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LA POLEMICA SUL RESTAURO DI PONTE SISTO

La storia infinita dell'”arco di ferro” – l’agonia di ponte Sisto,

di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del 13-14 settembre 1992.

Quando nel 1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di ponte Sisto, forse  non fu nemmeno sfiorato dal sospetto  che stava operando nel corpo vivo della storia. Preso nel  vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, celava probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come altri tecnici ed amministratori  peraltro, un pregiudizio ingenuamente livoroso quanto incoffessabile: che molti dei monumenti antichi  non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti  dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio,  fossero semplicemente ormai inadatti, per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque  e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente  del traffico. E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.

Tanto che Antonio  Canevari, rappresentante  della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.

Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali, con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di  aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando  due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro  poggiata  sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di  Trastevere.

Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui   banale rigore viene concluso dalla decorazione di  un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica, disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.

Il progetto fu senz’altro  approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’ opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace della costruzione di un  nuovo ponte  nel rione Regola. Le nuove  opere furono così appaltate durante le festività  natalizie  dello stesso anno, rapidamente realizzate e  decorosamente  illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.

La brutale sovrapposizione  del moderno all’antico aveva generato un  ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario   monumento che racchiudeva  l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava  significati e messaggi  lasciando supporre, sotto la leggerezza  del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli,  le ricostruzioni in  successione infinita. Il segno  inequivocabile ed estraneo  della nuova Roma  si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari,  alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni,  da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la  solennità delle  magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.

Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano  lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale  il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva  il centro del ponte.

Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava  due mondi diversi,Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva: era divenuto  col tempo  un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte  di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe in modo intensamente distaccato della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti  .

Nel ’31   le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che  la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il  rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.

La leggittimità  delle sovrastrutture metalliche venne  di nuovo messa  in discussione negli anni ’60 quando,   credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo  con bancarelle più o meno  stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò  l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità  di conservare o meno  le sovrastrutture metalliche  che, se  nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano ,  facevano  anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .

La polemica non fu risolta  dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole  che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte,  redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima  degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale  fece  mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale ,  i resti  delle strutture ottocentesche furono  pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone  di Testaccio.

Così anche oggi il ponte continua a mantenere  il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento  del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in  un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della   città anche se  nel cuore del suo centro antico.

E mentre  la  Commissione Comunale per Ponte Sisto  si é espressa, dopo otto anni di studi,  a favore del  restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga  ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

Opinione di Gaetano Miarelli Mariani

Al prof. Gaetano Miarelli Mariani, docente universitario e direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro  che ha guidato il gruppo dei progettisti del restauro di ponte Sisto, abbiamo chiesto quali criteri hanno informato il progetto.

“Quando abbiamo cominciato a studiare il ponte – dice Miarelli Mariani – nessuno aveva intenzione di rimuovere le strutture in ferro. Abbiamo però cambiato opinione constatando che esse non erano più in condizione di reggere. La polemica che ne è seguita è spesso stata alimentata, in mala fede, senza conoscere il risultato  degli studi condotti trave per trave, che dimostrano  il degrado irreversibile delle strutture ottocentesche . Io sostengo che piuttosto che rifare le opere in ferro (che  dovrebbero essere adeguate alle  normative attuali e quindi anche   diverse dalle originali )  si dovrebbe  costruire un parapetto moderno: sono convinto che noi non  possiamo rifare un falso, una  struttura in stile.

Dal  punto di vista del metodo tengo a precisare  noi non abbiamo mai parlato di semplice “ripristino” delle opere quattrocentesche . Avevamo anzi proposto, provocatoriamente,  un parapetto in calcestruzzo prefabbricato per far capire che l’ intervento doveva essere moderno. Il problema restava, ovviamente,  da approfondire. Tolto il ferro si è scoperto poi che esiste ancora tutta la base e resti non insignificanti del parapetto quattrocentesco. Si tratterebbe dunque ora  di reintegrarlo.”            G.S.

Opinione di  Paolo Portoghesi

Al prof. Paolo Portoghesi, docente di Storia dell’Architettura e profondo conoscitore  di Roma, abbiamo chiesto un parere sulle demolizioni delle strutture in ferro di ponte Sisto.

“Credo che sarebbe opportuno rimuovere tutte le strutture ottocentesche del ponte e conservarle in altro luogo – afferma Portoghesi- perchè sono essenzialmente un elemento di disturbo e  nascondono la fruizione dell’oggetto . Queste aggiunte alle strutture antiche  sono forse cose di un certo sapore  ma fanno parte della cronaca, come un’edicola di giornali o un lampione : possono al massimo commuovere i cultori di Roma sparita, mentre ponte Sisto è uno dei monumenti romani più significativi .

