da
G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,
in Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, a cura di E.F.M. Emanuele e G. De Giovanni Centelles. UNESCO, Roma 2004.
INDICE
1. caratteri generali
2. architettura tra le due guerre
3. il dopoguerra e la crisi contemporanea
1. CARATTERI GENERALI
Cancellando di colpo la tradizionale nozione di area culturale, le storie ufficiali di architettura moderna (almeno a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende di architetti ed edifici intorno ad alcuni nodi critici, spesso volgarizzati in slogan, che individuano movimenti, correnti, tendenze a carattere prevalentemente internazionale. Storie, tutte che, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee o nordamericane, delle quali interpretano valori, tendenze, aspirazioni: quello che viene comunemente classificato come “internazionalismo architettonico” e che sarà codificato nell’International Style è, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente emergente, che ha finito per esportare i propri modelli culturali nelle aree meno “sviluppate”, generandovi per reazione, al contempo, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una presa di coscienza delle proprie specificità alla quale non è stata data, fino ad ora, una definita collocazione storiografica
Il tema dell’architettura moderna specificamente mediterranea – della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante- costituisce, dunque, un argomento per molti versi insolito e nuovo
La consapevolezza, infatti, di un’identità architettonica relativa a una vasta area culturale estesa all’intero bacino mediterraneo, identificabile per caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando nel XX secolo proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del cosiddetto Movimento moderno, a conclusione di un processo che, a partire dalle trasformazioni economiche e politiche del XVII secolo, avevano finito con lo spostare verso nord il ‘centro del mondo’ relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Nelle aree nordeuropee e nordamericane lo sviluppo dell’architettura moderna aveva condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione delle aree un tempo di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi portanti e non chiudenti. Sviluppo contrapposto a quello organico, la cui origine proveniva dal mondo della pietra e delle murature massive del Mediterraneo e che era stata esportata, in età moderna, nei paesi nordici col Rinascimento.
E’ altrettanto evidente come nelle cosiddette aree plastico-murarie dell’Europa mediterranea, del vicino e medio oriente e nordafricane la transizione al moderno si è caratterizzata per l’esteso impiego di materiali naturali massivi e opachi, adoperati in sistemi costruttivi portanti e al tempo stesso chiudenti. In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta al cemento armato non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente nuove, ma ha proceduto per aggiornamenti e caute innovazioni.
Si può senz’altro affermare che la persistenza di un’organicità di tipo plastico-murario costituisce durante gli anni ’30 del ‘900 una scelta cosciente degli architetti che produce, almeno in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura mediterranea moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore di una lingua a matrice muraria capace di stabilire, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame organico tra distribuzione, struttura, leggibilità.
Una diade di polarizzazioni tra aree dagli opposti caratteri, questa, resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere incerta o ambigua ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso le nozioni di organicità e continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto i tipi edilizi quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme di caratteri condivisi.
L’attuale declino di una architettura plastico-muraria, connesso anche alla mancanza di sperimentazione moderna della tecnica lapidea per le murature portanti, spiega quindi perché il carattere di modernità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e con i materiali artificiali; mentre la massività e i materiali naturali sembrano connotare l’architettura in senso premoderno.
In realtà la cognizione del carattere del materiale, la coscienza che il suo impiego non è solo una componente tecnica che riguarda l’esecuzione dell’edificio ma il portato di una cultura e il fattore primo dell’invenzione architettonica (l’organismo architettonico come riconoscimento e trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma, sintesi di trasformazioni della natura in realtà costruita) sembra appartenere, prevalentemente, alla sopravvivenza moderna delle aree organiche mediterranee.
“Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”
Dunque la materia come origine prima della realtà costruita. secondo la tradizione latina per la quale con materia rerum si intendeva l’origine delle cose. Il termine, del resto, etimologicamente deriva da mater : la materia come madre di tutto il costruito ma anche “ceppo” dell’albero che fornisce la nozione di processo come sequenza di trasformazione. Anche nell’architettura moderna, la differenza tra materia e materiale non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione quanto la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio
Questo carattere dell’architettura mediterranea legato ad una cultura materiale antica, al riconoscimento del carattere dei materiali ed al loro sapiente impiego, distillato in esperienze millenarie, è stato individuato tardi, con molta difficoltà. L’idea moderna di carattere dell’architettura mediterranea nasce con il declino del consolidato stereotipo di un paesaggio che pittori, poeti, viaggiatori, avevano per lungo tempo identificato con l’eredità classica greca e greco-romana e del quale, dalla metà del ‘700, si scopre un’aspetto radicalmente diverso. Un paesaggio che, soprattutto in Italia, era stato idealizzato nell’ariosità trasparente di colonnati e trabeazioni (in strutture fondamentalmente trilitiche, portanti e non chiudenti) rivela quasi d’improvviso, quando i viaggiatori si spingono oltre i luoghi deputati dei grandi monumenti e superano la barriera geografica di Roma e Napoli, la propria natura di territorio organicamente antropizzato, costituito da chiese, monasteri, anche rovine antiche, ma soprattutto da abitazioni, di grande forza plastica: un mondo di murature potenti e di case dalle piccole finestre: volumi massivi sotto la luce, solidi, stabili, continui. Si scopre, anche, l’altra faccia della classicità, quella delle grandi pareti continue, delle volte, delle cupole, degli archi, delle piattabande. La realtà comincia a scrollarsi di dosso, anche nell’immaginario europeo, l’aristocratico museo delle rappresentazioni letterarie che, sulla scorta dei classici latini e greci, si era sovrapposta al paesaggio mediterraneo.
