AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

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SA nuovo corso di laurea triennale in scienze dell’architettura
LPA laboratorio di lettura e progetto dell’architettura

AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE
INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

La vendita ai privati di 15 caserme romane, per un totale di un milione e mezzo di metri cubi edificati e più di 80 ettari di territorio, ha dimensioni tali da portare conseguenze enormi sul futuro della Capitale. L’iniziativa ha lo scopo di mettere a confronto idee, opinioni e progetti elaborati non solo in ambito amministrativo e universitario, ma soprattutto da parte di comitati e associazioni di cittadini.

venerdì 30 marzo, 2012, ore 16,00
Facoltà di Architettura
sede di Fontanella Borghese, aula magna
Piazza Borghese 9, Roma

presenta
GIUSEPPE STRAPPA (direttore del laboratorio Lpa)

interventi introduttivi di
CARLO RIPA DI MEANA (presidente Italia Nostra,Roma)
FRANCO PURINI (ordinario di progettazione architettonica)

scheda di
PAOLO CARLOTTI (dipartimento DIAP)

tavola rotonda. intervengono:
MAURIZIO GEUSA (dirigente U.O. pianificazione e
riqualificazione delle aree di interesse pubblico, Comune di Roma)
ELIO ROMANO (Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme)
DANIEL MODIGLIANI (urbanista)
MIRELLA BELVISI (Italia Nostra)
ANDREA BRUSCHI (dipartimento DIAP)
ROBERTO CREA (Cittadinanzattiva)
ALFONSO GIANCOTTI (Casa dell’Architettura, Roma)
LUIGI TAMBORRINO (Campo trincerato, Roma)
VINCENZO GIORGI (dipartimento DIAP)
ROBERTO TOMASSI (Coordinamento residenti
città storica)
SIMONE FERRETTI (Campo trincerato, Roma)
SONO INVITATI I RAPPRESENTANTI DEI COMITATI DI QUARTIERE, DELLE ASSOCIAZIONI E TUTTI I CITTADINI INTERESSATI.

Organizzazione
Alessandro Camiz
Segreteria 06 4991933
Alessandro Bruccoleri, Pina Ciotoli, Virginia Stampete

 

CASERME, UN PROGETTO O SI SVENDONO I GIOIELLI

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“CORRIERE DELLA SERA” del 23 marzo 2012

di Giuseppe Strappa
Segregate al centro della vita brulicante della città, minacciate di prossima rovina, le grandi caserme mostrano ormai tutta la loro inattualità.
Nelle aree dismesse di molte metropoli europee (ad Amsterdam, Londra, Barcellona) strutture di questo tipo, disgregandosi, si sono ricomposte in nuovi nodi urbani, hanno creato inattese identità. Da noi gli interventi effettuati testimoniano, piuttosto, un consolidato intreccio di affari e insipienza. Come nel famoso pasticcio della Caserma Miale, edificio tra i più cospicui di Foggia: svenduto alla Paribas e poi ripreso in affitto, verrà forse riacquistato come sede universitaria con una perdita secca di 12 milioni di euro.
Anche a Roma si pone, in questi giorni, il problema. Enorme. La delibera del 2010 sembra elencare 15 “caserme” da alienare. Ma bisogna guardare oltre le parole: la Caserma Ulivelli è, di fatto, il Forte Trionfale, 11 ettari tra le aree naturalistiche dell’Insugherata e del Pineto; La Caserma Ruffo è il Forte Tiburtino, 14 ettari strategici nella periferia est; la Caserma Gandin è il Forte di Pietralata, 25 ettari nell’area protetta della Valle dell’Aniene. E poi Forte Boccea, ex conventi in pieno centro storico insieme a complessi giganteschi e quasi dimenticati, sepolti nel cuore stesso di Roma, come la Caserma Medici presso via Cavour o lo Stabilimento Militare, 220.000 mc in via Guido Reni. Un intero pezzo di futuro da affidare a imprenditori privati, con destinazioni in deroga agli strumenti urbanistici, come consente la legge 133 del 2008, e metà della superficie utile a destinazione “flessibile” (!) oltre a possibili aumenti di cubatura del 30%.
Quello che sembra soprattutto un problema di cassa e liquidità, da risolvere attraverso tavoli tecnici tra Governo e Comune, è in realtà uno dei nodi cruciali della città contemporanea.
Occorrerebbe un disegno unitario capace di raccogliere in unità i frammenti sparsi delle strutture dimesse (non solo caserme, ma anche fabbriche, carceri, parchi ferroviari). O almeno, nelle condizioni attuali, dare loro il senso di una nuova architettura, legarli ai tessuti vitali dei quartieri in trasformazione attraverso un progetto che l’Amministrazione dovrebbe individuare e proporre insieme alla vendita. Un progetto, economicamente vantaggioso, certo, ma anche parte solidale del più generale organismo urbano.  Perché l’Amministrazione romana, pure stretta tra continue emergenze, non può comportarsi come una vecchia signora che, rovinata dai debiti, è costretta a svendere i beni di famiglia.

