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IL BIOPARCO E LA STORIA DA CAMBIARE

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 26.02.09

Come in un rito d’iniziazione, infantile e fantastico, si entra tra volute barocche disegnate da Armando Brasini e leoni inferociti colti dallo scultore Vincenzo Romeo da Taurianova nell’atto di avventarsi sul visitatore.
E dentro si squaderna il delirante esotismo didattico del giardino zoologico romano, tra finte capanne africane, rocce e caverne di cemento, iceberg d’invenzione.
Karl Hagenbeck, baffuto commerciante amburghese di bestie selvatiche, diede vita a questa follia architettonica, all’inizio del secolo scorso, inventando lo zoo senza gabbie, dove gli animali, isolati da fossati, sembravano aggirarsi tra i visitatori. Tempo dopo Raffaele De Vico ne doveva accrescere la fama costruendo, tra l’altro, una sorprendente voliera geodetica che suscitò universale ammirazione.
Erano gli anni ’30 e pochi pensavano al concentrato di crudeltà che quei recinti contenevano, alla mortale malinconia che assale anche una tigre, se strappata all’ombra materna della sua foresta.
Ci pensò la guerra a spazzare via gli animali lasciando costruzioni e giardini in abbandono.
Poi venne il Bioparco, dopo lunghi anni di stanco recupero. Uomini e valori erano cambiati e una nuova, pelosa pietà per gli animali imponeva di dissimulare la loro prigionia come protezione della natura.
Quanto sia desolato il risultato della trasformazione, ce lo  hanno ricordato alcune lettere inviate nei giorni scorsi a questo giornale. Scimmie, tapiri, cammelli si aggirano tristissimi sotto lanci incrociati di noccioline. Tra gabbie deserte, dentro microcosmi circondati da puerili didascalie, ogni tanto un animale, risvegliato dal torpore, sbatte furioso la zampa contro le vetrate, imprecando con un ruggito alla felice stupidità del mondo là fuori. Cosa ci sia di educativo in tutto questo, nel tempo di internet e dei DVD poi, qualcuno dovrebbe pure spiegare.
Forse dovremmo piantarla con le ipocrisie e trasformare questo posto in un grande giardino pubblico dove solo qualche animale che non ha bisogno di gabbie, il pavone, lo scoiattolo, si possa aggirare tra curiose architetture restaurate immerse tra nuove piante, come in una foresta. Un magnifico, umano zoo vegetale.

LETTERE AL CORRIERE

Uno sguardo sulla natura
Nel fondo (26 febbraio) di Giuseppe Strappa, l’attacco al Bioparco è condotto su due piani ormai «tradizionali»: la «malinconia mortale » della tigre «strappata all’ombra materna della sua foresta» e l’inutilità del Bioparco e di strutture analoghe «nell’era di Internet e dei Dvd».
Sulle tigri si scopre l’acqua calda, visto che la loro importazione a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi che non sono certo gli zoo a trasgredire. Piuttosto gli zoo ospitano animali che rapaci commerci clandestini destinati ai privati ricchi e annoiati ancora strappano ai loro ambienti. Gli animali del Bioparco e i loro genitori sono praticamente tutti nati in cattività e quasi mai potrebbero rientrare nell’ambiente naturale perché hanno perso la capacità necessarie a sopravvivere in esso. Che ne facciamo? O li teniamo in strutture il più possibile idonee o gli somministriamo la dolce morte: e non si vede cosa ci sia di ecologico o educativo in questa soluzione. Quanto poi a Internet e ai Dvd: vedere un essere vivente dal vivo è diverso che in tv o sul web. Certo che la prigionia ne altera il comportamento, ma almeno i bambini non penseranno che si tratti di un essere virtuale. E poi anche la visione di ottimi documentari è pur sempre una lente deformata da chi li riprende. Insomma gli zoo generano «zoofilia», e se sempre più persone in Occidente ama gli animali è anche grazie a quelle strutture e al loro ruolo nell’ educazione al rispetto della natura. Una storia contraddittoria, certo: ma spesso anche da un errore si può trarre anche un qualcosa di utile.
Alberto Hermanin