Rimontare poi ora la parte di  strutture già tolte sarebbe un’offesa alla ragione e all’economia. Se ci sono delle risorse utilizziamole per salvare qualche monumento importante che sta crollando piuttosto  che ripristinare  documenti di una necessità storica transeunte. Se per caso avessero messo delle gronde di ghisa sulla facciata di San Carlino credo che nessuno avrebbe dubbi a toglierle.  Un atteggiamento che io condanno è quello di rinunciare a giudicare, di conservare ad ogni costo: è il tradimento peggiore che si possa fare nei confronti di chi ha costruito. Se oggi noi difendiamo  l’ambiente è perché alla fine del secolo scorso a Vienna è stata fondata una scuola di storia dell’arte che ha diffuso una sensibilità per i valori ambientali . Utilizzare questa sensibilità per omologare tutto e rinunciare al giudizio è un errore .

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RIAPERTURA DI PONTE SISTO

Miracolo a Ponte Sisto

in “La Repubblica” del 27.07.1997

di Giuseppe Strappa

Se fosse apparsa la Madonna le facce non sarebbero state meno stupite. La piccola folla che, anticipando l’apertura ufficiale, si era riunita ieri sul “nuovo” Ponte Sisto, osservava come un’apparizione l’acqua lenta che scorreva sui due lati delle vecchie arcate, i mulinelli che investivano,pigri , le pile di pietra. Erano diciotto anni che attendevano questo momento. Da quando il ponte quattrocentesco era stato segregato da una parete continua di lamiere “provvisorie” collocate per “indagini conoscitive”, ridotto ad un luogo inospitale, da attraversare in fretta: un pezzo di Bronx arenato nel cuore vivo di Roma.

Diciotto anni: una generazione. Eppure sono bastati due mesi di lavori e centociquanta milioni di lire per restituire, almeno, dignità (in attesa della sistemazione definitiva) ad uno dei ponti più belli di Roma.Tra i tanti fattacci che i monumenti romani potrebbero raccontare, la storia di Ponte Sisto è una delle più assurde e vergognose.  Comincia nel 1876, quando Angelo Vescovali, tecnico comunale immerso nel turbine dei lavori postunitari, pose mano all’ampliamento del ponte avendo in mente, con logica burocratica, due soli problemi: il flusso delle acque da regolamentare e il flusso crescente del traffico da assecondare ampliando la carreggiata. Per risolvere quest’ultimo furono collocati due nuovi marciapiedi a sbalzo retti da strutture in ferro, il cui banale rigore si pensò di mascherare con rivestimenti modanati in ghisa. Ma anche la sezione ampliata della carreggiata divenne troppo modesta per il traffico delle automobili e nel 1931, Marcello Piacentini riceveva l’approvazione del progetto di ampliamento: una nuova carreggiata di 16 metri ottenuta rimuovendo le strutture metalliche e affiancando un nuovo ponte all’antico, da rivestire con il paramento quattrocentesco, smontato e riposizionato.  Fortunatamente, nonostante l’appoggio di  Munoz, massima autorità del tempo nel campo del restauro, non se ne fece nulla.

Ma furono i rivestimenti di ghisa a segnare la condanna delle travi ottocentesche: le pesanti decorazioni sovrapposte ne avevano impedito la  manutenzione e quando nel ’75 un gruppo di storici guidati dal prof. Miarelli Mariani condusse un’accurata analisi del ponte, ci si accorse, quasi per caso, che le travi in ferro erano marcite. Ma nulla si mosse fino ai fatidici Mondiali di calcio del’90, quando una squadra di operai resa disponibile dalla sospensione dei lavori all’Olimpico, fu incaricata di rimuovere le “ali” ottocentesche. Da allora caroselli di Esperti, Studiosi, Consulenti, si sono avvicendati al capezzale del ponte, dividendosi in Scuole di pensiero, riunendosi in Commissioni, scontrandosi con furore su questioni teoriche. Senza arrivare ad alcuna conclusione. Se il soprintendente Ruggeri si era espresso, peraltro, a favore della  rimozione delle strutture metalliche, nel ’92 il successore Zurli esprimeva parere diametralmente opposto.

Ma oggi, mentre la polemica sulla sistemazione definitiva è ancora arenata sulla questione se rimontare  le strutture metalliche o restaurare tout court il ponte quattrocentesco, avanza una terza ipotesi. Poiché sembra impossibile utilizzare le vecchie travi depositate in un capannone di Testaccio e il disegno originale di Baccio Pontelli risulterebbe ora estraneo alle quote ed all’immagine dei lungotevere umbertini, perché non progettare una struttura metallica completamente nuova, tecnologicamente avanzata, trasparente e leggera come un guizzo che si accosti alle strutture antiche, filologicamente restaurate, senza toccarle? Ne è convinto Maurizio Cagnoni, direttore dell’Ufficio Progetti Città Storica e protagonista del blitz della riapertura del ponte, che propone un grande concorso internazionale che riporti la città nel contesto della ricerca architettonica europea.  La decisione definitiva verrà presa, per decreto del ministro Veltroni, da una nuova commissione di esperti. Comunque vada, speriamo sia l’ultima.