incontro pubblico
AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’
LA VENDITA AI PRIVATI DELLE CASERME ROMANE

 

Facoltà di Architettura
Sede di Piazza Borghese,9
Venerdì 30 marzo, ore 16

LA CITTA’ DEI RECINTI

G. STRAPPA, COME PROTEGGERE I MONUMENTI. UN’IDEA DI RECINTO, IN «CORRIERE DELLA SERA» DEL 15.02.2004

Si torna a proporre, anche su queste pagine con un bell’articolo del prof. Mario Sanfilippo, l’uso delle recinzioni per proteggere i nostri monumenti. L’argomento portato a sostegno delle cancellate è lo stesso da almeno un decennio: la loro presenza “storicizzata” nell’Ottocento, come nel caso esemplare del Pantheon.
Dando per scontato che in alcuni casi le recinzioni sono necessarie (per le emergenze, per i parchi, per le aree archeologiche), la volontà di difendere il singolo monumento contro la malvagità degli uomini, asserragliandolo in un museo a scala urbana, a me sembra un’utopia burocratica e vagamente folle.
Proprio le cancellate ottocentesche ne forniscono la dimostrazione. Esse rappresentavano la coerente conclusione di un processo di isolamento che tentava di abolire il passaggio del tempo, di restituire una forma originale del monumento astratta e mitizzata, depurata dalle incrostazioni della storia. Lo stesso pavimento del pronao del Pantheon, che ha destato tanta ansia di protezione, è stato messo in opera, nessuno sembra ricordarlo, nel 1885 (in sostituzione di un altro in mattoni, pure moderno) all’interno di un piano di restituzione delle forme antiche iniziato con la dolorosa demolizione delle trasformazioni barocche, dei campanili costruiti da Bernini, delle case medievali che vi si addossavano. Interrompendo così il rapporto con il tessuto nel quale il monumento era amorevolmente accolto e deformando il senso unificante dello spazio, cavo e glorioso, intorno al quale si avvolgeva la vita della città.
Dell’idea ottocentesca di monumento, marmorea e sepolcrale, le cancellate costituivano, dunque, l’esatta espressione simbolica.
Da allora la nozione di bene architettonico è molto cambiata: è divenuta dilatata e molteplice, si è estesa all’intero ambiente storico perché, soprattutto a Roma, il senso delle forme degli edifici risiede nel loro carattere di organismo, nella relazione tra membra della costruzione e città, nel flusso della vita che vi scorre.
Ma è cambiata, soprattutto, la scala dei problemi e con essa la nostra idea di tutela.
Prima della guerra, ad esempio, non esistevano danni dovuti alle polveri e ai gas prodotti dalla combustione di migliaia di motori, all’acido solforico che oggi trasforma, si è scoperto, interi strati di pietra in gesso. Un processo che si va accelerando e che rischia di distruggere in pochi decenni monumenti pure sopravvissuti a secoli di oltraggi.
Cambia così, parallelamente al territorio da proteggere, l’idea di recinto.
E si pone, con drammatica urgenza, la necessità di un progetto che affronti le cause (non gli effetti) dei problemi, che impieghi, alla scala urbana, nuovi recinti e nuovi limiti: alla pressione del traffico, del commercio incontrollato, delle trasformazioni edilizie, di un turismo aggressivo e volgare che guarda il Colosseo con gli occhi di Russell Crowe e trasforma il tessuto antico in un solo, grande locale per divertimenti. Con l’inevitabile indotto di rifiuti che invadono il pronao del Pantheon come in ogni altro angolo del nostro centro storico.