Il Signor Hermanin, esperto in «relazioni con i mass-media », ha ragione su due punti.
Il primo è che da «un errore si possa trarre anche qualcosa di utile». L’esperienza degli zoo, forse motivata fino a mezzo secolo fa, sta chiudendo il suo ciclo storico ed è inutile, oggi, continuarla con etichette ipocrite. Tenere animali in gabbia, secondo una sensibilità ormai dovunque condivisa, è diseducativo, oltre che crudele. Da questo errore anacronistico bisogna trarre indicazioni utili per nuove forme di rapporto con la natura. Preferisco che mia figlia veda un leone libero su un Dvd, piuttosto che in una gabbia dove muore di noia.
Il secondo è che gli zoo sono comunque destinati a sparire per mancanza dell’oggetto stesso che li motiva, visto che, come scrive il signor Hermanin, “l’importazione di animali selvatici a scopo commerciale è vietata da innumerevoli leggi”. Nella fase di transizione forse si potrebbe pensare a forme meno crudeli di sopravvivenza per gli animali che non possono essere reimmessi nel proprio ambiente, ma non c’è dubbio che bisogna prevedere un futuro per lo straordinario patrimonio architettonico e paesistico dello zoo romano quando, inevitabilmente, sarà privo di animali selvatici.
Forse sto scoprendo l’acqua calda, eppure debbo constatare che il Bioparco continua allegramente a produrre disastri (agli animali ed ai beni culturali) senza che alcun progetto alternativo sia seriamente proposto.
Giuseppe Strappa

Gentile Buccini, in riferimento alla lettera pubblicata nella rubrica del 19 febbraio 2009 («Tra Bioparco e Giardino Zoologico non solo una questione di nomi») a proposito della sua risposta: a nostro avviso ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni, ma un giornalista ha delle responsabilità nei confronti dei lettori, e quando si danno informazioni non esatte, si crea disinformazione. Gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti, infatti, se rilasciati in natura andrebbero incontro a morte certa nel giro di pochissimo tempo e con terribili sofferenze per l’incapacità di difendersi e di procurarsi il cibo corretto. Comunque, anche a noi non piacciono i furbetti. Saluti.
Fondazione Bioparco di Roma
Giovanni Arnone, Presidente
Fulvio Fraticelli, Direttore Scientifico

Gentili signori, partiamo dall’unico punto che pare accomunarci: l’avversione per i furbetti. Nella rubrica da voi citata scrivevo che è vecchia «…l’idea di una serie di gabbie al centro della città dove far vivere in spazi angusti animali che nel dna hanno un insopprimibile bisogno di libertà (e così non ci provino i soliti furbi a raccontarci che i soggetti nati in cattività stanno bene dove stanno)». E dove stanno? Appunto in una «serie di gabbie al centro della città», «in spazi angusti» eccetera.
Ho forse scritto che vanno «rilasciati in natura» tout court come voi tentate di farmi dire? Certo che no. Esistono parchi protetti, adatti a una parziale reintroduzione in natura: posti simili a quello dove gli animalisti si batterono per condurre l’elefante Calimero, già vostro ospite. Tra una gabbia e uno «spazio protetto» c’è una bella differenza: lo spazio. Professionisti del vostro livello queste cose le sanno meglio di me: volendo, potete dirle alla gente anziché usare il babau del «rilascio in natura» come espediente dialettico. I giornalisti hanno, come dite, l’obbligo di verità. Ma i non giornalisti non hanno necessariamente l’obbligo contrario…
gbuccini@rcs.it

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«Ogni anno 600 mila visite»
In risposta all’articolo «Il Bioparco e la storia da cambiare» di Giuseppe Strappa del Corriere di giovedì 26 febbraio: affrontare una discussione sulla legittimità o meno dei Giardini zoologici, che va avanti da decenni, porterebbe a considerazioni sterili poiché è un argomento profondamente condizionato da fattori emotivi e dalla sensibilità dei singoli. L’unico dato oggettivo è che gli animali nati in cattività da generazioni non possono vivere se non in spazi protetti. Il Bioparco (territorio, immobili e gli stessi animali) è del Comune, unica istituzione in grado di decidere le sorti della struttura. Forse il Comune stesso potrebbe chiedere ai cittadini la propria opinione con un referendum. In questo caso il Bioparco, che si oppone all’ « unica dimensione », quella televisiva (sono inutili la Natura vera e gli animali in carne ed ossa perché ci sono internet e dvd), dovrebbe far diventare «votanti » i suoi 600 mila visitatori. Basteranno?
La Direzione del Bioparco

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«Un ghetto per animali»
Un bravo a Giuseppe Strappa per il suo coraggioso articolo! Spero che al Comune qualcuno lo ascolti e che si metta un termine a questa inutile cattiveria nei confronti di poveri animali imprigionati a vita chiudendo definitivamente questo orrendo ghetto per animali. Gli addetti al Bioparco possono essere— in caso di chiusura — più utilmente reimpiegati altrove.
Federico Zadra