Si scopre che, anche in architettura, accanto al greco, lingua colta, esiste il parlato quotidiano, il volgare diffuso. Nel Peloponneso, sulle coste della Sicilia, sulle isole dell’Egeo, poteva apparire l’immagine di un tempio (periptero ecc.). Un lampo che rimane impresso nella retina e di cui la memoria, proprio per l’eccezionalità dell’evento, custodisce a lungo il ricordo. Ma accanto alla lingua colta, derivata dalla cultura lignea degli (Achei?) ci si rende conto che il parlato quotidiano era ed è soprattutto plastico e murario.
La Basilica di Massenzio, il Pantheon, (espressioni di una koinè estetica e costruttiva strettamente legata all’Oriente mediterraneo e della quale il mondo di forme bizantino sarà erede e continuatore) ma anche i grandi basamenti in rovina dei santuari di Ercole a Tivoli e quello di Giove a Terracina, piuttosto che la Basilica Ulpia o i templi di Paestum, sono i monumenti che interpretano meglio, in forma aulica, i caratteri di una lingua diffusa che trova un suo esteso elemento costitutivo nelle abitazioni, nell’ edilizia di base che contiene e trasmette la struttura, le regole della lingua stessa.
Una realtà rapidamente comunicata e diffusa dal fiume di stampe alimentato dal Grand Tour che riproducono monumenti inseriti in tessuti urbani fondati sulle preesistenze antiche. Tessuti che si andavano altrettanto rapidamente aggiornando: l’intero paesaggio urbano italiano si andava trasformando con la formazione di quella casa plurifamiliare “in linea” che diverrà il fondamento stesso della città moderna europea.
Un processo dove i tessuti “sostrato”, di formazione antica, la cui eco è riportata nelle tracce della Forma Urbis, costituiscono dunque la base che assicura la continuità della lingua, pur nelle estese trasformazioni e continui aggiornamenti. Tessuti, a loro volta, che partecipano di una più vasta comunità culturale, formati come sono da case unifamiliari (domus), da case plurifamiliari (insulae) originate dalla trasformazione di quei tipi a corte elementare che costituiscono un patrimonio comune protostorico che si estende, in pratica, all’intero bacino del Mediterraneo. Case che nel mondo latino subiscono uno specifico processo di plurifamiliarizzazione (insulizzazione) e specializzazione (tabernizzazione) che dà luogo a tessuti di case a schiera monocellulari e monoaffaccio (pseudoschiere), ancora perfettamente leggibili nella città italiana di origine antica ( a Roma, ad esempio, nelle aree di Tor di Nona, Campo de’Fiori, Trastevere, o in Puglia nei tessuti storici di città come Trani, Bitonto, Altamura) . Ma anche nelle trasformazioni successive (X-XV secolo), permangono caratteri costanti tipici del concetto antico di casa, come l’unità unifamiliare e l’impiego della corte come elemento di distribuzione cui corrisponde, anche, un sincronico aggiornamento dei tipi edilizi con la formazione della casa a schiera bicellulare, con il piano terreno specializzato a bottega. E la casa a corte antica è alla base non solo del processo formativo dei successivi tessuti abitativi, ma anche dell’edilizia più complessa, come i palazzi, che dall’edilizia di base derivano per specializzazione.
Si veda il caso della formazione del palazzo veneziano, uno degli esempi più chiari della vitale continuità nelle trasformazioni della forma della città mediterranea, dove permane un impianto a domus , le cui dimensioni tipiche legano il recinto edilizio al più generale sistema di partizione del suolo nel mondo romano, dimostrando la sostanziale continuità del processo di trasformazione del territorio dal Tardo Antico al Medioevo (la misura base dell’heredium, derivato per frazionamento decimale della centuriatio, origina l’actus, la metà del cui lato costituisce la misura base del fronte del lotto sul quale viene impiantato il recinto della domus). La domus da luogo, infatti, tanto a filoni tipologici specialistici quanto a plurifamiliarizzazioni dequantificandosi in unità di schiera monocellulari (pseudoschiere) mantenendo, tuttavia, i propri principi generatori legati all’uso dello spazio recintato.
