DRACo_ dottorato di ricerca in architettura e costruzione
Piazza Fontanella Borghese, 9, Rome.
h.15.30
DRACo_ dottorato di ricerca in architettura e costruzione
Piazza Fontanella Borghese, 9, Rome.
h.15.30
Université Laval du Québec
EXPOSITION Lecture morphologique des espaces
d’échange et commerce dans la Ville de Québec
lundi 16 avril 2018,13h30, salle 1224
La transformation radicale des espaces dédiés au commerce est l’un des phénomènes qui a le plus contribué à la condition de la métropole contemporaine. C’est un phénomène tout à fait nouveau qui s’est développé à partir du deuxième après-guerre dans les grandes villes nord-américaines et qui a progressivement investi toutes les grandes villes, constituant l’un des aspects les plus évidents de la globalisation. Leur concentration extrême a généré de nouveaux types de tissus spécialisés non liés au bâti de base, isolés par des grands parkings, caractérisés par la relation physique toujours plus faible entre le vendeur et l’acheteur. Dans ces tissus l’espace est reconnu comme isotrope, non orienté, où l’acheteur se déplace sans but et où prennent de l’importance les espaces résiduels. De l’autre côté, avec la réduction des échanges commerciaux due à la concentration dans les structures spécialisées, les tissus traditionnels perdent l’une de leurs composantes les plus importantes. À l’échelle urbaine le grand shopping district, situé dans des zones marginales, est considéré comme un lieu en constante transformation. Il accueille une partie importante de la vie de la ville, mais il ne génère pas d’identité, ni d’appartenance, ni d’espaces communs. A l’échelle du bâti, les structures de vente sont composées d’ensembles d’éléments en série distribués par un parcours interne ou externe, polarisé par des “attracteurs”, relativement homogènes et indifférents au type de produit……
affiche_expocritiqueMorphoArc7032
.http://www.giuseppestrappa.it/wp-content/uploads/2018/04/affiche_expocritiqueMorphoArc7032.pdf
Giuseppe Strappa
Le caratteristiche di un organismo architettonico possono essere individuate nel termine “vivente”. Nella vita, cioè, che lo pervade: che lo genera, che lo trasforma, che ne segna l’inevitabile decadenza.
L’organismo costruito, dunque, possiede una propria struttura organizzata che si rinnova nel tempo. L’uso stesso degli edifici e dei tessuti, il loro consumo, richiedono un continuo aggiornamento, dalla prima costruzione fino alla loro sostituzione. Questo carattere autopoietico deve fare, i conti, soprattutto nel caso dell’architettura (meno dell’edilizia), con l’apporto critico dell’autore, impedendo il suggestivo paragone, che ha affascinato e condotto in errore generazioni di architetti, con gli organismi naturali. Se non c’è dubbio che, nel rapporto che nel progetto si stabilisce tra soggetto e oggetto, quest’ultimo contenga suoi propri caratteri “organici”, portato dell’impiego degli spazi nel corso della storia, del patrimonio di tecniche costruttive, dell’esperienza estetica che si è consumata nel tempo in tutte le scale del costruito, è anche vero che noi abbiamo ormai consolidato una superficiale critica di architettura dove innovazioni radicali e cambiamenti improvvisi provocano un’attenzione di gran lunga maggiore delle permanenze, dei sostrati profondi della vita che permea la realtà costruita e che costituiscono il suo carattere più concreto e meno evidente. Nell’età della globalizzazione e degli organismi geneticamente modificati è noto come non sia facile coltivare nozioni come quella di processo formativo, di area culturale, di organicità alle diverse scale (degli edifici, della città, del territorio).