Il museo dimenticato. Il destino dell’Ufficio Geologico

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di G.Strappa, in «Corriere della Sera» del 15  aprile 2013

di Giuseppe Strappa

L’ingegner Raffaele Canevari era un entusiasta per carattere. Da studente, nel 1849, aveva partecipato alla furiosa difesa di Roma dalle truppe francesi. Con altrettanta passione si era poi gettato nello studio delle costruzioni metalliche che in quegli anni facevano irruzione nella sonnolenta città di Pio IX. Voleva che Roma partecipasse al progresso delle grandi metropoli europee, allo spirito innovatore delle Halles parigine, del Crystal Palace londinese. Realizzava, tra l’ammirazione dei concittadini, ferrovie e ponti sospesi. Poi, appena trasportata la Capitale a Roma, costruì il nuovo Ufficio geologico voluto da Quintino Sella. Fu il suo capolavoro. Soprattutto per la facciata posteriore su largo Santa Susanna, dove si svolge la trama leggera del telaio chiuso da grandi vetrate che sembrano anticipare i temi dell’architettura moderna. E per l’interno, dove i solai, sorretti da esili colonne in ghisa, si avvolgono leggeri intorno allo spazio centrale. L’Ufficio, con le sue eccezionali collezioni di pietre antiche, campioni geologici e paleontologici provenienti dall’intero territorio italiano, divenne uno dei simboli del nuovo Stato unitario.

Nel 1994 si decise di ristrutturarlo.  Si parlava, in quegli anni, di giacimenti culturali, secondo un’orrenda definizione di Gianni De Michelis, e di come il patrimonio pubblico dovesse produrre reddito. Quale occasione migliore? A due passi dalla Stazione Termini, l’edificio poteva diventare una grande attrazione turistica, con le collezioni di pietre antiche capaci di trasmettere il pathos delle costruzioni romane (a partire dalle mura serviane, appena scoperte nel suo sottosuolo), e l’esposizione dei marmi che hanno dato vita alla statuaria e ai sontuosi rivestimenti dell’età imperiale.

Sarebbe bastato integrare con intelligenza le vecchie collezioni di alabastri, brecce, graniti, raccolte dal generale Pescetto, con alcuni dei volti marmorei di consoli, matrone, bassorilievi funerari dei depositi capitolini, per evocare straordinarie storie di metamorfosi. Con molto meno a Parigi il Museo di storia naturale, ottenuto riordinando in modo contemporaneo vecchie collezioni, richiama fiumi di visitatori.

Invece la ristrutturazione non è mai stata completata, le raccolte sono state allontanate, e il reddito, misero, è arrivato dalla vendita dell’edificio alla Fintecna.  Ancora oggi, dopo quasi vent’anni di chiacchiere, e benché le collezioni siano state faticosamente rimesse insieme, non si sa quale sarà il suo destino. Si sta perdendo, così (nonostante il vincolo architettonico, quello archeologico, le denunce di Italia Nostra) l’occasione per creare un fondamentale Museo di scienze della terra che spieghi i grandi cicli di trasformazione della materia in architettura e come il territorio sia il grande alveo che li accoglie, dove la mano dell’uomo ha prodotto opere sorprendenti, ma anche catastrofi epocali.

Proprio quando l’attenzione all’emergenza geologica del nostro fragile territorio dovrebbe entrare a far parte della coscienza comune, essere trasmessa nelle scuole, si cancella uno degli strumenti che potrebbero comunicarne importanza e valore. Per questo disastrato Paese non è un buon segno.

EDILIZIA DI BASE E TESSUTI

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Rilievo dei piani terra nell’area di piazza di Palazzo Altieri a Roma

