CENTENARIO DELLA NASCITA DI LIBERA

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 1.10.2003

Mentre vanno tramontando le teorie dei maestri del movimento moderno e il loro insegnamento si stempera in citazioni rituali, riemerge in tutta la sua limpida, durevole classicità l’opera di Adalberto Libera, architetto nato nel Trentino ancora austroungarico e autore di opere esemplari della modernità romana: le Poste di via Marmorata (con De Renzi), i villini in viale della Vittoria ad Ostia, il Palazzo dei Congressi all’EUR, l’Unità di abitazione al Tuscolano, il cinema Airone (con Calini e Montuori).
E’ dunque da salutare come un grande evento la notizia che, per iniziativa della direzione del DARC, il prezioso archivio Libera, da anni custodito presso il Centre Pompidou di Parigi, tornerà a Roma in occasione del centenario della nascita dell’architetto. I suoi nitidi disegni mostrano una ricerca artistica, capace ancora di celebrare la classicità come patrimonio collettivo che chiede la rinuncia alle pulsioni private: non il monologo solitario di un grande architetto ma, in qualche modo, il prodotto di un’intera generazione.
Un’estremo sforzo di rinnovamento che sembra voler differire la rottura, da tempo inevitabile, dell’armonia classica finendo per  produrre, tuttavia, un’architettura originale proprio perché risale all’origine delle cose, al processo formativo degli edifici che traduce in espressione immediata: forme nuovissime che, fin dal loro apparire, sembrano essere sempre esistite.
Lo spirito classico di Libera, scriveva Gio Ponti, “riconduce tutto, con l’intervento visibile di una volontà e d’una energia, ad un risultato di semplicità, d’unità, ad una eliminazione di complicazioni”. E, in realtà, suo capolavoro, il Palazzo dei Congressi all’EUR, è forse l’ultima opera autenticamente moderna capace di interpretare appieno l’essenza della nozione antica di organismo. La folgorante soluzione della doppia parete della sala congressi risolve qui, con un solo gesto costruttivo, il problema di annodare lo spazio centrale, contenere scale e ascensori, sostenere nella maniera più razionale il trionfo della grandiosa copertura metallica. Allo stesso modo nelle antiche basiliche la gerarchia delle navate collaborava, unitariamente, alla stabilità dell’edificio, all’unità degli spazi, all’integrazione delle funzioni.
Le opere di Libera sono, dunque, “invenzioni” nel senso etimologico del termine, forme incontrate, che l’intelligenza rielabora nella rilettura delle regole sorgive dell’architettura, modernamente depurate dal gravame di ogni dettaglio inessenziale, distillate in puro ritmo e volume.
Due grandi mostre, organizzate dal DARC e dall’Ordine degli Architetti di Roma, celebreranno nei prossimi mesi, insieme, la ricorrenza e l’avvenimento.
Sarà l’occasione per riflettere sui disegni del maestro trentino, non solo perché documentano il formarsi di una delle espressioni più autentiche della nostra modernità, ma anche perché, riletta ad oltre mezzo secolo di distanza, la sua epica difesa dell’unità, continuità, razionalità della forma, fornisce il metro col quale misurare l’attuale disgregazione della lingua e il culto contemporaneo di ogni diversità, dell’informe affrancamento da ogni regola.

URBANISTICA E ARCHITETTURA DELLA CITTA’

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L’URBANISTICA E L’ARCHITETTURA DELLA CITTA’
Lezione del prof. Maurizio Marcelloni al corso di Figure dell’Architettura Contemporanea
appunti schematici a cura dell’ arch.  Giancarlo Galassi

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La lezione inizia richiamandosi al libro di Scipione Guarracino, Le et�
della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo
,
(Bruno Mondadori,  2001) nel quale l’autore dimostra che la storia è sempre
finalizzata dagli storici alle proprie dimostrazioni.

Un termine per definire la crisi della città moderna, il passaggio
alla città contemporanea che avviene a partire dalla metà degli anni ’
70 del secolo scorso,  può essere quello di “ambiguità”.