Ma cerchiamo di vedere il problema con occhi nuovi. Gran parte del pensiero sull’architettura contemporanea pone al centro del progetto la logica della globalizzazione. Il termine indica (nel suo senso generale cui corrispondono molte interpretazioni diverse, spesso in contrasto tra loro) l’attuale internazionalizzazione della produzione e dei mercati, con la relativa ricaduta nell’accelerato trasferimento di tecnologie, circolazione di capitali, migrazioni di persone. Questo fenomeno, che Anthony Giddens definisce sinteticamente come intensificazione delle relazioni planetarie, che finiscono per incidere indubbiamente sul carattere della cultura contemporanea, ha ricadute evidenti sulle condizioni in cui opera l’architetto. E tuttavia esso è stato ampiamente mitizzato, accettato come condizione alla quale non è necessario opporsi (come dato del problema) ed anche come rivoluzione inedita nella storia della civiltà occidentale, quando in realtà si tratta delle conseguenze estreme di un processo che ciclicamente attraversa l’intera storia dell’economia e della cultura. Trasferendo le condizioni del mercato e della tecnologia alla cultura, secondo paralleli non sempre dimostrati e dimostrabili, gli architetti inseguono, da tempo, l’ ipotesi di un pensiero generalizzante ed astratto, perdendo la capacità di analizzare la realtà costruita nella concretezza dei suoi contesti plurali che costituiscono, nel loro insieme, la condizione storicamente determinata all’interno della quale ogni progetto, unico ed irripetibile, si colloca. All’architetto, per statuto, non è consentita la pura constatazione, l’adeguamento alla condizione contemporanea: ogni progetto, per aspirare alla durata, deve contenere, insieme, quel tanto di inattuale e quel tanto di utopia che costituisce il sale del suo apporto critico alla modificazione della realtà costruita. Ed è singolare che, in un mondo in cui l’architettura sembra chiamata a rinnovarsi incessantemente, in realtà essa finisca per voler confermare senza critica, puntualmente, le proprie condizioni al contorno. Se si pensa ai contenuti etici di proposte come quella del Movimento moderno, ci si accorge di come poche epoche, dal XIX secolo in poi, hanno mostrato una mancanza tanto evidente di opposizione ai valori invalsi come la nostra, una tanto inerte accettazione dei portati della città liberista, informe e senza regole D’altra parte si fanno sempre più evidenti le istanze di cambiamento verso un saggio impiego delle risorse, verso il loro organico coordinamento con la vita dell’uomo, che si vanno trasformando, da esigenza imposta dalle necessità nei secoli scorsi, in scelta cosciente e, forse, in valore. Nella generale confusione delle cose che ha coinvolto la nozione di organismo, un ruolo fondamentale ha svolto, infatti, la recente condizione di smisurata disponibilità di risorse, dell’inedita condizione di affluenza che caratterizza alcune società del mondo occidentale, con i relativi fenomeni di estesa dilapidazione di ricchezza. La liberazione dai vincoli imposti dal bisogno, che mettevano in luce con chiarezza i rapporti di elementare necessità tra le cose, ha finito col produrre, già ora, i primi sintomi del decadimento dei nessi che contribuiscono a spiegare perché e come le parti di un edificio (ma anche di una città o di un territorio) si conformino, come sviluppino rapporti di congruenza tra gli elementi componenti. Nel quadro di una generale crisi che induce a sostituire la quantità di beni prodotti alla qualità dell’ambiente antropizzato (per usare un termine desueto, all’armonia tra le parti del mondo costruito), il principio razionale ed estetico di appropriata proporzione dei mezzi rispetto ai fini da raggiungere ha progressivamente perso il proprio ruolo fondante nella pratica progettuale e con esso l’etica del buon uso delle risorse che coincide, in larga parte, con l’arte del saper ben costruire.
Ma la nozione di organismo aveva già incontrato, peraltro, l’avversione ostinata dell’ideologia del Movimento moderno (o meglio dalla sua definizione consolidata dalla storiografia ufficiale). Questa ostilità in realtà fa riferimento ad una più generale koiné di pensiero che caratterizza la modernità, della quale l’idea di progresso sembra essere il portato più evidente. La moderna idea di progresso, recentemente messa in crisi da interpretazioni meno schematiche dello sviluppo storico, sembra infatti individuare un movimento lineare in una sola direzione: un movimento progressivamente accelerato, seppure discontinuo, verso una meta essa stessa continuamente progrediente. Le forze storiche che si autoeleggono come acceleranti questo processo si riconoscono in una scala di valori che legittima il proprio rapporto oppositivo con la cultura ereditata fino ad arrivare a ritenere l’opposizione (l’innovazione radicale ed antitetica, rivoluzionaria nei confronti della continuità storica della quale la nozione di organismo era il portato diretto) valore di per sé. L’intera età moderna viene così intesa dai pionieri della modernità in una dimensione di eroica reazione alle età antecedenti, dove la storia viene letta per fasi di successivi superamenti, reprensibili arretratezze, recuperi. Essendo la sua meta costituita, inevitabilmente, da condizioni migliori rispetto allo stato di partenza, l’idea di progresso assume in età moderna carattere salvifico, religioso: distinguendo adepti, profeti, schieramenti.
Quella di organismo è, in realtà, una delle nozioni fondamentali degli studi sulla progettazione e dello stesso progettare: su di esso può essere basata la lettura, la critica (cioè la lettura e, insieme, le scelte che ne derivano) il modo di operare dell’architetto.
