenzia anche da questi studi per la sintesi operata tra le diverse scale, delle quali viene riconosciuta la sostanziale continuità, a partire dalla nozione di territorio, origine anche delle prime gerarchizzazioni dei percorsi urbani, fino a quella di organismo edilizio, origine della distinzione tra edilizia di base e specialistica, ma anche della loro unità, attraverso la “cellularità” dei tessuti e la continuità tipologica.
4. LA SINTESI ESTETICA E LA NUOVA NOZIONE DI STILE
Nel quadro che caratterizza l’indirizzo della Scuola di Architettura di Roma tra le due guerre il termine “espressione” sta ad indicare lo sforzo di sintesi dell’architetto verso l’unità della forma, “risultato finale della concezione architettonica” in contrasto con le accezioni individualistiche dei progettisti contemporanei, ma anche in opposizione ai metodi di indagine correntemente impiegati nella storiografia d’architettura dell’epoca che, sotto l’influenza della critica estetizzante di Adolfo Venturi, tendevano a privilegiare l’individualità degli autori e l’eccezionalità delle opere.
Il problema didattico della restituzione, nonostante superficiali e comunque lontane affinità con la scuola ottocentesca francese, aveva finito con l’investire la stessa definizione di “stile” intesa tanto nel suo valore di strumento di lettura della realtà costruita quanto di strumento di progetto. Il problema della restituzione viene posto in maniera innovativa non come questione di interpretazione di uno stile inteso quale scelta di espressione individuale, dei caratteri visibili propri dell’artista, ma di comprensione dei caratteri storicamente “necessari” dell’organismo tanto che, paradossalmente, la “vera forma” del monumento, potrebbe non coincidere con la sua forma originale.
Proprio la nuova importanza attribuita ai caratteri strutturali che sinteticamente individuano l’impianto degli organismi edilizi indica la distanza, cui si è fatto cenno, dai metodi e definizioni impiegate dagli storici dell’arte: contro un’accezione del termine “stile” spesso, fino ad allora, identificata con quella di linguaggio impiegato nelle opere (in architettura come in pittura o scultura) e rintracciata nell’ornamento, nel particolare, nel dettaglio, la sua definizione finisce implicitamente per acquisire, anche sotto la spinta dell’insegnamento di Caratteri stilistici dei monumenti di De Angelis D’Ossat, nuove articolazioni e significati, costituendo la premessa alla sistemazione caniggiana.
“Stile non vuol dire una cristallizzazione architettonica – scriveva Giovannoni già nel ’20 – ma una serie di fasi di un flusso continuo, una serie di gruppi di forme, la cui evoluzione procede in ordine di tempo e di luogo spesso irregolarmente, con ritardi, con adattamenti, con evoluzioni; stile non è pianta sporadica che ‘germoglia come gran di spelta’; ma occorrono alla sua germinazione quelle speciali condizioni di terreno date dalle cause di vario genere, permanenti o mutevoli, materiali e storiche, etnografiche e sociali; e la cognizione vera di queste cause è essenziale a dar vita alla cognizione delle caratteristiche di arte e di costruzione ed a farcene intendere lo spirito ed il significato.”
Questa diversa concezione dello stile legata, insieme, ad una ancora latente nozione di processo e all’idea sintetica di struttura che lega parti collaboranti tra loro, espressa e resa leggibile da una lingua comune ad un intorno civile e pertinente ad una determinata fase storica, induce, peraltro, a disegnare gli organismi antichi, la loro restituzione e interpretazione in una forma inedita: essenziale, nuda, spesso priva di dettagli che lega, singolarmente, il disegno e l’interpretazione delle opere antiche alle architetture del moderno romano alla fine degli anni ’20 e dei primi anni del decennio successivo, dove la modernità compare, appunto, come semplificazione, aggiornamento e riduzione all’essenziale degli organismi tramandati. Questo dato che, unendo in un solo gesto grafico lettura e progetto, sembra illustrare come la divisione dell’architettura in discipline sia ritenuto un artificio didattico, risulta evidente dai disegni che gli studenti eseguivano nei corsi di Storia e stili dell’architettura di Fasolo negli anni ’30: scarni schizzi d’insieme, disegni di masse, ossature murarie semplificate allo scopo di riconoscerne gli interni rapporti organici, dove gli “schemi” di basiliche e terme antiche si alternano alle “visioni” di architetture greche e romane.
La nuova accezione del significato del termine “stile” viene raccolta da Saverio Muratori già nel dopoguerra. A differenza della definizione altrove ampiamente diffusa, Muratori inizia a riproporre nel ’44 un’accezione, distillata dalle esperienze anteguerra, del termine nel senso di regola unificante che presiede l’atto del fare, intuendone già il legame, che verrà sviluppato negli anni successivi, con la nozione di organismo e organicità: non tendono allo stile le composizioni (ed il riferimento all’architettura contemporanea è evidente) dove gli elementi si aggregano senza collaborazione unificante, mentre sono “tipicamente stilistiche quelle architetture che esprimono la loro struttura esplicitamente; esprimono cioè l’energia costruttiva e influiscono su di noi introducendoci ad una organicità di azione, a un coordinamento dello sforzo, a un atteggiamento dell’essere che è alla base dello stile” .
Questa nuova definizione sembra essere, ancora oggi (specialmente oggi) il portato più evidente di un’eredità profonda ed antica continuamente aggiornata, arrivata fino a noi attraverso la didattica romana della prima metà del secolo scorso e innovata da Muratori e dalla sua scuola: contrapposto allo stile inteso come “maniera, forma peculiare ed egocentrica di una determinata personalità o scuola o nazione o tempo e, peggio ancora accademia o predisposto formulario stilistico…” lo stile, dunque, diviene “realtà assoluta”, riconoscibile proprio nella collaborazione, articolazione e sintesi tra parti individuali, premessa a quel principio di unità-distinzione che verrà sviluppato in Architettura e civiltà in crisi.
Queste brevi note sui rapporti con la tradizione romana moderna tra le due guerre forse contribuiranno a spiegare come per Caniggia, che di quell’ universo di idee e riflessioni è l’interprete più innovativo e, al contempo, fedele, le forme molteplici della realtà costruita portate a riva dalla storia non possano essere semplicemente oggetto di classificazioni, tassonomie neutrali ed oggettive, come ha preteso il filone di studi tipologici generato dalle analisi di Giulio Carlo Argan.
Secondo principi, questi si, premoderni, Caniggia avverte di come occorra estrarre i significati nascosti dietro la superficie delle cose, rintracciarne il senso profondo: il mondo abitato dall’uomo, le case come i monumenti, diviene, per questa strada, non semplice costruzione, ma scrittura, e il compito dell’architetto-artefice quello di saper leggere non solo il messaggio che la scrittura trasmette, ma decifrare dietro l’apparenza di ciò che la realtà costruita sembra essere, la forma di come dovrebbe essere.
In questo, dunque, Caniggia sembra aver ereditato, e trasmesso a sua volta, l’insegnamento più profondo e autentico della Scuola romana: nella capacità di cogliere l’individuale e di riconoscerne, insieme, l’appartenenza al grande flusso vitale del mondo antropizzato, finendo per restituircelo come parte costituente e inscindibile di un patrimonio condiviso.
G. Strappa, L’eredità progettuale di Gianfranco Caniggia, in C.D’Amato, G.Strappa (a cura di), Gianfranco Caniggia. Dalla lettura di Como all’interpretazione tipologica della città, atti del convegno internazionale tenuto a Cernobbio il 5 luglio 2002, Bari 2003.
G.Caniggia, G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Lettura dell’edilizia di base, Venezia 1979, pag.47.
NOTE
[1] G. Strappa, L’eredità progettuale di Gianfranco Caniggia, in C.D’Amato, G.Strappa (a cura di), Gianfranco Caniggia. Dalla lettura di Como all’interpretazione tipologica della città, atti del convegno internazionale tenuto a Cernobbio il 5 luglio 2002, Bari 2003.