Fino agli anni ’50 la città è “compatta” e si sviluppa per addizioni.
L’architetto-urbanista moderno, avendo questo modello di
riferimento, pensa all’ampliamento della città per addizioni in tre
dimensioni.

Al 1942 risale la legge urbanistica n.1150, una legge esemplare che è
stata presa a modello in tutta Europa.

In particolare sanciva che il Piano Regolatore Generale (PRG) è 1) esteso a tutto il territorio comunale 2) valido a tempo indeterminato, aprendo così un campo di lavoro immenso per gli
urbanisti e pianificando una strategia di sviluppo per i successivi 30-
40 anni.

La legge ha cominciato ad essere in realtà applicata, dopo la Ricostruzione,
dalla fine degli anni ’50 e con essa l’urbanistica perde la sua
tridimensionalità.

Numerose figure di urbanisti come Quaroni, Astengo, Samonà, Piccinato,
De Carlo… avevano continuato a impostare il loro lavoro in termini
tridimensionali ma quando l’adozione dei PRG diviene routine
professionale generalizzata, l’urbanistica perde il suo rapporto con la
terza dimensione e a questo si può schematicamente attribuire il rifiuto della pratica
urbanistica da parte di Quaroni mentre Astengo si adegua alle circostanze demandando a
una fase successiva, il Piano Particolareggiato Attuativo (PPA) il
problema della tridimensionalità.

A partire dalla fine degli anni ’70 si è cominciato a capire che il
PRG non funzionava perchè 1) prevedeva tempi troppo lunghi per il suo
completamento e 2) aveva bisogno di analisi complesse che richiedevano
a loro volta tempi lunghi che andavano ad aggiungersi alle lunghezze
dei tempi tecnici della burocrazia, determinando così, spesso, un
periodo di non meno di 10 anni per l’adozione di un piano.

Quando un PRG diviene legge (ci vogliono in media 10 anni perchè le decisioni prese in fase di progetto divengano norma) la città è già cambiata.

Cosa ha modificato la validità del PRG secondo la legge del ’42?  1)
La crisi economica dovuta al petrolio della metà degli anni ’70 che
mette in diffcioltàla produzione industriale elemento propulsivo della
conurbazione. Una conseguenza di questo fenomeno sono le aree dismesse
all’interno delle città. Utile il merito il testo di Jane Jacobs, Vita
e morte delle grandi città, Einaudi 1961 (rist. 2009).

Altro elemento di modificazione è stato  2) che tra la fine dei ’70 e
l’inizio degli anni ’80 la rivoluzione informatica cambia il modo di
comunicare così come ci ha chiarito nei suoi scritti Manuel Castells.

Ma c’è da dire che, se anche il telelavoro è ancora una prospettiva
importante per migliorare la qualità della vita in città, l’uomo
resterà sempre un’animale sociale e il problema del traffico non può
essere risolto nell’attesa della diffusione del telelavoro.

Ancora 30 anni fa era facile riconoscere un abitante della città da
un residente in un comune del circondario, oggi che la conoscenza, l’
informazione, si è generalizzata, non è possibile più riconoscere un
cittadino da un abitante di un piccolo centro.

Si inizia a pensare di dislocare funzioni urbane importanti nei
comuni circostanti la città, un’operazione che va sotto il nome di
competitività urbana.

Contro la decadenza delle città nascono i cosiddetti Piani
Strategici, ovvero i piani delle 4 / 5 cose che strutturalmente
consentano di far ripartire economicamente una città come accaduto a
Barcellona, a Birmingham e a Bilbao: si tratta di rimettere in modo,
decadute le industrie, il processo economico ricostruendone altrimenti
le basi.

A questo punto il piano del ’42 è in crisi definitiva. Le modalità di
intervento devono essere completamente altre, anche di riavvicinamento
tra architettura e urbanistica.

Ed è il Piano Urbano che fa saltare completamente un PPA e il PRG.