1. EDILIZIA DI BASE

prof. Giuseppe Strappa

Nell’ambito della lettura della realtà costruita, la nozione di tessuto è tra le più complesse. Essa esprime la solidarietà tra percorso e unità abitative che si aggregano a formare organismi di grado superiore. Il tipo di unità abitativa che è all’origine della gran parte dei processi formativi dei tessuti delle città italiane sviluppatisi a partire dal XIII-XIV secolo è soprattutto la casa a schiera, declinata in diverse varianti areali in tutta la penisola, dai tipi veneti che traducono in muratura organismi edilizi originati da matrici lignee, agli esempi segnatamente plastici dell’Italia cento-meridionale. Questo tipo di abitazione, che esprime la predisposizione dell’organismo edilizio singolo alla solidarietà urbana e all’aggregazione, e quindi alla formazione delle strutture fisiche della civiltà urbana, risulta notevolmente costante, e con costanza individuabile nel processo delle sue trasformazioni, all’interno delle diverse aree culturali, sia nel tipo bicellulare che (cui si farà soprattutto riferimento nel seguito), che in quello monocellulare derivato dal consumo della casa a corte (pseudoschiera). L’edilizia a schiera del XIII-XIV si struttura su una forma organica di utilizzazione del suolo che ha caratteri riconoscibili: la costruzione avviene occupando un lotto di terreno rettangolare affacciante su percorso nel lato corto, dove la forma rettangolare del lotto risponde a criteri economici. La parte più pregiata del terreno è infatti la parte che affaccia su strada, quella sulla quale saranno rivolti gli ingressi, le botteghe, le facciate delle case. Il frazionamento del terreno deve quindi mettere a profitto il fronte stradale, secondo norme e convenzioni che traducono esigenze spontaneamente radicate e, nel tempo, divenute norma. La ripartizione del terreno che ne deriva produce lotti di spessore pressoché costante e di profondità variabile.
Lo spessore costante dei lotti e, quindi, delle abitazioni, si spiega con la forza delle consuetudini, le quali corrispondono alle necessità unitariamente costruttive, economiche e distributive della casa. In altri termini è già in qualche modo previsto, nella mente di chi fraziona il terreno, uno stretto vincolo che lega insieme utilizzo del suolo, tipo abitativo e tipo di aggregazione (tessuto) che verrà individuato attraverso l’atto costruttivo: si possiede in modo quasi inconscio la cognizione dell’esito edilizio possibile. Il rapporto tra organismo urbano che deriverà da questo frazionamento, e tipo edilizio adottato in società in equilibrio è intimamente legato da regole imposte dall’uso e spontaneamente accettate.
Nella costruzione una parte del terreno verrà utilizzata per l’abitazione mentre un’area di pertinenza verrà lasciata libera ed inizialmente utilizzata ad orto. Lo spessore, la profondità del costruito, può variare entro limiti ristretti, perché le necessità e le capacità dell’abitante sono simili per tutte le costruzioni. Lo spessore del lotto, e quindi quello dell’abitazione che per motivi economici sfrutterà per intero il lato che affaccia sul percorso, dopo una fase iniziale in cui tra le diverse abitazioni viene lasciato uno spazio minimo per il deflusso delle acque (ambitus), coincide con lo spessore dell’unità costruita, dando origine alla “casa a schiera”. Esso coincide, anche, con le misure necessarie alla distribuzione delle funzioni: vani utilizzabili (spesso, nei tipi maturi, due per piano, dei quali uno con fronte su strada e l’altro sull’area di pertinenza); scale per il piano superiore (come le attività economiche verrano distribuite dove lo spazio è più prezioso, all’interno, dove lo spazio è meno prezioso, viene collocata la scala, elemento puramente distributivo); accesso dalla strada ai vani dell’abitazione ed all’area di pertinenza, attraverso un percorso interno che si può collocare indifferentemente su l’uno o l’altro dei lati della casa, spesso in corrispondenza di un’apertura specializzata nella parete su percorso. Si potrebbe teoricamente ritenere, solo in prima approssimazione, che la serie delle unità di schiera possa continuare all’infinito: si tratta di una struttura, come si è detto, seriale, e non esistendo un rapporto di necessità tra ognuna delle unità, se non l’adiacenza di due pareti murarie, al variare del loro numero nulla cambia nel carattere della struttura e del tipo edilizio. Le abitazioni vengono distribuite specializzando nel tempo (operando cioè mutazioni diacroniche del tipo matrice attraverso un progressivo adattamento alle trasformazioni delle necessità degli abitanti) al loro interno i vani, cominciando col massimizzare l’utilizzazione economica del piano terreno, e destinando il vano su strada a bottega: la società è ancora tendenzialmente omogenea e tutte le attività si svolgono nello stesso luogo (la città non ha ancora specializzato le proprie parti in produttive, commerciali ed abitative). Abitazione, produzione e commercio si svolgono unitariamente all’interno della stessa costruzione e molto spesso la bottega è, allo stesso tempo, luogo di produzione e di scambio.
L’ aggregazione degli elementi edilizi in strutture orizzontali e verticali concorre unitariamente alla definizione del tipo. La dimensione della luce della trave che dovrà coprire la campata libera tra muri ortogonali al percorso è pressoché costante, stabilita da consuetudini edilizie che rispecchiano, allo stesso tempo:

le necessità geometriche del vano abitabile ereditate da antecedenti elementari;
le capacità tecniche del costruttore relative all’area culturale di pertinenza;

le specifiche forme di individuazione di materiali nelle materie disponibili nel luogo. Dunque lo spessore del lotto necessario alla distribuzione coincide con la dimensione utile alla costruzione e varia nel tempo e nei diversi luoghi aggirandosi però sempre intorno ai 4/6 metri. Le murature che vengono costruite hanno una dimensione derivata dalla tradizione costruttiva, che è parte integrante del processo di formazione del tipo. Dovendo le murature sopportare un carico maggiore al piano terreno che a quello  superiore, il loro spessore risulta spesso variabile da un piano all’altro in funzione delle diverse sollecitazioni, dipendendo anch’esso dalle tecniche edilizie invalse in quell’area e in quel determinato arco temporale, e dai materiali disponibili. Una muratura in pietra fragile avrà uno spessore maggiore di una muratura di materiale resistente (in calcare compatto, ad esempio, o mattoni): il costruttore ha una cognizione spontanea del variare delle sollecitazioni, acquisita attraverso l’esperienza e la tradizione . Sa anche che, secondo una tecnica affinata attraverso miglioramenti successivi, l’occasione di diminuire lo spessore della muratura in corrispondenza del solaio (punto singolare che coincide, come vedremo, con uno dei nodi della costruzione), dove variano i carichi, costituisce un utile appoggio per le travi che reggono l’impalcato del solaio. Altre volte, quando la muratura è a sezione costante nei diversi piani, vengono messe in opera mensole sostenenti le travi perimetrali sulle quali disporre l’impalcato. Ma in genere la casa a schiera risulta riferibile a caratteri fortemente specifici del tipo, pur nella estrema diversificazione delle individuazioni areali, come risultato di condizioni di equilibrio “necessarie” tra componenti diverse.

