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Claudio D’Amato – La Scuola Italiana di Architettura 1919-2012

 

 

Saggio sui modelli didattici e le loro trasformazioni nell’insegnamento dell’architettura

Ed. Gangemi –  2019 – Collana Archinauti del Politecnico di Bari diretta da Claudio D’Amato

Il libro racconta nella sua prima parte, in forma schematica le vicende, dalla loro nascita alla loro fine, delle Scuole/Facoltà italiane di architettura, assumendo come date convenzionali d’inizio il 1919, anno di attivazione della Scuola Superiore di Roma; e di fine il 2012, anno in cui le Facoltà furono soppresse e sostituite in tutte le loro funzioni (didattiche e di programmazione della docenza) dai Dipartimenti, in discendenza dalla legge 30.12.240 del 2010, c.d. Gelmini. Queste vicende sono collocate in un quadro temporale scandito dai relativi provvedimenti legislativi e articolato in due grandi periodi, corrispondenti ai capitoli 1 e 2:
– il primo è quello delle Scuole, caratterizzato da un modello di insegnamento c.d. “organico”, perché la loro architettura didattica fu pensata come un ben strutturato edificio di cinque piani attraversato verticalmente dalle materie della Composizione architettonica che ne costituivano la struttura portante, destinata all’esercizio del progetto professionale. In realtà le Scuole di Architettura furono soppresse nel 1935, e sostituite dalle Facoltà, ma il loro ordinamento didattico rimase immutato fino al 1969, anno in cui furono approvati i c.d. “provvedimenti urgenti” per l’Università (legge Codignola);
– il secondo è quello delle Facoltà, caratterizzato da un modello di insegnamento c.d. “seriale”, perché la loro architettura didattica fu pensata come un insieme di insegnamenti organizzati in “piani di studio” paralleli, privi di una sostanziale gerarchia disciplinare.
Il capitolo 3 descrive in maniera analitica la nascita e la formazione delle Scuole/Facoltà, assumendo come filo conduttore il succedersi dei Presidi, dei quali è raccontato in forma sintetica il ruolo svolto nella definizione del carattere delle Scuole/Facoltà.
Le sequenze cronologiche dei Presidi di tutte le sedi, qui organizzate per la prima volta in maniera integrale, ha consentito di costruire una mappa dello sviluppo storico delle sedi stesse, distinguendole in: “storiche” (fino al 1944), “nate negli anni ‘60”, e “nate dopo la legge sull’autonomia universitaria del 1989”. Di ogni Scuola/Facoltà è stata poi fornita solo la sequenza dei docenti delle materie compositive: una scelta selettiva non solo pratica, che ribadisce la tesi di fondo del volume che nella Composizione architettonica vede la disciplina centrale intorno a cui riorganizzare oggi la rinascita delle Scuole di Architettura italiane. Da notarsi il ruolo “mobile” di molti docenti che compaiono in più sedi a seconda dei loro avanzamenti di carriera. Un dato, questo della mobilità, che ha costituito una ricchezza della Scuola italiana di architettura che è riuscita in questo modo a rinnovarsi di idee e di energie fino alla metà degli anni ’90. Di questi eccellenti Architetti, ai quali è dedicato il libro, sono poi stati individuati gli Accademici di San Luca: ne è emerso un quadro nazionale che forse è proprio quello che dà credibilità a una “scuola italiana di architettura”, al di là delle profonde, a volte inconciliabili diversità delle singole personalità. Infine questi Eccellenti Architetti sono stati poi raggruppati per “stili di insegnamento”, nei due grandi periodi delle Scuole e delle Facoltà.
Infine il capitolo 4 analizza la crisi che oggi attanaglia le Facoltà, governate da una corporazione di docenti espertissimi nell’assicurarsi il prolungamento della loro progenie disciplinare, ma ormai del tutto incapaci di esercitare il mestiere di architetto. È analizzato il conflittuale rapporto fra dipartimenti e ordini professionali: da una parte le astuzie per praticare la professione a spese dello stato; dall’altra il tentativo di smantellare strutture, incapaci di aggiornarsi, con il facile elargimento di crediti extracurriculari. È individuata come causa centrale della crisi il monopolio statale nel campo dell’insegnamento e la necessità di offrire una alternativa non statale all’insegnamento: una scuola pubblica non statale, i cui ordinamenti didattici siano riconosciuti direttamente dall’Unione Europea.

APPENDICE ALLA PRIMA PARTE
Per la prima volta è ristampato in edizione critica il testo del 1925 di G. Giovannoni Discussioni didattiche, fondamentale per la comprensione di tutta l’elaborazione successiva, fino ai nostri giorni, sui modelli didattici.