Il ponte perduto

di Giuseppe Strappa

La storia infinita dell'”arco di ferro” , in “La Repubblica” del 14 settembre 1992.

Quando nel1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di ponte Sisto, forse non fu nemmeno sfiorato dal sospetto che stava operando nel corpo vivo della storia. Preso nel vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, celava probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come altri tecnici ed amministratori, peraltro, un pregiudizio ingenuamente livoroso quanto incoffessabile: che molti dei monumenti antichi non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio, fossero semplicemente ormai inadatti , per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente del traffico . E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.

Tanto che Antonio Canevari, rappresentante della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.

Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali , con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro poggiata sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di Trastevere.

Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui banale rigore viene concluso dalla decorazione di un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica , disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.

Il progetto fu senz’altro approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’ opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace della costruzione di un nuovo ponte nel rione Regola. Le nuove opere furono così appaltate durante le festività natalizie dello stesso anno, rapidamente realizzate e decorosamente illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.

La brutale sovrapposizione del moderno all’antico aveva generato un ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario monumento che racchiudeva l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava significati e messaggi lasciando supporre, sotto la leggerezza del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli, le ricostruzioni in successione infinita. Il segno inequivocabile ed estraneo della nuova Roma si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari, alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni, da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la solennità delle magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.

Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva il centro del ponte.

Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava due mondi diversi,Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva: era divenuto col tempo un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe in modo intensamente distaccato della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti .

Nel ’31 le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.

La leggittimità delle sovrastrutture metalliche venne di nuovo messa in discussione negli anni ’60 quando, credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo con bancarelle più o meno stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità di conservare o meno le sovrastrutture metalliche che, se nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano , facevano anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .

La polemica non fu risolta dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte, redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale fece mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale , i resti delle strutture ottocentesche furono pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone di Testaccio.

Così anche oggi il ponte continua a mantenere il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della città anche se nel cuore del suo centro antico.

E mentre la Commissione Comunale per Ponte Sisto si é espressa, dopo otto anni di studi, a favore del restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