Le dimensioni ricorrenti riscontrabili tanto nell’utilizzazione delle terre emerse quanto nella costruzione del suolo artificiale sul quale viene edificata la domus unifamiliare veneziana deriva dalla dimensione canonica di mezzo actus, oppure (fronte di 40 pedes) , direttamente, dal frazionamento dell’heredium in tre parti secondo una direzione (due strigae intervallate da spazio libero) e in sei secondo l’altra, che da origine all’aggregazione ricorrente a margini quadrati sullo spazio comune del “campo”. Schematizzando un processo assai complesso, i lotti di dimensioni maggiori vengono disposti di preferenza col lato lungo a nord in modo da avere il passaggio acqua-terraferma parallelo al lato occupato dalla prima edificazione che si dispone secondo il tipico isorientamento rivolto a sud.
Il percorso interno viene nel tempo coperto dando origine al “portego” (porticato) che geometrizza il percorso e da inizio alla formazione dell’asse, polarizzato ai due estremi dagli ingressi. La successiva edificazione avviene sul lato rivolto a sud, a partire dal percorso esterno a maggiore nodalità, secondo il processo tipico della tabernizzazione con la formazione delle linee dividenti interne complementari all’asse accentrante. Questo spazio interno assume fondamentalmente due ruoli in funzione delle trasformazioni economiche e sociali, già avanzate nel XII secolo, che inducono alla differenziazione del tipo a domus in residenza signorile o palazzo, da una parte, o alla sua suddivisione in abitazioni per le classi a basso reddito, dall’altra. Nel primo caso si forma lo spazio nodale dell’edifico specialistico, la “sala veneta” leggibile anche all’esterno, attraverso la polifora, come spazio in origine aperto, trasparente; nel secondo si forma il percorso interno (calle), asse dell’aggregazione a schiera.
La leggibilità delle facciate che deriva da questo processo, tanto nella casa-fondaco bizantina, che gotica, che nei successivi tipi rinascimentali, rivela immediatamente margini, asse accentrante, spazio nodale, linee dividenti. L’intera polifora viene considerata come limite di uno spazio virtualmente aperto, per cui non deve sorprendere che (carattere comune, peraltro, all’area gotica) l’asse accentrante C possa incontrare, a volte, il pieno di un elemento verticale.
Questo grande flusso vitale che trasforma la città antica italiana nella città moderna attraverso un processo ininterrotto di trasformazioni è testimoniato dalla rifusione delle abitazioni unifamiliare di origine medievale in aggregati plurifamiliari, processo immediatamente leggibile nella forma dei centri storici delle nostre città attraverso la permanenza delle dimensioni delle cellule elementari che determinano la partizione delle facciate e la dimensione dei nuovi corpi di fabbrica, esprimendo la vocazione dei tipi più semplici alla convivenza organica, alla formazione di unità a scala maggiore. Vocazione che, progressivamente acquisita e intenzionalizzata, diviene linguaggio cosciente, in un passaggio assimilabile alla transizione dalla lingua solo parlata alla lingua scritta, permettendo, anche, di acquisire intenzionalmente caratteri imitativi dell’edilizia specialistica.
Alla fine dell’800, alla nozione tradizionale ed accademica di organismo architettonico si va sostituendo una diversa, originale concezione critica dei caratteri degli edifici come portato di un processo in atto, che accoglie la trasformazione indotta dal mutare dei tempi come “incremento”, non sostituzione, di un patrimonio di conoscenze tecniche ancora operanti.
E’ esemplare antecedente di questa fase di fertile incertezza il caso della costruzione del nuovo tessuto della Capitale, quando gli architetti romani(Passerini,Carimini,Carnevali,Azzurri) affrontano il tema dell’edilizia abitativa con lo spirito di chi ancora progetta i grandi monumenti, secondo il ruolo tradizionale dell’architetto che disegna episodi urbani irripetibili. Il progettista di fine secolo ha, in realtà, ancora una stretta consuetudine con il disegno delle emergenze; quando questo ruolo si trasforma egli “… appropriandosi del problema del tessuto – come scrive Caniggia – del connettivo edilizio, delle case, pare che non muti affatto l’immagine che ha di sé. Può affermarsi che, paradossalmente quando progetta case tenda a produrre “altro”: altro e più sublimato prodotto, analogo a ciò che i suoi predecessori avevano per secoli ideato”.