SECONDA PARTE
È dedicata all’illustrazione dettagliata del modello didattico da me applicato alla Facoltà di Architettura di Bari, come preside e come direttore del corso di laurea nei ventidue anni consecutivi della mia gestione: di esso ne sono spiegati gli aspetti originali, i limiti e le cause della decadenza.
Ho fatto ciò attraverso testi brevi per necessità di sintesi e chiarezza; e allo stesso tempo attraverso un’esaustiva e completa mole di apparati redazionali che rendono conto del lavoro didattico e di ricerca svolto da tutti i protagonisti –professori e allievi– che quel lavoro hanno svolto nel corso degli anni.

CLAUDIO D’AMATO GUERRIERI
Bari, 22 dicembre 1944
Professore emerito nel Politecnico di Bari
Accademico Nazionale di San Luca

UTILITA’ DEI DISEGNI URBANI DI SAVERIO MURATORI

di Giuseppe Strappa

presentazione del libro

Marco Maretto, SAVERIO MURATORI. IL DISEGNO DELLA CITTA’, Francoangeli, Milano 2012

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Il primo dato che emerge con chiarezza dallo studio di Marco Maretto sui progetti urbani di Saverio Muratori è che, contro il luogo comune di un suo aristocratico distacco rispetto all’ambiante culturale e professionale in cui opera, l’architetto modenese appare profondamente immerso nello spirito del tempo, partecipa con passione ad esperienze dell’architettura italiana che, per molti versi, concorrono a formare un patrimonio collettivo.
I progetti eseguiti prima della guerra, come i piani per Aprilia o Cortoghiana, costituiscono la versione di matrice “nordeuropea” di una comune sperimentazione sull’architettura razionale. L’esperienza dell’INA-Casa nel dopoguerra segna una fase di incertezza e traumatiche interruzioni delle ricerche precedenti comune alla maggior parte degli architetti del contesto romano (si veda il caso esemplare di De Renzi, col quale Muratori ha condiviso molte delle esperienze di questo periodo). Esperienza che, negli anni  della Ricostruzione, è tanto pienamente inserita, peraltro, nel quadro delle diffuse indagini sul quartiere inteso come unità urbana conclusa, che proprio la constatazione del loro fallimento aprirà la strada alle riflessioni sulla nozione di organismo urbano, la quale troverà un primo esito nella proposta per le Barene di San Giuliano in aperta, dialettica opposizione con le convinzioni del nuovo internazionalismo avanzante.
Anche gli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, ai quali Muratori ha dato un’originale indirizzo “operante”, si svolgono in un clima di condivisa attenzione per temi che, nel corso di tutti gli anni ’60’ e oltre, hanno un ruolo centrale nella ricerca italiana, da Aldo Rossi a Giorgio Grassi a Carlo Aymonino.
Lo stesso tema del disegno urbano testimonia, infine, un’istanza al rinnovamento comune alla ricerca romana e milanese.
Quello che invece caratterizza Muratori e fa, della sua, un’avventura intellettuale isolata ed unica, è il modo di vedere l’oggetto stesso del progettare, la convinzione, progressivamente conquistata,  profonda e praticata fino alle estreme conseguenze, che l’architettura sia soprattutto un processo di conoscenza da mettere in atto attraverso la coincidenza di lettura e progetto (punto di arrivo di assoluta novità) dove non è il secondo a derivare per deduzione logica dal primo, ma è la lettura stessa a costituire opera di “riprogettazione”. Un progetto che è, dunque, non semplice soluzione di problemi posti dalla realtà, ma soprattutto costruzione critica che dà senso universale al particolare e unifica il molteplice, in questo simile, per certi versi, all’indagine fenomenologica husserliana: cogitationes che non derivano direttamente dal reale ma sembrano completarlo.
Quello che distingue Muratori dal clima culturale che lo circonda, il quale sembra progressivamente orientarsi verso una visione centrifuga del mondo costruito dove tutto diviene relativo e discontinuo, è la sua proposta di un centro unificante, frutto di un pensiero organico nel quale ogni parte della realtà  trova il suo posto all’interno di un sistema di rapporti necessari. Deve trovare il suo posto: l’organicità che Muratori individua nella storia e nel territorio, il processo che riconosce nella trasformazione della città e del costruito, costituiscono, in realtà, un solo, grande progetto.