[1] G.Caniggia, G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1. Lettura dell’edilizia di base, Venezia 1979, pag.47.
[1] G.Giovannoni, Il momento attuale dell’architettura, in G.Giovannoni , Architetture di pensiero e pensieri sull’architettura, Roma 1945, pag.238.
[1] G.Caniggia, G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 2. Il progetto nell’edilizia di base, Venezia 1984.
[1] Cfr. S.Muratori, Da Schinkel ad Asplund. Lezioni di architettura moderna. 1959-1960 , pubblicato a cura di G.Cataldi e G.Marinucci, Firenze 1990.
[1] G.Giovannoni, Il momento attuale… cit., pag.274.
[1] Le tesi sostenute nelle lezioni degli anni ’50 sono sostanzialmente anticipate nelle opere Storia e critica dell’architettura contemporanea (1944) e Saggi di critica e di metodo nello studio dell’architettura (1946), in S.Muratori, Storia e critica dell’architettura contemporanea, Roma 1980, pubblicato a cura di G.Marinucci.
[1] Cfr. G.Caniggia, Permanenze e mutazioni nel tipo edilizio e nei tessuti di Roma (1880-1930) in G.Strappa (a cura di) Tradizione e innovazione nell’architettura di Roma capitale.1870-1930, Roma 1989.
[1] Cronologicamente lo studio generale del rapporto tra “parlato” come prodotto di coscienza spontanea e “lingua colta” come prodotto di coscienza critica inizia dagli studi caniggiani sul territorio, inteso come organismo comprendente tutti i gradi delle trasformaazione antropiche. All’interno degli insegnamenti di Saverio Muratori, Caniggia tiene, nell’anno accademico 1965-66, il corso di Rilievo – progetto delle strutture territoriali, che comprende lo studio della “deduzione e reinterpretazione dalle strutture e organismi tipici e dai processi individuali e ambientali delle costanti tipiche territoriali e loro applicazione”. (Cfr. Programma dei corsi e attività di Istituto, Istituto di Metodologia architettonica dell’Università di Roma, Facoltà di Architettura, Roma 1965-66.)
[1] G.Giovannoni, Prolusione inaugurale della nuova Scuola superiore di Architettura di Roma, letta il 18 dicembre 1920 e pubblicata in G.Giovannoni, Questioni di architettura, Roma 1929.
[1] G.Miarelli Mariani, L’insegnamento del restauro. Il quadro d’insieme, in V. Franchetti Pardo (a cura di), La Facoltà di Architettura dell’Università “La Sapienza” dalle origini al 2000. Discipline, docenti, studenti, Roma 2001.
[1] Sulla storia della Facoltà di Architettura di Roma si vedano, oltre al volume curato da V. Franchetti Pardo: La Regia Scuola di Architettura di Roma, Roma 1932; L.Vagnetti e G. Dell’Osteria (a cura di), La Facoltà di Architettura di Roma nel suo trentacinquesimo anno di vita, Roma 1955. Particolarmente significative per la comprensione del progetto didattico che informerà l’insegnamento romano sono sia la Prolusione inaugurale della nuova Scuola Superiore di Architettura, letta da Giovannoni il 18 dicembre 1920, sia la pubblicazione delle Discussioni Didattiche (in G.Giovannoni, Questioni di Architettura, Roma 1929), dove Giovannoni riporta gli interventi del dibattito sul problema della didattica progettuale che si svolse nel 1920 nelle aule di via Ripetta.
[1] Anche questa tradizione didattica ha incontrato, nelle scuole muratoriana e caniggiana, notevole seguito. Si veda in proposito il testo didattico impiegato nei primi anni dei corsi della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria: R.Bollati, S.Bollati, G.Leonetti, L’organismo architettonico. Metodo grafico di lettura, Firenze 1990.
[1] G.Giovannoni, Prolusione inaugurale…cit., pag.33.
[1] V. G. Giovannoni, Per le scuole d’Architettura, in «L’Edilizia Moderna» N°12, 1907.
[1] V. G. Giovannoni, Gli architetti e gli studi di architettura in Italia, in «Rivista d’Italia», XIX, 1916.
[1] L’ordinamento didattico in seguito attivato manterrà invece, inizialmente, le discipline previste in ambito nazionale dalla legge Nava del 1915.
[1] V.Fasolo, Guida metodica per lo studio della Storia dell’Architettura, Roma 1954, pag.151.
[1] V.Fasolo, Ibid., cap.IV.
[1] V.Fasolo, Ibid., cap.IV.
[1] G.Caniggia, G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia. 2. …cit, pag. 41
[1] Cfr.P.Marconi, Gianfranco Caniggia, architettura e didattica, in C. D’Amato Guerrieri e G.Strappa (a cura di), Gianfranco Caniggia… cit.
[1] Cfr. G.Cataldi, Sistemi statici in architettura, Padova 1979.
[1] G. Caniggia, G.L. Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia.1. …cit., pag. 71.
[1] G.Caniggia, G.L.Maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia.2… cit., pag.204
[1] V.Fasolo, Dal Quattrocento al Neoclassicismo, secondo volume dell’opera G.B.Milani, V.Fasolo, Le forme architettoniche, Milano 1934.
[1] Riportato in G.Giovannoni, Discussioni didattiche, in G.Giovannoni, Questioni di architettura, cit,, pag.57.
[1] G.Giovannoni, Prolusione inaugurale …. cit, pag.37.
[1] Cfr. G.Caniggia, Valori e modalità del restauro: valore storico e valore architettonico. Relatività e consumo dell’opposizione dei termini “vero” e “falso”, in G. Caniggia, Ragionamenti di tipologia. Operatività della tipologia processuale in architettura, pubblicato a cura di G.L.Maffei, Firenze1997.
[1] G.Giovannoni, I restauri dei monumenti e il recente congresso storico, Roma 1903.
[1] Cfr. G.Caniggia, Progetto e lettura: lettura come ri-costruzione e progetto come ri-progettazione, in G. Caniggia, ragionamenti di tipologia….cit.
[1] G.Giovannoni, Il momento attuale…cit., pag.258
[1] In G.Giovannoni, Vecchie città ed edilizia nuova, Torino 1931, pag.89.
[1] Caniggia conosceva e apprezzava, invece, gli studi del geografo italiano Renato Biasiutti che fondò, nel 1938, una collana di studi sulla casa rurale in Italia pubblicata dalla casa editrice Leo S. Olschki di Firenze.
[1] “In the process, however, the plan and fabric of the town, representing as they do the static investment of past labour and capital, offer great resistance to change. New functions in an old area do not necessarily give rise to new forms. Adaptation rather than replacement of existing fabric is more likely to occur over the greater part of built-up area established in a previous period.” (M.R.G.Conzen , Alnwick, Northumberland. A Study in Town Plan Analysis, London 1969, pag.6).
[1] V.Fasolo, Guida metodica …cit., pag.121.
[1] G.Giovannoni, Prolusione inaugurale … cit.
[1] S.Muratori, Storia e critica dell’architettura contemporanea. Disegno storico degli sviluppi architettonici attuali, Roma 1944, pubblicato a cura di G.Marinucci, Roma 1980.
[1] Ibid., pag.192
by Giuseppe Strappa
in U+D Urbanform+Design n. 9/10 – 2019
As part of the efforts we have been making for years now to renew the research methods used in the field of Urban Morphology, I believe that we shouldn’t limit ourselves to considering new topics; rather, we should take a fresh look at the matters with which the process-based school has always traditionally dealt (STRAPPA 2018). For example, we should review the ancient origins of many modern-day developments: the foundations, the material sediment and deposits of memory upon which we have built and that we use to build.
The morphology of the built environment is not a soulless discipline. We must have imagination, we must take the powerful and mysterious ancient deposit that underlie our architectural work and give them a synthetic form. This ancient layer is not dead: its living nature manifests itself through the changes that it causes, above the archaeological level, in the materials and shapes that are reused in construction or in our consciousness. It is because of this, of its generating power, that we cannot allow ourselves to merely examine it using the tools of mere perception that often lead us to create a myth around the Ancient based on its distant splendour.