Nei nuovi quartieri, alla struttura rigidamente seriale delle abitazioni plurifamiliari (se si eccettua il frequente decremento dell’altezza del mezzanino) si affianca, favorita dal carattere segnatamente murario della casa in linea romana, una leggibilità da palazzo, gerarchizzata, come accennato, secondo modalità mutuate dagli edifici specialistici. E’ nell’edilizia alto borghese che si sperimenta, invece, un cauto rinnovamento della lingua attraverso sincretismi con forme derivate da sperimentazioni in corso in altre aree europee. Esempi dimostrativi di questa fase di contenuto rinnovamento sono le opere di architetti come Raffaele Canevari,Andrea Busiri Vici, Giulio Magni, soprattutto, che entra in diretto contatto con le diverse versioni nazionali del modernismo europeo: la secessione, lo jugendstil, il liberty. Se nel corso della sua permanenza all’estero, la ricerca di Magni oscilla tra lo storicismo delle opere pubbliche maggiori ed il modernismo delle occasioni professionali private, dai primissimi anni del ‘900, tornato a Roma, confronta la memoria degli esperimenti modernisti, ancora viva, col tradizionalismo del clima locale, del quale coglie gli aspetti meno scontati, quelli turbati dal contatto con le vicende internazionali: nella sua villa Marignoli sono evidenti non solo gli echi del costruttivismo storicista di stampo mitteleuropeo, ma anche del lascito dimenticato dei sincretismi romani di Edmund Street.
E tuttavia, anche negli esperimenti per la borghesia come nelle grandi costruzioni abitative, a cavallo della fine dell’800, permane la sequenza delle fasce di stratificazione architettonica (basamento elevazione, unificazione, conclusione) ormai slegata dalle ragioni costruttive che l’ avevano originate e dalla gerarchizzazione dei piani.
Applicazione tuttavia, non del tutto illegittima perché la facciata nella tradizione plastica e muraria non é mai il portato meccanico, (e nemmeno necessariamente il portato diretto) dell’edificio, ma ne è la sintesi riconoscibile, prodotto di una riflessione sulla capacità dell’architettura di esprimere valori oltre il dato puramente costruttivo e distributivo.
Queste fasce di stratificazione orizzontale permarranno a lungo, almeno per tutti gli anni ’40 del 900, anche nelle opere più aggiornate.
Si veda l’esteso impiego moderno del basamento, derivato dalla soluzione di problemi di stabilità dell’edificio e poi codificato nel processo di tipizzazione degli elementi, che permette di non contraddire l’ordine “naturale” dell’involucro esterno, contro le soluzioni oppositive impiegate nell’ “attacco a terra” delle opere della produzione internazionale.
O le soluzioni dell’ elevazione, dove il legame tra dato tettonico ed espressione dell’edificio rimane sempre solidale e leggibile anche attraverso l’esteso uso del rivestimento,
Come pure mostra una grande permanenza la fascia di unificazione (spesso assorbita nei volumi puri della produzione moderna mitteleuropea), che nell’organismo tradizionale ha origine strutturale, quale orizzontamento e legame generale dell’edificio, allo stesso modo della trabeazione nell’ordine classico e la conclusione, la cui negazione è uno dei cavalli di battaglia del movimento moderno.
La transizione ai tessuti della città moderna avviene dunque attraverso un organico processo di aggregazione delle unità di schiera iniziato nei quartieri romani più antichi di Trastevere, Ponte, Colonna, dove è ancora riconoscibile, attraverso la trasformazione e unificazione delle facciate, traccia indelebile di continuità, la permanenza delle coppie di bucature trasmessa dalle unità monofamiliari, fino ad arrivare alla parete ritmica delle case in linea della prima metà del ‘900, dove sopravvivono le regole compositive dell’edilizia specialistica ereditata.
Tipi edilizi e tessuti ancora capaci di indicare regole di formazione e trasformazione a tutt’ oggi operanti, la cui comprensione , sia detto per inciso, è indispensabile non solo e non tanto per gli interventi sul patrimonio storico, quanto per la costruzione, una volta riconosciute le innovazioni e gli aggiornamenti pertinenti alla fase storica che stiamo attraversando, di una nuova, possibile organicità della città futura.
Permane, in altre parole, nell’area romana, contrapposto al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina, sostituibili da prodotti più aggiornati il senso della durata dell’architettura, nei due significati : in senso storico, come individuazione di un processo di trasformazioni continuo (ereditato e trasmissibile); in senso fisico, come resistenza alle aggressioni degli agenti atmosferici e del passaggio del tempo (l’edifico è rivestito completamente in solido travertino che nasconde e protegge la struttura in calcestruzzo).
Durata contrapposta al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina. Si pensi, per capire la specificità di caratteri nell’architettura romana del periodo, che venivano costruiti in Olanda, negli stessi anni , ad esempio, progetti di architetti come Duiker o Brinkman, dove il riferimento alla macchina era evidente attraverso l’uso di tecnologie metalliche spesso imitative di quelle meccaniche, in particolare navali.
Jacques Herzog e Pierre de Meuron, cantine Dominus, Napa Valley, California, 1996-98
Jacques Herzog e Pierre de Meuron. Villa a Tavole, Imperia, 1983