Occorre dire subito, per allontanare equivoci invalsi, che l’idea di organismo non implica alcun determinismo meccanico, ma rappresenta la manifestazione del legame molteplice che unisce, nella concezione dell’artefice, tutte le componenti che concorrono a determinare l’esito finale dell’architettura: il costruito.
Questa nozione percorre, in maniera latente od esplicita, tutta la storia della teoria dell’architettura: non solo informa gran parte della città reale, anche contemporanea, ma è anche capace di coglierne le nuove istanze.
Leon Battista Alberti sosteneva che occorre disegnare gli edifici imparando dalla semplicità della natura, intendendo per natura gli organismi viventi . E’ noto anche come molte ricerche dell’architettura rinascimentale fossero originate da questo rapporto di affinità, tradotto, a volte, in maniera diretta in edifici antropomorfi o zoomorfi.
Il corpo umano è uno tra gli esempi proposti con maggiore frequenza: ogni sua parte costituente (organo) è necessaria all’altra e concorre in modo esemplare alla vita dell’organismo. Il legame, evidente, ma non sempre chiarificatore, con gli antecedenti della trattatistica rinascimentale verrà tuttavia accuratamente evitato nel seguito per gli equivoci che possono essere ingenerati dal rapporto tra architettura e scienze della natura.
Così concepita, l’idea di organismo, di struttura di parti lentamente evolventesi per mutazioni successive (l’idea di evoluzione sostituita a quella di rivoluzione) sembra portatrice di valori arcaici, inutilizzabile. La macchina per volare ideata da Leonardo osservando il volo degli uccelli era una potente intuizione poetica ma l’uomo non ha mai volato con un congegno ad ali battenti. Solo componendo, attraverso la ragione, la pressione esercitata dal volo animale nei vettori verticali della portanza prodotto dall’ala fissa e in quello orizzontale prodotto dall’elica, l’uomo ha prodotto l’aereo.
La definizione di organismo che utilizzeremo (e quella di organicità che ne deriva) ha ben poco a che vedere, dunque, con le matrici naturalistiche utilizzate attraverso l’imitazione delle forme minerali, vegetali e animali nel corso della storia dell’architettura, dalle citazioni fitomorfe gotiche ai tanti “ordini rustici”, alle sperimentazioni manieriste dei Wendel Dietterlin, Philibert Delorme, Sebastiano Serlio, Federico Zuccari, né con la moltitudine di interpretazioni antropomorfe e riduzioni antropometriche della realtà costruita (dagli edifici, alle città alle cosmogonie ) prodotte ininterrottamente dal ‘500 fino alla corrente dell’architettura organica che ha percorso trasversalmente la vicenda moderna.
E in realtà, a ben guardare, la stessa etimologia del termine organismo, nel senso attribuitogli dagli studi tipologici, è, in gran parte moderna. Si rapporta infatti al più recente termine, sconosciuto prima dell’ Illuminismo, di “organizzazione” come legge che presiede al coordinamento degli elementi tra loro. Va notato, per inciso, come in realtà il termine organizzare esistesse già ai tempi di Dante, ma nel significato letterale di “formarsi degli organi”. La trasformazione del suo significato nel tempo indica la progressiva estensione dell’idea di organismo ad altri ambiti delle attività umane per i quali andava insorgendo la necessità di coordinamento. Mutuato dal francese, nel Seicento, il termine entra anche nel linguaggio scientifico italiano prendendo il valore di “ordinare, disporre” e nel 1649 il Malpighi definisce, modernamente, organizzazione il termine che indica l’insieme di parti che collaborano ad una stessa funzione.
La definizione di organismo può essere introdotta per gradi, deducendola dapprima da constatazioni elementari, restringendone poi il significato e chiarendo i molti equivoci che ad esso sono stati associati nel corso della storia, anche recente, fino a raggiungere l’esattezza dei termini. Cercando di comprendere, cioè, la logica formativa interna agli edifici considerati nella loro realtà fenomenica e arrivando a stabilire, per analogia, alcuni loro caratteri comuni in grado anche di fornire, in modo inizialmente intuitivo, la nozione di tipo.
Usato, infatti, con le opportune cautele, lo strumento dell’analogia, operando attraverso raffronti con quanto della realtà è evidente, appare particolarmente fertile negli studi che hanno fini interpretativi, tendendo alla sintesi di dati che in architettura si presentano nel loro carattere parziale e frammentario.