Instead, we should reconstruct its developmental process in order to understand its living substance, using reason, because experience – our direct, concrete relationship with things – cannot but be partial and therefore misleading in this case. We need to make renewed efforts to distil the information at our disposal.
Despite the repeated affirmation of the principle of continuity between modern cities and their historic fabric and the definition of the Middle Ages as a time that was not at all a step backwards compared to ancient times, in actual fact the archaeological part of cities is still interpreted as a legacy of traces and foundations imparted to newer buildings in an episodic way, without the use of a general method that can condense multiple aspects into one single unified interpretation. ‘Unified interpretation’ does not mean recognising ancient remains in the appearance of modern cities, a field of study that, as we all know, has produced a quantity of researches, often with significant results. Instead, the term wishes to highlight how some tools used in morphological investigations of the built environment mostly limit themselves to considering the late medieval period, when going over the phases that lead back to its matrices, without systematically tracing them back to what generated the forms of its buildings and cities using the concepts of organism, process and type. Equally, the process through which ancient matter becomes material and turns into parts of new organisms, or the way in which spolia have been recognised as new elements to be reused, have not led to a truly systematic investigation in the field of urban morphology. This is true, at the same, when it comes to development processes considering the primary dwelling types, where, at least in Italy, we have gone no further than the housing type with external profferlo staircase. Where do these types come from? What did the ‘second nature’ of ancient ruins create? How was it used to expose the cryptae that could be inhabited, how did it generate the basic domus terrinea, and as a result the domus solarata, essential steps in growing complexity that led to new forms of dwellings (HUBERT 1990), not to mention the medieval palatium, domus maior and turris as the dawn of a new form of public building that developed in the late14th century (STRAPPA 2015)
Imperial age fabric in the Trastevere area (MURATORI 1963).
Overlapping of the medieval fabric (V-XII century) to the imperial age substratum in the Trastevere quarter after the phases of urban contraction (V-VII century), evident in the abandonment of the southern part of the pre-existing fabric, up to the late medieval reorganization processes and recasting of the previous structures during the growth phase of the XI-XIII centuries (MURATORI 1963)
Imperial fabric of insulae along the Via Recta, with indication (B) of the area of Palazzo Lancellotti, formed recasting row houses generated by the consumption of insulae (MURATORI 1963)
Formation of block B of the previous plan in the reconstruction of Gianfranco Caniggia. From above. Current state, where the substrate cell of the ancient fabric is recognizable. Block substratum formed by elementary cells arranged around the open court space. First consumption phase of the ancient substratum with the reuse and superelevation of the substrate cells (CANIGGIA 1963)
It is a process in which it is often impossible to detect the intangible aspects imparted by the substratum (forms and their types) and the physical and tangible aspects (matter and materials). Perhaps the perfect example of this are the objects produced during the long artistic life of the Cosmati family, who not only used marble and stone from ancient monuments from the 12th to the 14th centuries, but also ‘created’ forms and patterns from them for mosaics, ambones and floorings. The same consumption of the ancient city’s form also began with its self-destruction: ‘…in a certain sense we may say that the history of the destruction of Rome begins with the reign of Augustus, who undertook to transform the capital of the Empire from a city of bricks into a city of marble’ says Lanciani (LANCIANI 1901),quoting Suetonius (‘Marmoream se relinquere, quam latericiam accepisse’). Therefore the oldest substratum that has disappeared can only be understood through the form it created: it is a morphological problem and it can be tackled by turning to the notions of organism and process.
Gianfranco Caniggia raised the issue with his seminal study on the city of Como, which he used to build up a method of interpreting the change from a domus to a modern residential organism using type-based phases: ‘tabernisation’, infilling, development from single-family to multiple-family house (CANIGGIA 1963). In the same years that Saverio Muratori listed the criteria to be used when examining the cultural characters that make up the built environment (rational-cultural, economic-technical, ethical-political, aesthetic-historic), identifying four different ages of change, of which no less than two (Royal – Republican and Imperial) concern the development of the ancient city. Muratori was particularly referring to Rome(MURATORI 1963), though it is well known that he believed that the method he proposed was generally valid (and it is in keeping with that spirit that the comments we will make on Rome should be understood, in the wake of his guidelines). Studies concerning existing city layouts outside Europe, for that matter, have shown how an analysis of the historic layers proves to be an important resource even in areas that are culturally very different (WHITEHAND 2016).
I believe that we should keep these precedents in mind so as to rebuild a scientific understanding of the way in which the layered forms of history have been transmitted to modern cities. Or rather, of the way in which modern cities have interpreted ancient forms: not the city of Alberti, Palladio and the other treatisers who reverentially approached the legacy of the past to create a learned architectural language, rather, the city where a distant basis of matter allowed the concrete reinvention (the rediscovery) of everyday architectural ‘speech’.
I think we should start by attempting to talk less of ruins. The term is as romantic as it is overused, from the picturesque explorations of the Grand Tour to contemporary revisitations, to the point where it has exhausted the possibility of proposing definitions useful to morphological studies. I think the most appropriate term we should assume (STRAPPA 2015) is substratum.
5. The Pompeus Theater in the reconstruction of Rodolfo Lanciani, s.d. (Gatteschi coll.)
6. Fabric formed by the consumption of the Pompeus Theater (surveys by Centro Studi di Storia Urbanistica, 1962)
2. Definitions
Unlike a ruin (from the Latin ruere, to collapse), a substratum (from sub sternere, to spread beneath) is recognised as a beginning, the living basis from which new organisms can spring. It is the part underneath the current built environment that no longer has any purpose but can nevertheless contribute to the life of new fabric, creating up to date building types: the distant and fertile foundation that gives rise to a new organism. We cannot, anyway, reduce the complexity and richness of our ancient heritage to universal interpretational patterns that classify types and processes in a kind of taxonomy of the Ancient. That is true for any built environment. Instead, the identification of a few common criteria that allow us to interpret these phenomena through an architect’s eyes, tracing the many outcomes back to the general rationales that produce them, can prove useful to morphological studies.
From this point of view, we can define a ‘substratum’ as the combination of elements that once belonged to a building organism which, despite having lost both their the relationship of necessity that bound them together (their purpose and original organicity), and the continuity between the different phases of change and development, still nevertheless tranfer specific characters to the buildings springing from them . The set of these characters, transmitted in a typical and recurring form, can be defined as a ‘substratum type’.
When ancient organisms are practically reused with a new function (such as the churches of Santa Maria ad Martires, Santa Maria degli Angeli or the Pantheon),we cannot properly talk of a substratum type. Instead, the domus becomes a substratum type when it breaks up into ‘pseudo-row houses’, single-family single-facade houses aggregated around the space of the atrium that becomes a public area. Similarly, the orrea and portici structures become the substratum type of nodal public buildings when the central courtyard becomes the node, the main inner room (served, supported, central) of the new layout through a ‘knotting’ process.
The analogies with linguistics are evident, a discipline where ‘substratum’ is understood as the layer that precedes and influences the overlapping of a new language, as occurred, for example, with Etruscan and Latin or the Celtic and English. However, we should note how the term, when used in architecture, indicate the basis of an action. It implies the presence of critical consciousness, the ability to interpret and choose and, therefore, an identification of what has already been given, of what ‘lies beneath’: i.e. the sub-stantia, the substance, the essence of a thing.