Le novità sono:

1) L’adozione di un Piano Strategico inteso non come piano
urbanistico in senso stretto ma tale da individuare pochi punti di
intervento che abbiano delle ricadute economiche: ad esempio la Nuova
Fiera di Roma vicino all’aereoporto o il nuovo Palazzo dei Cingressi
all’Eur, strutture che dovrebbero far risalire Roma nella classifica
delle città congressuali” (ora è al 75° posto), determinando un
importante indotto così come avvenuto a Barcellona e a Bilbao. Dal
punto di vista gestionale c’è da dire che Roma è molto indietro.

2) mettere in moto, tramite il Piano Strategico, un movimento di
autonomia dei comuni vicini. Cambiando i criteri localizzativi delle
funzioni strategiche si collocano importanti edifici fuori della grande
città secondo un processo di metropolizzazione della periferia.

Le funzioni prima localizzate nel Centro Storico vengono spostate in
piccoli comuni, vedi l’esempio del nuovo centro servizi della Banca d’
Italia a Frascati (4000 addetti).

Si passa così dal concetto di “area metropolitana” a quello di “citt�
metropolitana” proprio per il rapporto dialettico che si stabilisce tra
città e comuni del circondario.

Parigi in proposito si è inventata i grandi progetti di bordo
realizzati al confine tra la città e i comuni vicini.

La città metropolitana è fondata su un policentrismo a geometria
variabile.

3) Cambiare la tradizionale antitesi città-campagna cosicché l’
immagine più vicina alla città contemporanea è quella dell’arcipelago:
Roma come arcipelago metropolitano (Altre definizioni: metapolis, citt�
diffusa) con il vuoto della campagna è all’interno della città di
Roma.

Andrè Corboz in Ordine sparso – Saggi sull’arte, il metodo, la citt�
e il territorio,  Angeli 2006, scrive un testo sull’evoluzione dell’
urbanistica (anche su come si fa ricerca) ein particolare definisce il
territorio come palinsesto, il territorio ‘parla’ e definisce la
scomparsa della contrapposizione città-campagna.

Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica) ha sviluppato la Teoria
della Complessità che mette in crisi il positivismo che sosteneva che
la complessità potesse comunque essere disvelata per segmenti.
Prigogine sostiene che la complessità non si disvela, nell’universo
delle possibilità c’è un solo punto fermo: l’incertezza. Occorre
accettare questa incertezza e viverla bene!

L’urbanistica come programmazione non serve più, occorre, piuttosto,
partire dal basso e ogni volta ‘reinventare’. Gli urbanisti che hanno
pianto perché la realtà non andava secondo i loro PRG hanno allora
messo in crisi i loro strumenti (cfr. un articolo di Bernardo Secchi, I
tempi sono cambiati).

I nuovi strumenti che cercano di stare al passo con la complessit�
sono: 1) la Pianificazione Strategica e 2) la Pianificazione
Strutturale. Vengono selezionati solo alcuni elementi che strutturano
il territorio: la viabilità, il sistema ambientale ecc…, tutto il resto
è demandato ad altre figure, a piani locali.

Il vecchio PRG conteneva tutto, oggi invece con una maggiore
flessibilità, si demanda a piani di scala inferiore.

Tra gli strumenti operativi non si parla più di PPA o di
lottizzazione ma di Programmi Integrati (PrIn) che tengono in
considerazione tutti le figure che operano nel territorio.

Il Progetto Urbano diviene uno strumento complesso che interviene su
un pezzo di città trasformandolo fisicamente e funzionalmente. Il
progetto si cala a scala urbana nella realtà esistente contribuendo a
migliorare la qualità della vita delle persone che abitano il
territorio oggetto d’intervento.

I nuovi metodi sono 1) “Pianificar facendo” invertendo il meccanismo
dialettico tra strategie  e operazioni concrete di costruttori e
pianificatori. La processualità allora è fondamentale: il piano viene
aggiornato con il contributo di tutti i soggetti coinvolti (le
ferrovie, la regione…).

Il piano di Roma, già attuato in questo senso, ha sconvolto gli
urbanisti.

Insomma: gestione e attuazione camminano insieme.

Altro metodo: 2) Progetto Urbano e Policentrismo: formazione di
grandi magneti di rango urbano che competono con il centro storico e
riqualificano le periferie.