 

Col termine edilizia di base si intende la parte di costruito destinata all’abitazione. L’abitazione è infatti la prima e fondamentale forma di spazio edificato della quale, nel tempo, l’uomo conserva la nozione più spontanea. L’edilizia di base si sviluppa a partire dal primo spazio aggregabile prodotto, la cellula elementare a base quadrangolare di 5-6 metri di lato, consolidatasi nell’uso. L’abitazione originaria costruita (non quindi “incontrata” come poteva accadere per il rifugio) è costituita da un vano nel quale è possibile svolgere per intero e contemporaneamente le funzioni legate alla vita domestica. Queste dimensioni entrano a far parte, nelle aree culturali più diverse e distanti, della coscienza spontanea del costruttore e sono, nel tempo, riscontrabili anche nelle misure del vano-base ricorrente in forme abitative o specialistiche più complesse, ottenute per moltiplicazione della cellula elementare. Le ragioni delle dimensioni della cellula elementare sono antropologiche, perché l’uomo non riesce a vivere in una dimensione minore, se non in ripari e rifugi nei quali non sono possibili che forme embrionali di vita domestica, ma anche tecnico-costruttive, legate all’uso di materiali che si adattano, pur non determinandole meccanicamente, alle dimensioni tipiche, alla statica delle pareti murarie che chiudono lo spazio abitato, delle travi che debbono coprirne la luce. Che le tecniche edilizie siano state finalizzate allo spazio della cellula elementare e non viceversa è dimostrato dalla costanza delle dimensioni in aree di diversissima cultura materiale: da quelle lignee a quelle murarie fino alle aree nelle quali l’abitazione è stata scavata nella roccia, dove (si veda il caso delle abitazioni trogloditiche di di Peschici e Monte Sant’Angelo in Puglia, e quelle, notissime, di Matera in Basilicata) le dimensioni non variano per volumi interamente scavati, parzialmente scavati, totalmente esterni. L’edilizia di base si articola, nei suoi termini logico-processuali, nell’aggregazione di cellule elementari costituenti:
abitazione unifamiliare isolata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare e costituita da sistemi (statico costruttivo, distributivo, leggibilità) autosufficienti e indipendenti a partire dalle fondazioni fino alla copertura. La casa unifamiliare isolata non è aggregabile.
abitazione unifamiliare aggregata, distribuita direttamente su percorso attraverso accesso indipendente, utilizzata da un solo nucleo familiare, ma con sistema statico-costruttivo non indipendente, avente elementi o strutture di elementi in comune con le abitazioni adiacenti in modo tale da concorrere, per aggregazione, a formare organismi a scala maggiore, la cui unità aggregativa è l’alloggio su uno o più piani costituito, in genere, da abitazioni a schiera;
abitazione plurifamiliare in linea, processualmente derivata dalla rifusione di abitazioni unifamiliari aggregate e utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di comuni sistemi di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.), oltre che comuni sistemi statico-costruttivi, e quindi con alloggi non indipendenti rispetto all’accesso dal percorso. La casa in linea è costituita da uno o più corpiscala aggregati linearmente che costituiscono un unico edificio seriale. Si definisce “corposcala” la struttura costituita dal vano scala e dagli alloggi che da esso sono distribuiti. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.
abitazione plurifamiliare isolata, processualmente derivata dall’abitazione in linea, utilizzata da due o più nuclei familiari che si servono di un comune sistema di distribuzione (scale, ballatoi, ascensori ecc.) e quindi con alloggi non indipendenti. L’abitazione plurifamiliare isolata è costituita da un solo corposcala e non è aggregabile. L’unità aggregativa interna è l’alloggio costituito dall’appartamento su un piano.

2. TESSUTO COME FORMA TIPICA DI AGGREGAZIONE

Da quanto accennato deriva come sia inevitabile il rapporto di congruenza che deve necessariamente instaurarsi tra tipo di abitazione e forme di aggregazione delle abitazioni stesse, e come un ruolo fondamentale sia svolto, in questo senso, dalla presenza dei percorsi che distribuiscono e orientano le unità abitative, determinandone, anche, le varianti tipologiche.
Nelle aree dove l’uso del suolo è più intenso e la progressiva pressione demografica induce ad uno sfruttamento intensivo della superficie del terreno, il tipo abitativo, sempre basato sulla cellula elementare, si deve adeguare alle necessità di relazione diretta tra le singole unità.