L’ ARTE DI LEGGERE I TRACCIATI

di Giuseppe Strappa

Prefazione a: Lina Malfona, Il tracciato urbano, Melfi 2012

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In sanscrito mandala, manda-la, significa “racchiudere l’essenza”.
Il mandala è, nella sua sostanza, regola d’orientamento che, tradotta in geometrie, individua lo spazio sacro al centro del mondo. Il suo fondamento sono le connessioni tra le figure che formano, tutte insieme, un disegno coerente. Questo disegno non è, tuttavia, il semplice risultato dello spazio vuoto tra le forme: è l’essenza stessa della composizione, la struttura latente che ne precede la formazione. Senza la coerenza indiscutibile del tracciato, il mandala non sarebbe che un insieme sparso di figure, disseminazione di segni privi di  rito e liturgia. Allo stesso modo, senza il succedersi sinuoso o labirintico dei suoi elementi, privato dell’ordine circolare che ne regola i ritorni o della freccia del tempo che da agli eventi indirizzo e concatenazione, ogni racconto si ridurrebbe a una serie fortuita di accadimenti.
Tracciato non è il disegno di una cosa, ma il disegno tra le cose che consente di trascendere il contingente e il particolare legandoli ad una più generale scrittura.
Possiede, quindi, un indubbio ruolo didattico e sintetico costituendo, per noi, una scelta senza la quale ogni architettura sarebbe inverificabile, ogni costruzione potrebbe assumere qualsiasi forma.
Per questo indicarne oggi il significato fondante nella composizione dello spazio abitato alle diverse scale rappresenta, ritengo, anche una non equivoca scelta di campo, il tentativo di superare la seduzione di un’adesione estetica alla casualità del mondo costruito, cogliendone fascino e suggestioni, per riaffermare il compito ineludibile del nostro mestiere che è legato alla responsabilità delle scelte, alla formazione di una particolare, e per noi indispensabile, forma di conoscenza capace di dare unità all’operare. Argomento oggi tutt’altro che scontato, che richiede qualche spiegazione.
Poiché il mondo in cui opera è poliedrico e in permanente mutamento, è evidente che l’architetto non possa che impiegare oggi, nel progetto, materiali delle più diverse provenienze. Lo richiede la stessa condizione contemporanea nella quale soluzioni contraddittorie convivono e vengono ugualmente accettate, le storie divengono tutte sincroniche e figure un tempo lontane partecipano di uno stesso svolgimento costruttivo. Definire il proprio ambito di ricerca, ma anche la poetica ad essa inevitabilmente legata, diviene comprensibilmente difficile. E tuttavia, anche in questo contesto, ogni gesto di architettura è chiamato a fissare i propri limiti, a riconoscersi all’interno di un perimetro, di un ambito di scelte. Per l’architetto, infatti, la teoria è θεωρέω nel senso letterale del termine: consiste soprattutto nell’“osservare”, riguardare secondo il proprio punto di vista il mondo costruito sulla base di ipotesi che non sono solo scientifiche, ma contengono molte cose: soprattutto la propria scala di valori e il flusso di esperienze che l’ha formata. La sostanza della teoria di architettura, come dimostrano tutti i trattati che percorrono la sua storia, è fondamentalmente critica.
Se da una parte il mondo virtuale, per propria natura ubiquo, sembra indicarci, sulla scia di una fascinazione peraltro antica, che di ogni verità è vero anche il contrario, la dinamica concretezza del tracciato sembra affermare che nel magma del reale ogni cosa ha un verso e tutto è orientato, che, rispetto a quella del passato, la città contemporanea possiede la stessa necessità di direzione e orientamento avendo, di sostanzialmente diverso, soprattutto una grande instabilità, la propensione ad un più rapido mutamento.
E’ in questo senso che il ruolo del tracciato, nell’ accezione attribuitagli in queste pagine, trascende il significato di strumento e diviene ermeneutica del progetto: lettura, interpretazione, disegno. Vedendo le cose in questo modo, il tracciato acquista il significato di struttura profonda della forma, il suo riconoscimento e ridisegno diviene un’arte interpretativa e generatrice che riattualizza strumenti antichissimi, dal piano gerarchicamente regolato allo schizzo che individua, nel molteplice, l’insieme delle trasformazioni possibili, l’ordine nascosto nel disordine.
Argomenti dei quali compare in filigrana, in queste pagine, il chiaro fondamento storico, ma ai quali viene anche attribuita una valenza, complementare e meno indagata, che si potrebbe definire logico-geometrica.

Almeno un secolo di analisi della città basate sulla pura constatazione della sua forma, su diadi astratte come isolato-viabilità, pieno–vuoto,  costruito-inedificato, hanno fatto dimenticare il valore, temporalmente anteriore e spazialmente accentrate rispetto all’edificato, del percorso e del suo tracciamento.
Ancora una volta è il processo che spiega lo spazio che oggi abitiamo. L’uomo conosce il suolo che abita percorrendolo; non diversamente da qualsiasi animale se ne appropria lasciando tracce. Sono questi, del camminare e del segnare un percorso, i primi gesti che fondano la struttura del territorio: aree insediative e produttive, case e terreni coltivati verranno dopo e la loro forma seguirà il rapporto segnato dalla solidarietà tra “supporto orografico”, per usare un termine impiegato da Lina Malfona, e la vita che vi scorre. I crinali percorsi dalle popolazioni che si sono insediate sulle due sponde del Tevere in prossimità dell’Isola Tiberina, costituiscono ancora una traccia indelebile sulla quale è sorta la struttura (non solo viaria, si badi, ma architettonica)della Roma moderna. La quale conserva il sostrato dell’antica, quando sono scomparsi gli edifici, soprattutto attraverso la durata dei suoi percorsi.
Ebbene la fase iniziale dell’edificato, all’origine della città (di qualsiasi città) si addensa attorno ad un percorso, il quale diviene lo spazio accentrante che informa il costruito. L’isolato è, in questa fase, puro disegno geometrico, conseguenza di fasi costruttive che completano un’area definita. Esso verrà identificato molto dopo, nella città alienata del XIX secolo che si va trasformando in metropoli, e non indicherà mai un’appartenenza. Ancora oggi, nei tessuti che hanno conservato le proprie matrici, la contrada, lo spazio tracciato dal primo percorso che preesiste all’edificazione, è il luogo in cui l’abitante si riconosce, lo spazio condiviso dell’empatia e della socialità, monade della polis e della vita politica, infine, per usare le categorie di Hannah Arendt, luogo del discorso.
A questo dato, alla funzione centripeta del tracciato geometrico inteso come geometrizzazione di un percorso, occorre oggi guardare, come ha iniziato a fare l’autore di questo studio, con la freddezza del geologo che esamina un fenomeno tettonico per cercare, sotto lo strato superficiale, i sedimenti e le tracce di moti profondi che spiegano l’attuale forma del suolo.
Senza nostalgie, dunque, né pregiudizi.
Si scoprirà allora che lo spazio contemporaneo è specularmente opposto a quello aristotelico, al “limite immobile” che avvolge i corpi, che non solo i tessuti delle città, ma tutti gli spazi architettonici, a qualsiasi scala, trovano la loro struttura profonda nel moto e nella vita di cui i tracciati/percorsi sono la traduzione architettonica, sia che individuino l’asse orizzontale che il fedele percorre dal portale all’altare in una chiesa, sia che indichino il viaggio verticale dell’ascensore in una torre per uffici o il cammino meccanizzato in un aeroporto.