This term therefore not only contains the notion of rootedness and transmission; it also refers to the means, the tool we can use to reach the essence of form, of its universal being. This universality, a quality that the actual building did not possess due to the very fact that it was constructed, constitutes a fertile abstraction: an identification as well as a design, the way in which we give a new unity to the multiple and scattered forms of the remains we have inherited. It was, furthermore, an idea rediscovered thanks to the medieval revival of the metaphysical Aristotelian concept of substratum. In other words, it is a design action, as demonstrated by the possible allotropic forms derived from the interpretation of a single substratum. Proof of this is the built environment, the way in which the material legacy of an ancient, multifarious and composite city was interpreted in a unified way by the new buildings erected in the late Middle Ages, in accordance with a particular design idea of the Ancient that surmised the existence of an original, primary substratum we can trace. It is a kind of matrix of the forms the past imparts to us, the πρῶτον of the Stoics you might say, or even the common original substratum of the universe, the primary layer that binds all things, a common idea in the early Middle Ages that Solomon Ibn Gabirol attempted to translate into a theory. It is then that we grasp the new, general meaning that this definition involves: every construction, at any scale, is an invenire, a finding and an invention; all fabric is a reconstruction, every building a rediscovery.
A new city’s formation, therefore, occurs with the recognition of older building organisms, what can be described as pre-formed matter that already possesses a form of its own, placed at the end of an entire life cycle and the beginning of another. I believe we can usefully distinguish two different processes in the tangibly continuous formative phases.
It is worth stressing, by the way, how it is not easy today to propose a working method that starts from the particular and works towards the general, towards the abstraction. It is no coincidence that this work, which lies at the heart of every architectural theory, has been generally abandoned by Italian faculties of Architecture.
7. Umbertino-age consumption of the Terme di Diocleziano exedra. The new urban pole orients the fabric based on the Via Nazionale restructuring route, which is superimposed on the ancient one oriented by the Vicus Portae Quirinalis
3. Principles
it is worth highlighting that we can detect two essential principles at work in both phases.
When it comes to ancient building types, moreover, their particular characters in themselves allow for a myriad of different outcomes from medieval renovations. Muratori wrote: ‘[Imperial] building types are easy to adapt to a number of functions thanks to the serial layout of porticoes and tabernae and the courtyard layouts arranged on the constant structural lines of later insulae’ (MURATORI1963). A perfect example is the evolution of the Basilica of San Clemente, which reached a stage in morphological maturity during the XII century, in which the geometric importance and proportions of the serial rooms of the buildings dating from the Flavian era were unified within the hierarchy of its aisles. The intermediate Paleochristian church, which was in direct contact with the ancient substratum and upon which today’s church was built, identifies a building type that was to be developed throughout the V century, updating the proportions of the aisles (narrower, longer, higher), whilst maintaining the essential characters of the original basilica (KRAUTHEIMER 1986), proof of the long morphological life of the remains buried under the new buildings. Another good example is the Church of Saints Cosma and Damiano, built using the remains of the southern part of the Basilica of Maxentius as early as the first half of the V century.
Sometimes the ancient matrices are influenced by the changed alignment of the new layout, as in Santa Maria in Cosmedin. Other times, it is the past of previously existing colonnades that almost directly transmits the old modularity to the new organisms above it, as noted in a large number of Roman churches, such as San Nicola in Carcere at the Forum Holitorium, built on top of the peripteral temple of Juno Sospita. We can also surmise that the modularity of the substratum was transmitted to new buildings even in less obvious cases, such as the III century colonnaded organism (perhaps a civic basilica) that imparted its proportions to the church of San Martino ai Monti, which was partly built reusing ancient materials, or as in the remains that were definitely still in existence in the V century on the Mons Superagius in the Esquilino area, left behind by a large courtyard building (perhaps the Macellum Liviae) when Sixtus III built a basilica that reused 42 old columns, imparted to subsequent renovations that later gave rise to Santa Maria Maggiore, completed by Ferdinando Fuga’s facade. It is a modularity that the substratum sometimes imparts in complex forms, such as in the Savelli buildings on the Marcellus Theatre or Palazzo Massimo on the Odeon, or the various buildings of the Insula Mattei that were built on the area of the Balbus Theatre, which were forced to deal with the difficult geometric influence of the radial substratum below them.
8. Basilica of San Clemente. I-III century AD substrate consisting of a special serial building, perhaps belonging to the ancient mint and then to a Christian community center (KRAUTHEIMER 1986), formed by serial rooms organized around an open courtyard.
9. San Clemente. Early Christian IV-XI century basilica, obtained by "knotting" (STRAPPA 2015) the serial structures by re-using the substrate rooms around the court space
The phases
The process that leads to the construction of new organisms built on a previously existing substratum, varying in the different historical phases, has very different features from that which originate from the transformation of nature: here, matter is, in some way, pre-formed, it already has a shape, placed as it is at the end of an entire life cycle and at the beginning of another. The recognition of this form, linked to the historical and civic environment that created it, is the origin of a new design and constitutes its critical substance. That is why the phases we can identify in this transformation are dialectic: they should be interpreted as far as the interaction between the intentions of the ‘subject’ and the potential of the ‘object’ : they are not strictly chronological.
We can suppose an initial phase of invention, of the invenio involving the random, unplanned relationship with the object being renovated or rediscovered. This occurs when the last phase of a substratum organism’s consumption has ended, sometimes in the distant past, becoming the matter whose characters and attitude to receiving a new form are recognised by the new architect/builder. This first, logical phase therefore concerns the transformation of ‘encountered’ matter. Even before this matter is actually used, it has, at least in part, to do with the builder’s awareness in recognising the substance of which the old spoil is made and therefore to being transformed from matter into material (STRAPPA 1995). Therefore the medieval builder who constructed on ancient ruins and from ancient ruins viewed it as materia signata: the substance of which the substratum city is built and that, despite having lost its significance, is transformed into meaningful heritage. This action is not only a cancellation, but a continuation too, an acknowledgement marked by an identification, followed or not by the passage from the simple use of “found” materials to their transformation. While the term ‘material’ still indicates matter’s suitability to be used in a new building, either in its original form or in a new form, this definition also fits the work of the calcarari (lime kilns workers) that recognised the suitability for construction in the second nature of imperial deposits, cancelling a significant part of our built heritage for centuries. In keeping with the masonry-plastic characters of Roman and Romanised cultural areas, the elements that were produced, apart from linear ones of Greek origin, typically featured two dimensions that prevailed over a third (flat or curved elements) and easily remained continuous, omogeneus and organic with the other elements of a structure. As well as, on the fabric scale, the serial persistence of the base fabric and the singularity of the special organisms continues in other forms. The acknowledgment of the characters and of the building susceptibility of what the ancients have physically left to the new city, therefore, takes place at all scales. It is a metabolization process through which the city consumes the Ancient, regenerating itself, proof of the resilience of the plastic city of which Rome was the greatest expression.
The second phase involves the selection/specialisation, the decision of what role the substrate material (no longer merely matter) will play in a new structure. The selection phase, mainly based on economic and technical considerations, therefore coincides with a acknowledgment of the element ‘encountered’ in the ancient fabric, as an ‘eloquent legacy’, used with a new meaning in a new context. It is a phase that already had significant precedents in Roman times. From a constructive point of view, the choice of elements that could be obtained at different levels mainly involved:
However, it also concerns the new typological effort spent in reusing ancient substrate layouts, with the widespread dequantification of special structures and their return to base types functions.Take, as example, the return to base fabric of the Pompeus Theatre (in this issue we are presenting the important study that one of our PhD students, Cristian Sammarco, is conducting on this subject, with the reconstruction of the base building organism originated by the ancient layout’s consumption, through the drawing of the cadastral maps mosaic).
The third, ethical phase, election/designation, concerns the action, the behaviour (ἦθος) contributed by a critical consciousness of the act of reassembilg with which the builder completely considers the problem of the construction element’s meaning within developing urban and architectural structures. As well as through re-employment, the recognition of the ancient structures of elements is evident through the recovery of typical building systems.