Per questo lo studio che Maretto presenta in queste pagine sulla dimensione, non solo scalare ma teorica, del disegno urbano, getta luce su uno dei gradi necessari di un processo fondamentalmente conoscitivo,  un passaggio chiave, che i disegni per le Barene segnano con chiarezza, nel processo di progressiva estensione degli ambiti muratoriani di comprensione del reale. Fino al territorio, fino ai temi poderosi che coinvolgono nel disegno intere ecumeni civili.
Credo che la grandezza della figura di Muratori, architetto fino in fondo, anche nel considerare il divenire delle cose e della vita, consista proprio in questa sua straordinaria volontà di sintesi, nell’unità epica in cui riesce a raccogliere il molteplice. Un paesaggio ideale, espresso da inflessibili griglie e visionari “tabelloni”, nel quale non c’è posto per il banale quotidiano e anche la semplice casa a schiera acquista senso e grandezza nel contributo che fornisce alla costruzione dell’intero organismo urbano.
Questa volontà di sintesi assoluta gli permette di “riprogettare” l’organicità della città e del territorio, ma anche riconoscere, per differenza, le concrete frantumazioni prodotte dalla crisi in atto. E anche l’individualismo di una cultura architettonica sostanzialmente ancora impregnata di romanticismo: come per il neoclassico Schiller, opportunamente citato in queste pagine, per Muratori  la grande arte non è quella attraverso cui l’individuo si esprime con forza titanica, ma quella che sa raccogliere e dare forma alla condivisione, ai gesti tipici nei quali un intorno civile si riconosce.
Con lo iato del periodo della Ricostruzione, quando i suoi progetti sembrano “avvalersi di un morfema astratto costituito da un accostamento di volumi ed elementi geometrici”, come scrive Gianfranco Caniggia, il classicismo che pervade per intero e in profondità il pensiero di Muratori sembra porsi, fin dalle prime esperienze, nel solco della proposta di Pagano di non imitare l’antico, ma di creare un’arte nuova da porre accanto all’antico che si traduce nella nozione di “durata” dove tutto ha senso in quanto esiste un precedente che lo spiega e ne indica il futuro. Per questa ragione, quando la modernità sembra leggere la città come luogo dove tutto è provvisorio, casuale e rapidamente consumato, Muratori introduce l’idea di crisi, di discontinuità tutt’altro che fortuite, unificate come sono in un più vasto disegno dal grande piano della storia, da una struttura ciclica che da architettura alla successione degli eventi.
La sua figura profondamente classicista è, dunque, tutt’altro che anacronistica. Essa svolge, piuttosto, il ruolo che hanno avuto i grandi pensatori in radicale disaccordo con i valori del proprio tempo proprio perché, vivendoli, ne hanno compreso a fondo significato e limiti. Solo una lettura superficiale della loro opera li collocherebbe “in discordanza di fase” col contesto in cui hanno operato. E anche se la lezione di Muratori, esploratore di nuovi territori, è rimasta inascoltata, senza di lui il tempo e le condizioni in cui ha operato non avrebbero, oggi, lo stesso significato.
Ogni società dovrebbe custodire gelosamente questi focolai di critica alle proprie convenzioni invalse come fonte preziosa di un possibile rinnovamento. O, almeno, riflettere sulla loro eredità.
La generosità del suo impegno intellettuale ha invece condotto Muratori in rotta di collisione con un establishment accademico e a pagare la propria intransigente passione civile con le vicende drammatiche che hanno concluso nell’emarginazione la sua storia intellettuale e umana. Alla quale è succeduta una lunga damnatio memoriae  da cui stiamo uscendo solo in questi ultimi anni.
Marco Maretto è uno dei non molti studiosi delle nuove generazioni che ha colto, in chiave contemporanea, il valore operante dell’eredità muratoriana, le fertili possibilità che la sua critica ancora offre alle condizioni stagnanti dell’attuale pensiero sull’architettura.
Per questo lo dobbiamo ringraziare per il prezioso lavoro documentato in queste pagine, che si inserisce in un coerente quadro di studi attraverso i quali, della lezione muratoriana, egli fa riemergere proposte attualissime. Proposte che riguardano la sostenibilità delle trasformazioni che operiamo sul mondo costruito e l’uso organico dei mezzi che abbiamo a disposizione,  in una condizione, come quella contemporanea, segnata da un’ inedita dilapidazione di risorse alla quale l’architettura fornisce spettacolarizzazione e consenso.