Case a schiera in via Santa Maria del Pianto a Roma

L’associazione di singole unità abitative tra loro a formare unità di scala superiore si sviluppa secondo leggi proprie, variabili nello spazio e nel tempo, tanto che si può parlare di tessuti intesi come tipi di aggregazione. Risulta chiaro che possiamo parlare soprattutto di tessuti, per quanto riguarda l’edilizia abitativa, costituiti da tipi congruenti con la nozione di aggregabilità: la casa a schiera è un organismo edilizio aperto che ha bisogno, per essere completato, dell’inserimento nell’ aggregato urbano, mentre possiamo parlare meno frequentemente di tessuti per l’edilizia specialistica, i cui tipi hanno una loro compiutezza (caso estremo i tipi polari, ad impianto centrale) e quindi una minore disponibilità all’aggregazione.

Alla formazione del tipo di aggregazione concorrono le forme di perimetrazione e utilizzazione del territorio, relazionate unitariamente ai tipi edilizi vigenti ed ai materiali impiegati.
Il processo di mutazione dall’unità all’aggregazione, non costituisce uno svolgimento lineare di tipo evoluzionista, ma l’intersezione di conquiste, ritorni, riprese di sviluppo: la casa pluricellulare nasce qualitativamente, essa stessa, come aggregazione di cellule elementari organizzate in base alla coscienza del tipo, non come semplice successione cronologica di addizioni (successione riscontrabile solo in intorni temporali ristretti) come dimostrano le abitazioni delle civiltà preurbane, spesso costituite dalla fusione di elementi unicellulari perfettamente individuabili anche nelle strutture complesse.
La prima e più semplice forma di aggregazione, successiva alla disposizione di unità edilizie autonome su percorso, è costituita dall’unione a schiera di unità abitative a struttura non indipendente, con porzioni dell’involucro esterno (spesso le due pareti murarie ortogonali all’affaccio su strada) in comune con le unità adiacenti. La nuova scala edilizia che ne deriva (quella dell’aggregato edilizio) è relativa ad un organismo (organismo aggregativo) di scala superiore all’abitazione elementare, che può essere ora riguardata come semplice elemento di schiera, di passo unicellulare.
La scala dell’aggregato costituisce il momento di passaggio tra edificio e città. Da questa considerazione deriva una possibile schematizzazione generale delle diverse scale di formazione degli organismi che costituiscono il territorio antropizzato:

organismo edilizio;
organismo aggregativo;
organismo urbano;
organismo territoriale.

La forma di costruzione preaggregativa precedente la formazione della schiera è costituita dalla ripetizione delle unità edilizie lungo il percorso, separate da un ridottissimo distacco, ambitus, necessario al deflusso delle acque dalle coperture, organizzate con le linee di displuvio parallele al percorso ed i colmi ad esso ortogonali. Sebbene in alcune aree le falde conservino a lungo, anche dopo la formazione della serie, la disposizione delle unità isolate, presto la linea di colmo si dispone parallelamente al percorso (soprattutto in aree plastico-murarie) legando le singole unità in rapporto di maggiore organicità.

 

Le forme più elementari di schiera ripetono le abitazioni monocellulari adiacenti una all’altra attraverso un muro comune ortogonale al percorso di affaccio.
In Puglia e in Basilicata esistono esemplari forme aggregative originate da tipi elementari: a Matera i lamioni sono costituiti da vani monocellulari, non sempre regolari, con copertura a botte ortogonale al percorso, che formano l’aggregato semplicemente per ripetizione, iniziando a costituire un embrione di organismo urbano; la fase definibile “successiva” per via logica è il tipo a due piani, che in sezione presenta vani indipendenti distribuiti su ambedue i percorsi a livello superiore e inferiore.
Esempio analogo, ma di progressiva complessità, è costituito dalle case ad alloggi sovrapposti, servite da scale indipendenti che collegano lo spazio esterno all’alloggio senza mediazioni (dato che consente di parlare ancora di abitazioni unifamiliari), come è riscontrabile in diverse aree europee, dagli esempi embrionali di aggregati abitativi direttamente uniti al percorso di Procida, ai tipi olandesi tradizionali utilizzati anche dall’edilizia moderna e contemporanea. Normalmente il raddoppio della cellula elementare, nell’ambito della stessa unità edilizia avviene in profondità, ad occupare la parte di area di pertinenza immediatamente adiacente alla cellula su percorso, e in verticale, mantenendo sempre, comunque, la dimensione monocellulare dell’affaccio su strada, che costituirà la dimensione base leggibile nella formazione del tessuto della città anche in fasi di rifusioni e plurifamiliarizzazioni. Con la formazione del piano superiore, parallelamente a quanto avviene per la casa unifamiliare, le cellule si specializzano a formare lo spazio per la bottega e quello superiore per l’abitazione propriamente detta. Il piano superiore, inizialmente servito da scala esterna (profferlo) viene raggiunto nei tipi successivi da scala interna servita da un’apertura specializzata e distinta da quella della bottega, rendendo leggibile all’esterno la specializzazione interna.