There is no doubt that the reassembly of fragments of spolia involves an element of organicity (features such as proportion and congruence) borrowed through the custom with pre-existences. This consideration is even more obvious at the scale of the aggregative organism, of fabric where the continued existence of ancient buildings and urban structures indicates organic and typical proportions (take insulae for example). As mentioned earlier, this way of transforming existing urban lanscape has significant precedents as far back as Ancient Roman times. The reconstruction of the Porticus Octaviae commissioned by Emperor Severus Alexander in 203 A.D. involved the reuse of elements from the earlier Augustan construction. When chosen and rearranged within a new structures, however, they established a new relationship of necessity between elements. This is an early, real ‘nomination’ and ‘designation’ operation, as was to occur extensively after the fall of the Roman Empire. This act of renaming things– which was widely practiced during the fifth century by Theoderic as a political act of reconciliation with the Roman civilitas and saw its first conclusion during the early XIII century– imbued each element with a role in new organisms that was equally structural, symbolic and political. Proof of this is, for example, Pope Honorius’s reconstruction of the Basilica of San Lorenzo Fuori le Mura, where architraves and columns taken from ancient buildings were rearranged in a new structure where, specifically and tellingly, the winged victories of two typical capitals dating from the Antonine era, used to celebrate the victory of Christian martyrs over their persecutors (DE LACHENAL 1995).
The fourth phase involves the symbolic and spatial reorganisation/repositioning of ancient objects, done with a total awareness of the phenomena of building and urban transformation. This corresponds to those great moments of aesthetic distillation, where the substratum also becomes a depository of memory generated by the familiarity with its reuse, clearly demonstrated not only by Baroque revisitations but also by the more pragmatic urban reconstructions of Rome during Umbertino time and even more recently. An obvious example is the construction of Via Nazionale, which took its cue from the city square designed around the great exedra of the Roman baths. But, in general, it is testified by the whole approach to the renovation of the historic city even in restructuring routes that, by their very nature traumatic, were traced with a sensitivity towards substratum constructions that, except for Viale Trastevere, is unequalled in Europe. Take, for example, the case of Corso Rinascimento and the entire renovation programme carried out on the Stadium of Domitian. These interventions, carried out in a climate of widespread fascist rhetoric, would today be considered unacceptable, but nevertheless often capable of reinterpreting types and layouts in a modern way and, at the same time, in keeping with (‘in concordanza di fase’ as Muratori would say) the weight of their history.
10. Ghetto fabric overlapping the remains of the Octavia Portico
In conclusion, I believe that we can surmise a morphological, process-based method of interpreting the substratum that gave rise to modern cities based on cyclical phases of change, analysed, using the tools that architects possess, as meaningful heritage. The effort made to synthetically grasp the processes by turning to morphological methods, which we are by no means suggesting should substitute the essential work of archaeologists and historians, could have a fundamental value for the architectural design by indicating the ways in which not only history has generated new forms, but also how the present, so to speak, flows in the past. This powerful legacy of guidelines – absolutely not oriented towards imitating the past–could support, if we are able to recognise them, the work of contemporary architects: a substratum of multiple, shared meanings, in contrast to the individualistic trend of architectural design. A legacy stratified over time, to be deciphered and interpreted with new eyes identifying within it a new and fertile organicity, as in every phase of the great civil crisis.
BIBLIOGRAPHY
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by Giuseppe Strappa, Matteo Ieva, Marina Dimatteo
in : G.Strappa, M.Ieva, M.A.Di Matteo, La città come organismo. Lettura di Trani alle diverse scale, Bari 2003.
The main task of this book is to demonstrate a method of reading built landscape based on the fundamental assumptions that the different reading scale of built landscape (building, aggregate, urban, territorial scale) are linked between themselves by the notions of organism and type and that the tools of typological-processual analysis are not subordinated but complementary to the traditional tools of reading city and territory such as the urban history or archaeology.
At this regard the case study of Trani (see tav 2 pag. 68) seems particularly suited for the task as few evidences of the urban form is known before the IX century and any formation process regarding the original settlement type and fabric has to be investigated mostly trough typological interpretations.
Even the research about Trani is still in progress, we believe useful to propose some working hypothesis (see tavv. 9a,9b,10 at pages 76,77) about the ancient origin of the medieval structure of the town inside the Longobard city walls of the XI century and of Federician ones of XIII century. A matrix possibly derived from the ancient Turenum reported on Tabula Peutingeriana.
The central area of the old town, in fact, can be regarded as planted on a matrix route (actual via Beltrani) polarised by the specialised area of the Cathedral and the Episcopal Palace, which organises, with remarkable regularity in dimensions and pertinent strips, an orthogonal grid of routes (see tav.5b at page 71).
A second route, now disappeared and parallel to via Beltrani, whose urban role we will see later, can be recognised as prosecution (now infilled) of the narrow path of actual via Leopardi (Carlone 1981).
The regularity of the urban structure around; a centralising axis and the remarkable differences in the urban aggregates in the south east from the ones in the north west areas, induce us to think, more than a spontaneous hierarchization of the different routes, to some form of original planned grid from which the medieval structure has taken place through a general up-dating of building types and an extensive substitution of special building, but also trough a substantial preservation of the ancient structure of routes, even if conditioned by progressive transformations in the settlements and territorial order, as the formation of the Jewish quarter of La Giudecca, evidently planted on the spontaneous routes linking the coastal viability.
It must be considered that the crisis followed to the fall of Roman Empire of Occident in V century, the gothic war in VI century, the Longobard conquest in the VII one, had as a consequence the decay of most of urban and territorial structure in Apulia and that the reorganisation started in VIII century trough the Longobard gastaldati and, in the following two centuries, Byzantine administration, using tools and scale comparatively modest, must have been founded on the extensive remains of the ancient urban heritage.
The dialectic between planning as result of “critical conscience”, and adaptation as product of “spontaneous conscience” , is so continuos in the relationship between ancient city and late-ancient or middle age transformations, that it is possible to recognise in the different passages a remarkable level of typicality.
Just this typicality allow us to read single phenomenon as part of a more general process of changing of characters in Italian cities.
The cartography employed in the research consists in:
– contemporary and 1873 cadastral maps at 1/1000 scale;
– survey of building structures carried out by Trani Administration in 1989 at 1/200 scale;
– survey of building structures carried out specifically for the research, partially still in progress;
– 1869 IGM (Istituto Geografico Militare) maps at scale 1/50.000 and contemporary (1938 and 1963) IGM maps at scale 1/25.000;
– historical maps.
A chronology derived from documents of historical events compared with transformations in urban form of Trani has been also employed.
The following synthetic description starts from the smaller scale of the building till the territorial scale
BUILDING ORGANISM SCALE
A – BASE BUILDING
The base building of Trani is composed by an aggregate of roughly squared cells of average dimensions ranging from 4 to 6 meters with modular (half o double size) variants. The construction is in local stone for vertical walls with masonry vaulted floor at ground and wooden-beam at successive floors.
The wide quantity of types in aggregation of cells can be reconducted to two main basic types of houses:
• two cells row houses, with numbers of synchronic variants by position and diachronic variants due to the infill of pertinent area, increasing in highness, specialisation of ground floors, sometimes as loggia mercantile (see fig.7 at page 114 and tav.70 ata page 135). This peculiarly medieval type of housing, largely spread in all northern¬central Italian peninsula, is not so common in Apulia, where it seems imported, at least in its “mature” form trough exchanges with northern areas consequent to Longobard and Federician domination (the exemplary case of the foundation town of Manfredonia can be considered)
• courtyard houses, in which cells are aggregated around a common distribution space originally open. This type, derived from the “consumption” of the roman domus at the end of a long typological process (see tavv. 1,2,3,4 at pages 98-100), is extensively employed in Apulia towns (Bitonto, Polignano, Conversano, Altamura etc.), although with a south east common orientation instead of the usual southward one. The same toponimy of the places (curte from Latin curtis , claustro from claustrum) indicates their ancient direct or indirect origin. From the cadastral maps of Trani is possible to read as those aggregations are often contained within modular enclosure, with the actual different ownership often roughly obtained trough partitions of an original modular one.
Both types can be found, largely transformed,. in the Trani urban fabric: diachronic variants and sometimes multi family fusion (originating thus new types) of old single family houses for the row houses; pseudo row house for the courtyard houses.