Vorrei concludere queste brevi note segnalando come la lezione più fertile, in questo senso, derivi dai processi di trasformazione della città italiana, dove l’edilizia abitativa e seriale composta lungo un tracciato stradale si “annoda” progressivamente, il tessuto si trasforma in edificio attraverso la mutazione dei percorsi formando nuovi organismi che potrebbero indicare, oggi,  una possibile, originale strada di sperimentazione per il progetto.
Il senso e l’utilità didattica, per noi, di questi nuovi organismi, che il palazzo romano sintetizza in modo esemplare, risiede nel fatto che essi non costituiscono l’esito di invenzioni individuali, come vorrebbe un’interpretazione tardoromantica ancora largamente diffusa, ma rappresentano il prodotto vivo e necessario della trasformazione di tracciati nella città. Il palazzo romano è il risultato, infatti, della singolare collaborazione tra metamorfosi di parti di tessuto e durata del sostrato geometrico antico. La solidarietà tra elementi (le unità di schiera, diffuse in tutta la città fin dal XIII secolo) dovuta a nuovi regimi di proprietà si traduce nell’unificazione delle facciate, nella formazione parete ritmica, ma soprattutto nell’introiezione dei tracciati dei percorsi esterni polarizzati e continuati in verticale delle scale. Come in un tessuto urbano rovesciato, i nuovi percorsi hanno la funzione, di volta in volta, di percorso matrice, di impianto, di collegamento. L’edificio diviene così, allo stesso tempo, la rappresentazione di una piccola città compiuta e l’espressione di un rapporto genetico di solidarietà e congruenza con il tessuto abitativo. Quando si spingono a grandi dimensioni e sono totalmente progettati, questi edifici/tessuto sembrano ancora ereditare i caratteri del loro ambiente costruito, condividerne geometria e misura formativa, collaborare con l’intorno a formare un solo disegno: come per il mandala, i tracciati regolatori sono la loro essenza.
L’ architetto/artista è,  insieme, l’interprete e l’innovatore di questi principi che, a saperli riconoscere, sono leggibili anche ai nostri giorni. Non solo attraverso edifici come il Palazzo dell’Industria disegnato da Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro, dove il lascito è evidente, ma anche in opere insospettate, come la sede della  Deutsche Bank a Berlino di Gehry che lette sotto quest’aspetto, finiscono per avere l’interesse di un tessuto dai tracciati rovesciati, dove lo spazio centrale è annodato dalla copertura trasparente, in modo non diverso da tanti altri episodi che hanno segnato la vera storia del passaggio alla modernità, dalla formazione delle galeries e dei grandi magazzini del XIX secolo, a partire dai passages, ai tanti palazzi i cui cortili, coperti, hanno segnato la formazione di un nodo spaziale e l’origine di nuovi organismi moderni.
Un modo, dunque, quello di leggere e progettare per tracciati, che permette di interpretare l’intera storia della città moderna alla luce di un’ attendibile teoria che ripropone la priorità dei fenomeni generali e profondi sugli esiti frammentati della città contemporanea.
Mi sembra che questa sia la strada fertile intrapresa da Lina Malfona con questo lavoro che, indicando una via poco battuta, costituisce una scelta tra le più impegnative, implicando non solo la necessità delle basi teoriche del mestiere di architetto ma anche, indispensabile corollario,  l’urgenza del metodo per applicarle.

Giuseppe Strappa
Roma, novembre 2011