Di fronte alla complessità non ci sono scorciatoie, l’urbanistica
tradizionale ha le armi spuntate.

La sperimentazione ha trovato inoltre, con la recente crisi economica
(una crisi tipica di una società postindustriale) una nuova ragione.
Alla crisi economica si somma poi la crisi ambientale.

In Inghilterra esistono i cosiddetti piani di Transition City che
sperimentano modelli di sviluppo sostenibile prevedendo in 10/15 anni
un cambio di stile di vita.

Per spiegare la complessità proprio Prigogine usa la metafora della
città, esemplare organismo dissipativo cioè in grado di consumare più
di quanto produce.

L’architetto urbanista contemporaneo deve forzare al massimo le
possibilità che gli sono offerte; densificare salvando la
discontinuità, in una condizione di trasformazione continua che
utilizzi la mixité, le funzioni integrate miste.

Rem Koolhaas e le trasformazione delle aree dei Mercati generali all’Ostiense

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di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 22.11.2004

Alla fine degli anni ’70 apparve Delirious New York, uno strano saggio che proponeva, per la città futura, il modello della metropoli americana, la “cultura della congestione”, della precarietà, della trasformazione continua. La densità e l’instabilità non erano più  problemi urbanistici, ma qualità necessarie da comprendere, coltivare, riprodurre nei progetti attraverso la compresenza, perfino il conflitto, di molte funzioni.
Per la prima volta il suo autore, l’olandese Rem Koolhaas (giornalista e sceneggiatore prima di divenire architetto), eleggeva la congestione ad essenza stessa della condizione contemporanea, l’ accoglieva come il “vero fuoco della modernità”: l’ assumeva, insieme, come valore e metodo di progettazione.
La trama regolare delle strade di Manhattan cessava così di essere letta come tracciato ordinatore per trasformarsi in territorio neutro, disponibile alla scrittura di “un capitolo nuovo nella storia della sopravvivenza, dove la lotta si combatte tra specie meccaniche”.
New York, che nei primi decenni del secolo scorso, con le sue contraddizioni e le sue seduzioni, aveva avuto un ruolo fondamentale nell’immaginario moderno europeo (“una catastrofe – diceva Le Corbusier – ma una bella, degna catastrofe”) diveniva il modello della città che si rigenera e ricostruisce ciclicamente contenendo il germe dello sterminio e della creazione. Da Metropolis a Blade Runner e oltre.
Proprio in questi giorni Rem Koolhaas è stato scelto come progettista per la trasformazione delle aree dei Mercati generali all’Ostiense.
Sebbene sia convinto che Roma abbia il dovere storico di trovare una propria strada all’architettura contemporanea, credo che la decisione abbia almeno due aspetti positivi.
Il primo è che si compie una sperimentazione in un luogo finalmente opportuno.
L’area dei mercati all’Ostiense pone, infatti, il problema, comune a molte città europee, delle grandi aree dismesse le cui complesse domande sembrano richiedere le soluzioni che Koolhaas ha sperimentato in tutta Europa attraverso un metodo combinatorio capace di mediare la rigidità dell’architettura costruita con l’inevitabile indeterminatezza e mutabilità dei programmi. Non un progetto ma una strategia di grafici che si frammentano, stratificano, coagulano come layer sullo schermo di un computer.
Il secondo è che una grande opera romana (delle dimensioni delle Halles parigine) viene affidata ad un autentico innovatore dell’architettura europea.
La sua teoria del “manhattanismo”, elaborata in forme sempre più sofisticate, sperimentata nel corpo vivo delle città europee, è stata probabilmente la ricerca più originale sull’architettura moderna dalla scomparsa dei pionieri. Una ricerca che da vent’anni viene imitata un po’ dovunque.
E proprio perché una schiera di epigoni, in tutto il mondo, ha trasformato le sue intuizioni in convenzioni stilistiche e la durezza perentoria delle sue architetture  in commerciale maniera, il contatto con una delle radici profonde della ricerca contemporanea costituirà forse  un’iniezione salutare nella cultura romana.