A first, important consideration for the reading of the city, can be made observing the diffusion of the different types:
– the first type is individuated at the margin of the central area, outside and inside the Longobard perimeter and in the Federician expansions, with the remarkable exception of an homogeneous aggregate in the S. Martino area (see tav.25 at page 89);
– the second type appears to be concentrated in a roughly squared area with sides of 150, 200 metres.
This consideration allows us to put forward a first hypothesis (which will be supported by other dates) on the structure of the ancient town, occupied by the “substratum” courtyard type and cleared “in negative” by the row houses perimeter. In the S. Martino area we must grant the presence (which also will be supported by other dates) of an extensive open area free from private building in which a tissue based on up-dated types had developed.
B – SPECIAL BUILDING
The first religious buildings, mostly convents and related constructions, are situated along the Longobard perimeter. As usual for building types as monasteries, which require large space to develop, those constructions occupies initially anti polar.positions in relation to urban route (but often nodal in relation to territorial routes) to become, with the expansion of urban organism, urban poles of successive expansions (see tav.79 at page 143).
In XII century appear to be edified:
• westward, the monasteries of S. Paolo and S. Giovanni and the church of S. Giovanni e Paolo
• southward, the church of S.Salvatore (on the route for Andria); the church of S.Andrea and Toma (close to Porta Nova doorway and the route node at the intersection between the carriage coastal road and the route connecting the productive hinterland), with the church of S. Caterina immediately inside the door and the small church of S. Agata in even more central position, but anyway external to the area of orthogonal routes;
• eastward, corresponding to Porta Antica doorway, the nuns convent of S. Trinita, the Ognissanti church and a number of small churches close to the port;
• northward the special complex of the Chiesa Maggiore, church S.Giovanni Evangelista and Palazzo dell’Arcivescovo;
• in even more anti polar position a number of special areas and buildings, most in Colonna peninsula (the churches of S. Antonio, S. Vito, S. Giovanni de Penna, the Jewish cemetery) and close to the route node corresponding to the cross of Flumicellus flood (S. Maria Cavense, SS.Sergio e Bacco, S.Giorgio, S. Maria de Dioniso, S. Trinità, S. Basilio)
• single and remarkable exception to the general anti polar position of special buildings is the monastery and church of S. Martino, situated in the.very centre of the area of regular grid routes. This is not only the oldest monastery in Trani, but its construction must date far before the year 1075 evidenced by documents, as the architectural characters and the building technique employed would rather indicate an origin in X or even IX century (Ronchi, 1988).
The area of the ancient settlement can be derived from the analysis of special building placement: it clashes with the area of regular routes around whose margins, typically, most of special buildings are displaced.
The exception of the site of S. Martino complex confirm the hypothesis of a large public area for the construction of special building available after the fall of central administrative control.
The type of palazzo building must be considered (see tavv. from page 142 to158), in general, apart from the other special buildings for their close relation to base building. In Trani, in particular, palace type has a late formation in XV-XVI century, with large construction obtained by fusion of a number of cells of base building on ‘the main matrix routes polarised by special areas of great civil and religious value: most in via Beltrani (via Duomo), connecting the nodal area of Porta Nova with the Cathedral and the fair area. Here are first settled the Rogadeo, Palagano, Bonismiro palaces and, later on, the most important palaces of Trani, giving origin to a real “special tissue”, in the same manner of other prosperous maritime cities as Genoa and Venice .
Houses of other important families as de Boctunis, de Cuneo, de Agnete and, again, Palagano also settled in via Ognissanti, connecting the route node in Flumicellus area , trough the Giudecca quarter, to the area of S. Marco church and Caccetta, Sifola, Filangeri palaces.
In the palazzo type individuated in Trani is quite constantly possible to recognise the re-aggregation of cells, originally belonging to single family houses, in a new unitary organism. The unified facades give clear evidence of the intention to form a “rhythmic wall” (Caniggia, 1979), but the irregularity in the distance between windows, often the lack of a true centralising axis and, instead, the recognisable presence of the original dividing lines, indicate the derivations.
The level of typicality of those palaces is very low in comparison with the examples of other areas as the Roman, Florentine or Venetian ones. Only few characters are in common: the aggregate of cells around a common distribution space in which the main stair is placed; the dimensions of the front walls, based on the modules (often double) of the courtyard house from which seams indirectly to be derived.
The origin of via Beltrani palaces, anyway, demonstrate as the area was previously occupied by base building, probably by domus type houses. With increasing social and economic divisions this type has generated both, as in Venice (Maretto, 1986), the palace type and the pseudo row houses, the first as increment, the second as decrement of an originally common pattern of enclosure.
AGGREGATIVE ORGANISM SCALE
To recognise the shape of a possible planned urban structure we need to use, further the analysis based on the route hierarchy and pertinent strip, the notion of tissue as type of aggregate subjected to typical processual transformations, in our case from ancient to middle age city. We need, in other words, to investigate in their typicality the phenomena of “medievalization” of ancient urban fabric. These phenomena are in general mostly related to the public spaces infilling process by private ownership (Caniggia, 1963 and 1976) owing to the decay of administrative control started in late ancient period.
They are distinguished by three constant aspects, present also in our case:
• the deformation of planned orthogonal alignments (see tav.4b at page 70);
• the infill of ancient public spaces, specially if partially opened, trough new special building or new spontaneous base building fabric recognisable for the lack of planning of the related routes (see tav.8 at page 75);
• the formation of non planned fabric along, the spontaneous curvilinear routes connecting the doorway of the wall (see tav.6 at page 74, tav. 22 at page 88 and tav. 30 at page 91).
It is particularly useful the analysis of alignments of masonry structure at ground floor distinguishing:
– orthogonal alignments which could be related to ancient planned structure;
– curvilinear alignments oriented from alignments of planned city which could be related to progressive advancing of buildings front walls as for infill of routes free spaces;
– diagonal alignments opposite to the general orthogonal grid which could indicate new medieval fabric in evidently free spaces.
All those alignments had been recognised in Trani and drowned on tables which demonstrate clearly:
• the presence of an orthogonal grid of wall alignments in the inner medieval town which, for exactitude and constancy inside the supposed ancient city, can’t be other than planned;
• the presence of orthogonal routes “medievalized” trough the advancing or deformation of wall front with particularly extensive and evident infill in the two actual roads of vico Santo Nome e via Beltrani, which can be related, for dimensions and role inside the urban fabric as the two main access routes to the ancient city: the first on the axis of via praetoria, and the second as the other main route on the counteraxis of via principalis as in typical roman planned city. Those road, from which planned routes are originated, must had a behaviour as matrix road in middle age transformations, originating different aggregates owing to the different orientation of the original courtyard houses:
per strigas on via S. Martino, via Leopardi, via Sinagoga
per scamna on via Carlo d’Angiò, via S. Giovanni, via Romito, not by case transversally connected by vico (or narrow road) S.Agata e vico S. Gaetano).
Another important, even if secondary axis, was on the alignment of actual via Leopardi. This route could have had a connecting role comparable to that of via quintana in roman pattern.
The “medievalization” process appear to be confirmed from the presence and continuity of many internal wall alignments, even in the extensive transformations occurred. The unusual proximity @ of those wall alignments to the outer walls, mainly in correspondence of block corners, can’t be in fact explained neither as constructive nor distributive anomalies.
• the presence of a large public area occupied by structures as peristilia or portici, in the site of the S. Martino complex proved, resuming what previously asserted, by:
1) the base building types employed in edification (row house in courtyard type contest);
2) the special building types employed in edification (the now disappeared monastery, individuating a typical anti polar type);
3) the diagonal alignments corresponding to new unplanned fabric
• the position of the doorway polarising unplanned perimeter curvilinear routes (Caniggia, 1976)
URBAN ORGANISM SCALE
From the previous considerations, linking together in an organism the different base and special aggregate individuated in Trani, it is possible to propose a well-founded hypothesis about an ancient matrix of the actual town derived from the typical form of roman planning, based on the formation of two main orthogonal axes polarised by the forum area, with base building based on a courtyard house type, in our case lightly less in frontal dimension (16 metres) than the usual half actus , aggregated in “closed” or “opened” series and separated by ambitus. An original nearly squared city wall perimeter, measuring about 150/200 metre in side, can be argued from the previous considerations.