Lo sviluppo della casa a schiera avviene dunque per raddoppi di cellule, con progressiva specializzazione dei vani : al piano terra, oltre la bottega (o atrio), il vano scala, il passaggio all’area di pertinenza, il magazzino, e al piano superiore l’abitazione propriamente detta, che aumenta il grado di specializzazione con la progressiva moltiplicazione verticale delle cellule e la distinzione della zona giorno dalla zona notte. La posizione della scala varia in funzione della specializzazione del piano terreno:
– nella casa a bottega la scala si dispone in genere ortogonalmente alla strada, in diretta corrispondenza dell’ingresso, in modo da separare nettamente i vani specializzati dai vani abitativi attraverso il muro che si rende necessario per sostenere le travi di solaio tessute parallelamente alla strada;
– nella casa ad atrio, ad uso completamente abitativo, la scala si dispone di preferenza parallelamente alla strada, nel fondo del vano, con le prime alzate sul lato opposto all’ingresso, in modo da avere altezza sufficiente da permettere il passaggio diretto dall’accesso al vano posteriore ed all’area di pertinenza.
Naturalmente, oltre a queste soluzioni tipiche e generalizzate, esistono molte altre possibili dislocazioni della scala dovute a componenti areali o alla presenza di tipi-sostrato, come nel caso della scala esterna che occupa l’area di pertinenza nelle “corti-schiera” fiorentine originate dal consumo della domus.
La leggibilità è, nelle fasi spontanee di formazione delle unità di schiera, direttamente dettata dalla dimensione e posizione delle aperture, con la specializzazione indicata spesso all’esterno dalla porta con bancale per esposizione delle botteghe al piano terreno, e apertura di minori dimensioni per l’accesso alle scale ed all’area di pertinenza, e inoltre dall’uso di marcapiani e marcadavanzali e, in generale, dai nodi tettonici che indicano il diverso carattere (elastico-ligneo o plastico-murario) dei tipi pertinenti ad aree diverse.

3. GERARCHIZZAZIONE DEI PERCORSI

Da quanto esposto risulta chiaro come l’ambiente costruito possa essere solo strumentalmente ed in prima approssimazione studiato per parti: come gli edifici non possano essere considerati autonomamente, ma concorrano alla formazione di unità a scala maggiore che ne condizionano i caratteri. I concetti che abbiamo espresso per i tipi edilizi sono in qualche modo estendibili anche ai tessuti urbani: si intende per tessuto la somma dei caratteri, processualmente determinati, che contraddistinguono la formazione di un aggregato edilizio. In altre parole, la nozione di tessuto sta a quella di aggregato come la nozione di tipo sta a quella di edificio. Un tessuto edilizio è dunque contraddistinto da una legge riconoscibile, iterativa e individuabile. Da questo punto di vista potremmo parlare di organismi edilizi che si compongono a formare organismi a scala superiore: l’organismo urbano, per poi riconoscere che tra questi due estremi di scala esiste un salto logico (che è anche anche un salto storico-processuale), nel senso che il passaggio tra l’edificio e la città avviene attraverso leggi aggregative che formano (individuano) parti di organismo urbano riconoscibili. L’organismo aggregativo rappresenta dunque il passaggio di scala fondamentale che fornisce la misura di come la città sia, essa stessa, il risultato di un processo di successivi incrementi storicamente individuato.Il percorso originario, dal quale l’aggregato prende inizio, è la traccia visibile di un attraversamento che unisce due punti del territorio particolarmente rilevanti, detti poli. Nella realtà costruita sono riscontrabili quattro tipi principali di percorso che corrispondono ad altrettante fasi di sviluppo e trasformazione degli aggregati urbani:

 

–  Percorso matrice, che esiste prima che intervenga la costruzione. Dunque l’edilizia su percorso matrice corrisponde alla prima fase di edificazione ed è l’edilizia più antica, su lotti in genere meno regolari di quelli successivi, perché l’atto costruttivo non obbedisce ancora a convenzioni istituzionalizzate (esiste una “coscienza spontanea della norma”, alla quale nel tempo si sostituisce una “coscienza critica e istituzionalizzata della norma”) e, allo stesso tempo, il valore del suolo permette ancora estensioni dei lotti spontaneamente adeguate alle necessità edilizie più che condizionate dal loro valore di mercato, come avviene invece in fasi successive dove, in alcuni casi, si formano veri e propri regolamenti edilizi, indicati negli statuti dei comuni.
Percorsi di impianto edilizio, cronologicamente successivi e gerarchicamente subordinati al primo, sono tracciati in funzione dell’edificazione in profondità. Col progressivo allontanamento dal polo, il valore del terreno sul percorso diminuisce rispetto a quello retrostante la prima fascia di edificazione. Per motivi di carattere economico-funzionale è intuibile come, dopo la prima edificazione su percorso matrice, l’aggregato tenda ad utilizzare la fascia retrostante, piuttosto che continuare un’espansione lineare che virtualmente occuperebbe l’intero percorso, con evidente perdita di significato delle nozioni di nodo e polo. Questa seconda fase di edificazione, in generale, avviene orientando percorsi ortogonali al percorso matrice, distanti tra loro la profondità di due dei nuovi lotti. All’intersezione tra percorso matrice e percorso di impianto si formano inevitabilmente, data la possibile duplicità di affaccio dell’edificio d’angolo e, soprattutto, la necessità di sfruttare la relativa area di pertinenza con affaccio su percorso di impianto, varianti sincroniche del tipo base dette varianti di intasamento.
Percorsi di collegamento che uniscono tra loro i percorsi di impianto edilizio. Tali percorsi si possono formare soprattutto in due modi:

– per soppressione delle abitazioni insistenti su due lotti contigui ortogonali al percorso di impianto (una sorta di percorso di ristrutturazione, come vedremo, a scala limitata). In questo caso l’intervento è riconoscibile per il parallelismo dei lotti sul nuovo percorso e la sincronicità delle costruzioni relative.
– per costruzione intenzionale di un nuovo percorso nella fase successiva di espansione, seguente la formazione ed il completamento dell’isolato. In questo caso la programmazione è riconoscibile per essere i nuovi lotti orientati ortogonalmente al nuovo percorso (la tendenza è sempre a massimizzare l’affaccio su percorso), e, spesso, per la diacronicità del costruito nelle due fasi successive di costruzione sui due lati del percorso.
Percorsi di ristrutturazione (non necessariamente sempre presenti negli organismi aggregativi) intervengono alla conclusione del processo di edificazione, nei tessuti maturi nei quali si formano nuovi poli che creano nuove esigenze di collegamento. Sono quindi percorsi “traumatici” che si sovrappongono all’organismo preesistente, considerato obsoleto sulla base di una nuova nozione di tessuto.
La formazione del percorso di collegamento che completa la perimetrazione di un insieme di lotti dà origine all’isolato, componente tra le più stabili degli organismi aggregativi che, rendendo discreto il processo di aggregazione, costituisce la premessa geometrica alla costruzione della città ottocentesca: la dialettica della città moderna si forma attraverso un’interpretazione critica di accettazione od opposizione della geometria della formazione dell’isolato.

Case a schiera moderne.    Oud,  Kiefhoek – piante

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IL RINASCIMENTO UMILIATO – Progetti per via Giulia

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 4  marzo 2013

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Il vuoto urbano tra piazza della Moretta e il Tevere, derivato dalle demolizioni operate nel ’39 per unire piazza della Chiesa Nuova a ponte Mazzini, è uno dei nodi architettonici più controversi del nostro centro storico.

Dopo la guerra, tra le tante rovine lasciate dal fascismo, la ferita di piazza della Moretta è divenuta quasi un simbolo, un buco nero della memoria urbana sul quale si sono esercitati infiniti architetti sperimentando idee, metodi, progetti. Su fronti opposti. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, Maurizio Sacripanti vi pose il suo fantasmagorico e provocatorio Museo della Scienza; non molto dopo Gianfranco Caniggia indicò, al contrario, la via del “riammagliamento”, la continuazione dell’edilizia storica, come se la città ricucisse le proprie ferite.

Che questa lunga e nobile storia di riflessioni e confronti si debba concludere, come sembra ormai stabilito, con la desolante decisione di costruire un albergo di lusso, a sorpresa, senza un concorso, senza alcuna partecipazione, sembra un segno dei tempi.

Ci sarebbe molto da discutere su come i pilastri delle nuove costruzioni invaderanno i fragili resti antichi o su quale interesse pubblico giustifichi un enorme intervento che attrae traffico proprio in un luogo che dalle auto andrebbe solo difeso. E non si comprende quale logica la Soprintendenza abbia seguito, quali illustri opinioni abbia ascoltato per permettere che s’intervenga tanto pesantemente sull’immagine di un luogo straordinario come via Giulia, la strada più importante dell’intero Rinascimento italiano, dove hanno lasciato il segno Bramante, Borromini, Sangallo.

Ma il problema è più generale: riguarda il modo casuale e senza regole attraverso il quale i nuovi interventi sembrano “capitare” in un centro storico abbandonato agli interessi privati.

Perché, a seguire la tragicomica successione degli eventi, sembrerebbe proprio che al nuovo progetto si sia arrivato “per caso”.  Nel 2009 iniziano i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A scavo inoltrato, ecco la sorpresa: si scopre che il sottosuolo di Roma è inaspettatamente ingombro di rovine antiche e che i lavori, purtroppo, non possono andare avanti. Però il Grande Buco è stato ormai creato, insieme a un potenziale contenzioso con la Cam, la società appaltatrice. E allora, che fare? Nulla. Meglio attendere. Finché, quando l’attenzione è distratta dalle elezioni, appare una soluzione già definita, conciliatoria.  Un progetto con tanto di approvazioni e pareri favorevoli, bell’e pronto per essere realizzato: oltre all’hotel a cinque stelle, un ristorante, appartamenti di lusso in vicolo delle Prigioni e sul lungotevere e, visto che ci siamo, altre abitazioni su un’area libera in via Bravaria che nulla ha a che vedere con lo scavo. E poi posti auto, un urban center con sala per eventi e convegni… E, al di sotto, le ossa degli stabula romani, centro e ragione dell’intera operazione, sepolte tra fondazioni e parcheggi.

Un disastro urbano legato a un affare immobiliare che la società Cam definisce, con involontaria ironia, “l’unica soluzione sensata e storicamente fondata”.