Roma, luglio 2012

Il Lotto 24 alla Garbatella

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 4 marzo 1992
E’ il settembre del 1929. I   giornalisti stranieri giunti a Roma per il  XII Congresso internazionale delle Abitazioni e dei Piani Regolatori vengono scorazzati, con la cura che la propaganda impone, a visitare i nuovi quartieri popolari costruiti dal regime. Le loro corrispondenze, tranne qualche cenno alla correttezza costruttiva delle opere, lamentano   invariabilmente  lo stato di desolante arretratezza dell’edilizia economica romana. Joseph Gantner, dell’autorevole “Frankfurter Zeitung”,  è in prima fila tra quanti  ironizzano   sui  goffi tentativi  di nobilitare il tema della casa a basso costo  con strumenti  eccessivi,  apparati decorativi ridondanti, col risultato  che alcune abitazioni economiche sembrano  ministeri, altre potrebbero essere state costruite “da Borromini per un cardinale” ,
E’ comprensibile dunque il loro stupore  quando vedono   apparire sul Lotto 24 della  Garbatella, tra gli stralunati palazzetti neobarocchi sparsi nella campagna ancora coltivata, un piccolo quartiere dalle forme semplicissime,  una famiglia di volumi silenziosi  appena increspati da poche allusioni  alla vocazione rurale del luogo : qualche  alto comignolo, qualche  bugnato  in tufo o mattone,  gli sporti dei tetti, familiari e paterni, che danno ombra su nitidi piani ad intonaco.
La sorpresa è generale. Gli articoli cambiano tono: cominciano a riportare con ammirazione il “luminoso esempio di costruzioni moderne e razionali” parlano di “un raggio di luce nell’uniforme monotonia degli edifici” dove le costruzioni testimoniano il nuovo impulso verso “un chiaro, deciso, non sentimentale modo di costruire”.
Le  case innovative del Lotto 24 erano  il risultato di una competizione che aveva visto  associati alcuni tra i migliori giovani architetti romani (Aschieri, De Renzi, Cancellotti, Vietti, Marchi, Marconi) ad altrettante imprese di costruzione per partecipare ad un concorso “costruito” . I progetti delle abitazioni ,il cui costo  era stabilito in partenza,   non dovevano cioè essere giudicati sulla carta, ma  dal vero  e le costruzioni, in seguito,  abitate stabilmente. Il bando prevedeva case “ad alloggi sovrapposti” con  accesso diretto dalla strada, secondo una formula di protezione dell’intimità domestica che oggi si va riscoprendo un po’ dovunque, soprattutto nei nuovi quarteri della banlieue parigina. Se il  termine avesse ancora qualche  senso , le tredici  case prodotte dal concorso del ’29 potrebbero essere definite un modello di architettura moderna.
Erano costruzioni di una razionalità solare, latina , che poco aveva in comune con le contemporanee ricerche, un po’ lugubri ed ostentatamente dimostrative, del celebrato razionalismo tedesco. Lontanissime dallo spirito dell’ existenzminimum , da quell’ansia di trovare la superficie minima abitabile che sembrava la panacea dei problemi della penuria di alloggi . Vi dominava, invece,  l’idea di una modernità paradossalmente intesa  come ritorno, come recupero di  antiche  leggi  di semplicità compositiva. Ne sono  esempi cristallini  le case  di Mario De Renzi, costruite all’angolo tra via delle Sette Chiese e via Borri ,o le nitide abitazioni  di Gino Cancellotti ,al centro del lotto triangolare,  dove il rigore dell’impianto  non deriva dall’adeguamento della forma alla funzione, ma dalla limpida  poesia di una geometria  quasi palladiana.
Fu un giornalista  del “Deutsch  Bauzeitung” ad accorgersi di un altro carattere originale  dell’architettura romana che queste case testimoniavano: egli notava come tra i giovani  italiani fosse sconosciuto il personalismo cumune agli architetti tedeschi, come essi rifuggissero dai manifesti: “Qui è la forza della tradizione  che da al quadro urbano un’energia  che è affatto caratteristica”. Una modernità non inseguita nei personalismi delle avanguardie artistiche, dunque, e nemmeno nelle suggestioni del mondo della macchina, ma evocata attraverso la semplificazione, il realismo costruttivo. Lontani dai protagonismi delle avanguardie, i giovani architetti romani rifiutavano  quella componente ideologica che si è rivelata la parte più fragile  del Movimento Moderno.
Oggi queste case restano , nonostante l’incuria , tracce durevoli  di  una solida tradizione moderna romana: un’eredità che va    ricostruita ricomponendo i frammenti che una storiografia arrogante   ha relegato tra i fenomeni provinciali (la storia, si sa, anche in architettura, è scritta dai vincitori) .
Tracce  che dimostrano ,contro un’ opinione radicata da tanti guasti recenti,  che non tutto quello che a Roma è stato prodotto di nuovo è stato costruito contro la città; che l’intelligenza, come  la buona architettura  non é sempre destinata al fallimento. Anche in una città cinica come Roma.
Per questa ragione le case del Lotto 24 vanno protette : esse debbono testimoniare, come  segno di ottimismo verso la città futura,  un ricordo e un’attesa.