The city wall thus contained, typically, the higher part of the peninsula and were quite regular in shape and symmetrical on the side of the main access , as usual in roman planned city (see tav.7 at page 74) as Firenze, Genova, Como (Caniggia, 1976; Strappa, 1987) while they rotate in the direction of the port in the southern part, perhaps also conditioned by previous routes, orienting the courtyard houses fabric inside .
The ancient city wall corner and the position of the doorways are legible trough the curvilinear routes analysis. This perimeter of original city wall disappeared probably at middle IX century, at the time of Saracen domination over Bari
In the north-eastward side can be supposed both:
– the prosecution outside the perimeter of the actual via S. Martino and via Leopardi routes (now rotate in direction of the commercial area of the port) ;
– the presence of a single central doorway connecting the Giudecca area, in the site of the two main synagogues , at the end of the diagonal route of S. Martino area. The site of this doorway, to which is for the moment impossible to attribute a date, is confirmed by the discovery of a route, now infilled inside a block between via Giudea and vicolo Giudea. The direction of this route, pointing exactly the place of the supposed door, is confirmed from the corresponding alignment of walls in the following block.
Having assumed as matrix the type derived from roman planned town, it remain unsolved the problem of stating to which type of urban organism it can be referred. The term castrum , the dimension of which are not anyway reached , related to Trani in documents from IX century is in fact employed with the meaning of a fortified settlement which don’t reach the dignity of a civitas..
It is not allowed, also, to relate to other type of roman colonisation towns as the coloniae latinae, far wider in dimensions , neither to coloniae viritanae as the complete list of them (35 in all) is asserted by literary evidences.
An urban pattern, even if of later date , not far different from coloniae maritimae founded first on Tyrrhenian coast and then on the Adriatic ones in II century B.C. could be proposed.
This hypothesis could be supported by the contained dimensions of the original nucleus which must not had exceeded 70 courtyard houses: not far from the small initial size of about 300 farmers with perimeter around 150/200 metres in side of coloniae maritimae . Nevertheless the modest size of public spaces of the latter, consequence of the lack of administrative autonomy, don’t allow too close comparison with Trani, where the forum area seem to had been relatively wide .
Our proposed interpretation of the ancient urban organism had been, anyway, traced on the data deduced from the actual structures referred to some general characters common to roman planned town, leaving unsolved the question if this urban order is the first one or if it has been reached starting from an even precedent settlement .
The reading of urban organism of Trani is still far to be definitive, as it is intelligible from the number of problems still unsolved and for the coexistence, sometimes, of a double hypothesis (as for the access to oriental wall), resolvable probably admitting the diachronicity of two different orders reached in different historical phases. A further evidence of the original ancient pattern of Trani could come from the studies of the level of routes and construction: it seem clear that also in Trani, as for many ancient cities, a general vertical “growth” of road level has occurred, proved by:
• the ground level of many houses, lower then the level of the related route;
• the presence of underground floor when the ground level of houses is higher than the level of the related route;
• the original level of the area of the supposed forum, where the S. Martino church had been founded at an average level two metres lower than the actual road level;
• the construction level of the buildings below the Cathedral: the S. Maria church, probably dating to V century, is founded on the ruins of a previous Early Christian church 130 cm below the level of actual crypt;
• the higher level of via Beltrani, below which recent excavation work has revealed no traces of previous structures, in comparison with the other planned route, which confirm its role of matrix route, typically following a light ridge coming from inland territory.
If we compare the evolution of city wall we can note how the urban structure is the result of a territorial dialectic between inland routes structure and coastal ones, which can be understood reading the built environment at a larger scale.
Giuseppe Strappa
Le caratteristiche di un organismo architettonico possono essere individuate nel termine “vivente”. Nella vita, cioè, che lo pervade: che lo genera, che lo trasforma, che ne segna l’inevitabile decadenza.
L’organismo costruito, dunque, possiede una propria struttura organizzata che si rinnova nel tempo. L’uso stesso degli edifici e dei tessuti, il loro consumo, richiedono un continuo aggiornamento, dalla prima costruzione fino alla loro sostituzione. Questo carattere autopoietico deve fare, i conti, soprattutto nel caso dell’architettura (meno dell’edilizia), con l’apporto critico dell’autore, impedendo il suggestivo paragone, che ha affascinato e condotto in errore generazioni di architetti, con gli organismi naturali. Se non c’è dubbio che, nel rapporto che nel progetto si stabilisce tra soggetto e oggetto, quest’ultimo contenga suoi propri caratteri “organici”, portato dell’impiego degli spazi nel corso della storia, del patrimonio di tecniche costruttive, dell’esperienza estetica che si è consumata nel tempo in tutte le scale del costruito, è anche vero che noi abbiamo ormai consolidato una superficiale critica di architettura dove innovazioni radicali e cambiamenti improvvisi provocano un’attenzione di gran lunga maggiore delle permanenze, dei sostrati profondi della vita che permea la realtà costruita e che costituiscono il suo carattere più concreto e meno evidente. Nell’età della globalizzazione e degli organismi geneticamente modificati è noto come non sia facile coltivare nozioni come quella di processo formativo, di area culturale, di organicità alle diverse scale (degli edifici, della città, del territorio).
Ma cerchiamo di vedere il problema con occhi nuovi. Gran parte del pensiero sull’architettura contemporanea pone al centro del progetto la logica della globalizzazione. Il termine indica (nel suo senso generale cui corrispondono molte interpretazioni diverse, spesso in contrasto tra loro) l’attuale internazionalizzazione della produzione e dei mercati, con la relativa ricaduta nell’accelerato trasferimento di tecnologie, circolazione di capitali, migrazioni di persone. Questo fenomeno, che Anthony Giddens definisce sinteticamente come intensificazione delle relazioni planetarie, che finiscono per incidere indubbiamente sul carattere della cultura contemporanea, ha ricadute evidenti sulle condizioni in cui opera l’architetto. E tuttavia esso è stato ampiamente mitizzato, accettato come condizione alla quale non è necessario opporsi (come dato del problema) ed anche come rivoluzione inedita nella storia della civiltà occidentale, quando in realtà si tratta delle conseguenze estreme di un processo che ciclicamente attraversa l’intera storia dell’economia e della cultura. Trasferendo le condizioni del mercato e della tecnologia alla cultura, secondo paralleli non sempre dimostrati e dimostrabili, gli architetti inseguono, da tempo, l’ ipotesi di un pensiero generalizzante ed astratto, perdendo la capacità di analizzare la realtà costruita nella concretezza dei suoi contesti plurali che costituiscono, nel loro insieme, la condizione storicamente determinata all’interno della quale ogni progetto, unico ed irripetibile, si colloca. All’architetto, per statuto, non è consentita la pura constatazione, l’adeguamento alla condizione contemporanea: ogni progetto, per aspirare alla durata, deve contenere, insieme, quel tanto di inattuale e quel tanto di utopia che costituisce il sale del suo apporto critico alla modificazione della realtà costruita. Ed è singolare che, in un mondo in cui l’architettura sembra chiamata a rinnovarsi incessantemente, in realtà essa finisca per voler confermare senza critica, puntualmente, le proprie condizioni al contorno. Se si pensa ai contenuti etici di proposte come quella del Movimento moderno, ci si accorge di come poche epoche, dal XIX secolo in poi, hanno mostrato una mancanza tanto evidente di opposizione ai valori invalsi come la nostra, una tanto inerte accettazione dei portati della città liberista, informe e senza regole D’altra parte si fanno sempre più evidenti le istanze di cambiamento verso un saggio impiego delle risorse, verso il loro organico coordinamento con la vita dell’uomo, che si vanno trasformando, da esigenza imposta dalle necessità nei secoli scorsi, in scelta cosciente e, forse, in valore. Nella generale confusione delle cose che ha coinvolto la nozione di organismo, un ruolo fondamentale ha svolto, infatti, la recente condizione di smisurata disponibilità di risorse, dell’inedita condizione di affluenza che caratterizza alcune società del mondo occidentale, con i relativi fenomeni di estesa dilapidazione di ricchezza. La liberazione dai vincoli imposti dal bisogno, che mettevano in luce con chiarezza i rapporti di elementare necessità tra le cose, ha finito col produrre, già ora, i primi sintomi del decadimento dei nessi che contribuiscono a spiegare perché e come le parti di un edificio (ma anche di una città o di un territorio) si conformino, come sviluppino rapporti di congruenza tra gli elementi componenti. Nel quadro di una generale crisi che induce a sostituire la quantità di beni prodotti alla qualità dell’ambiente antropizzato (per usare un termine desueto, all’armonia tra le parti del mondo costruito), il principio razionale ed estetico di appropriata proporzione dei mezzi rispetto ai fini da raggiungere ha progressivamente perso il proprio ruolo fondante nella pratica progettuale e con esso l’etica del buon uso delle risorse che coincide, in larga parte, con l’arte del saper ben costruire.
Ma la nozione di organismo aveva già incontrato, peraltro, l’avversione ostinata dell’ideologia del Movimento moderno (o meglio dalla sua definizione consolidata dalla storiografia ufficiale). Questa ostilità in realtà fa riferimento ad una più generale koiné di pensiero che caratterizza la modernità, della quale l’idea di progresso sembra essere il portato più evidente. La moderna idea di progresso, recentemente messa in crisi da interpretazioni meno schematiche dello sviluppo storico, sembra infatti individuare un movimento lineare in una sola direzione: un movimento progressivamente accelerato, seppure discontinuo, verso una meta essa stessa continuamente progrediente. Le forze storiche che si autoeleggono come acceleranti questo processo si riconoscono in una scala di valori che legittima il proprio rapporto oppositivo con la cultura ereditata fino ad arrivare a ritenere l’opposizione (l’innovazione radicale ed antitetica, rivoluzionaria nei confronti della continuità storica della quale la nozione di organismo era il portato diretto) valore di per sé. L’intera età moderna viene così intesa dai pionieri della modernità in una dimensione di eroica reazione alle età antecedenti, dove la storia viene letta per fasi di successivi superamenti, reprensibili arretratezze, recuperi. Essendo la sua meta costituita, inevitabilmente, da condizioni migliori rispetto allo stato di partenza, l’idea di progresso assume in età moderna carattere salvifico, religioso: distinguendo adepti, profeti, schieramenti.
Quella di organismo è, in realtà, una delle nozioni fondamentali degli studi sulla progettazione e dello stesso progettare: su di esso può essere basata la lettura, la critica (cioè la lettura e, insieme, le scelte che ne derivano) il modo di operare dell’architetto.
Occorre dire subito, per allontanare equivoci invalsi, che l’idea di organismo non implica alcun determinismo meccanico, ma rappresenta la manifestazione del legame molteplice che unisce, nella concezione dell’artefice, tutte le componenti che concorrono a determinare l’esito finale dell’architettura: il costruito.
Questa nozione percorre, in maniera latente od esplicita, tutta la storia della teoria dell’architettura: non solo informa gran parte della città reale, anche contemporanea, ma è anche capace di coglierne le nuove istanze.
Leon Battista Alberti sosteneva che occorre disegnare gli edifici imparando dalla semplicità della natura, intendendo per natura gli organismi viventi . E’ noto anche come molte ricerche dell’architettura rinascimentale fossero originate da questo rapporto di affinità, tradotto, a volte, in maniera diretta in edifici antropomorfi o zoomorfi.
Il corpo umano è uno tra gli esempi proposti con maggiore frequenza: ogni sua parte costituente (organo) è necessaria all’altra e concorre in modo esemplare alla vita dell’organismo. Il legame, evidente, ma non sempre chiarificatore, con gli antecedenti della trattatistica rinascimentale verrà tuttavia accuratamente evitato nel seguito per gli equivoci che possono essere ingenerati dal rapporto tra architettura e scienze della natura.
Così concepita, l’idea di organismo, di struttura di parti lentamente evolventesi per mutazioni successive (l’idea di evoluzione sostituita a quella di rivoluzione) sembra portatrice di valori arcaici, inutilizzabile. La macchina per volare ideata da Leonardo osservando il volo degli uccelli era una potente intuizione poetica ma l’uomo non ha mai volato con un congegno ad ali battenti. Solo componendo, attraverso la ragione, la pressione esercitata dal volo animale nei vettori verticali della portanza prodotto dall’ala fissa e in quello orizzontale prodotto dall’elica, l’uomo ha prodotto l’aereo.
La definizione di organismo che utilizzeremo (e quella di organicità che ne deriva) ha ben poco a che vedere, dunque, con le matrici naturalistiche utilizzate attraverso l’imitazione delle forme minerali, vegetali e animali nel corso della storia dell’architettura, dalle citazioni fitomorfe gotiche ai tanti “ordini rustici”, alle sperimentazioni manieriste dei Wendel Dietterlin, Philibert Delorme, Sebastiano Serlio, Federico Zuccari, né con la moltitudine di interpretazioni antropomorfe e riduzioni antropometriche della realtà costruita (dagli edifici, alle città alle cosmogonie ) prodotte ininterrottamente dal ‘500 fino alla corrente dell’architettura organica che ha percorso trasversalmente la vicenda moderna.
E in realtà, a ben guardare, la stessa etimologia del termine organismo, nel senso attribuitogli dagli studi tipologici, è, in gran parte moderna. Si rapporta infatti al più recente termine, sconosciuto prima dell’ Illuminismo, di “organizzazione” come legge che presiede al coordinamento degli elementi tra loro. Va notato, per inciso, come in realtà il termine organizzare esistesse già ai tempi di Dante, ma nel significato letterale di “formarsi degli organi”. La trasformazione del suo significato nel tempo indica la progressiva estensione dell’idea di organismo ad altri ambiti delle attività umane per i quali andava insorgendo la necessità di coordinamento. Mutuato dal francese, nel Seicento, il termine entra anche nel linguaggio scientifico italiano prendendo il valore di “ordinare, disporre” e nel 1649 il Malpighi definisce, modernamente, organizzazione il termine che indica l’insieme di parti che collaborano ad una stessa funzione.
La definizione di organismo può essere introdotta per gradi, deducendola dapprima da constatazioni elementari, restringendone poi il significato e chiarendo i molti equivoci che ad esso sono stati associati nel corso della storia, anche recente, fino a raggiungere l’esattezza dei termini. Cercando di comprendere, cioè, la logica formativa interna agli edifici considerati nella loro realtà fenomenica e arrivando a stabilire, per analogia, alcuni loro caratteri comuni in grado anche di fornire, in modo inizialmente intuitivo, la nozione di tipo.
Usato, infatti, con le opportune cautele, lo strumento dell’analogia, operando attraverso raffronti con quanto della realtà è evidente, appare particolarmente fertile negli studi che hanno fini interpretativi, tendendo alla sintesi di dati che in architettura si presentano nel loro carattere parziale e frammentario.
Questo strumento è anche utile a fornire, in prima approssimazione, l’idea di complessità contenuta nella definizione di organismo e, insieme, degli strumenti possibili per sciogliere tale complessità attraverso la comprensione delle ragioni interne che conformano prima, e legano poi gli elementi tra loro. Per questo motivo proporremo la ricostruzione del processo formativo di alcuni organismi architettonici esemplari (leggendo gli edifici ed il modo in cui vengono costruiti, ragionando sui meccanismi che ne hanno originato gli interni rapporti di necessità) e deducendo da questi studi le prime nozioni fondamentali e definizioni teoriche .
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