Questo strumento è anche utile a fornire, in prima approssimazione, l’idea di complessità contenuta nella definizione di organismo e, insieme, degli strumenti possibili per sciogliere tale complessità attraverso la comprensione delle ragioni interne che conformano prima, e legano poi gli elementi tra loro. Per questo motivo proporremo la ricostruzione del processo formativo di alcuni organismi architettonici esemplari (leggendo gli edifici ed il modo in cui vengono costruiti, ragionando sui meccanismi che ne hanno originato gli interni rapporti di necessità) e deducendo da questi studi le prime nozioni fondamentali e definizioni teoriche .
…………..
Les architectes travaillent pour une autre planète?*
Editoriale U+D 5/6
di Giuseppe Strappa
Si arriva alla Città della Cultura di Santiago de Compostela attraverso una via dalla sezione grande quanto quella di un’autostrada, percorrendo un’ampia curva intorno alla collina di Monte Gaiàs finché appaiono in lontananza, dietro un gigantesco parcheggio, le nuove opere disegnate da Peter Eisenman.
Le notissime griglie digitali del progetto, in attesa nella memoria, si sovrappongono inevitabilmente alle forme reali, come se comparissero veramente sulla retina, e riportano le cose, per un attimo, a figure note.
Ma quando ci si avvicina, le costruzioni mostrano un aspetto inatteso, un’anticittà che si presenta, davvero, come il negativo della vicina città storica. Non, tuttavia, per l’overlapping geometrico previsto dall’architetto, dove il pattern delle vecchie strade di Santiago si sarebbe dovuto sovrapporre a quello del luogo e ad un reticolo cartesiano ordinatore. Per un motivo molto diverso: dove nel vecchio centro tutto è cordiale e rassicurante, tra quinte di pietra solidamente serene e piazze solari, su questa collina tutto sembra provvisorio, come sull’orlo di una catastrofe, o dopo un’eruzione, o un sisma che ha deformato le costruzioni e distorto il suolo. In una forma maestosa e senza misura, peraltro, che non ha nulla dell’esattezza del progetto iniziale e sembra attingere ad uno splendore silenzioso e remoto, di rovine antiche.
E in rovina sembra pure il cantiere abbandonato del Palazzo della Musica.
L’ architetto newyorkese ci ha regalato uno spettacolo sontuoso e terribile. Vengono alla mente gli spaccati assonometrici eseguiti da Joseph Gandy per la Bank of England di Soane che sembrano alludere a una costruzione in disfacimento,
E vengono alla mente gli spazi dilatati del parlamento di Chandigar, dove l’essere umano si fa minuscolo e si perde tra le ombre dei grandi volumi sotto la luce.
Ma bisogna fare il grande sforzo di tornare alla ragione, di staccarsi dall’eterna malia del romanticismo in agguato: non siamo nelle capitali del Punjab; non c’è, qui, alcun orgoglio nazionale da esprimere con la retorica dell’architettura. Sotto di noi, a tre chilometri di distanza, sebbene l’architetto l’abbia nascosto alla vista, c’è un piccolo nucleo di poche migliaia di abitanti dove si custodiscono i resti dell’apostolo Santiago, Sant Jago, San Giacomo: uno dei centri della cristianità, meta di ferventi viaggi spirituali che alimentano, anche, un lucroso turismo religioso.
Bisogna resistere al fascino decadente delle rovine (e all’aura che certamente il nome dell’autore conferisce loro) per andare alla sostanza delle cose. Le quali hanno anche un loro valore indipendente dai processi che li generano.
Se si ascoltano gli architetti del luogo e si fanno due rapidi conti, si scopre la vera dimensione del dramma collettivo di una città che ha creduto nel potere salvifico dell’architettura e si ritrova, ora, di fronte a problemi più grandi di lei. Più grandi finanziariamente, con il costo delle opere quadruplicato negli anni e del tutto sproporzionato rispetto ad una popolazione che non arriva, nell’intera Galizia, a tre milioni; più grandi fisicamente, con un centro culturale più esteso dello stesso centro storico; più grandi dal punto di vista gestionale, con la nuova struttura che divora tutte le risorse disponibili togliendole alle istituzioni culturali cittadine, compreso il Centro di Arte Contemporanea costruito da Alvaro Siza, pienamente inserito, fino ad ora, nella vita della città.
Progettato in un periodo di crescita economica e nel clima di competizione tra municipalità che ha portato al rinnovamento di molte città spagnole, la Città della Cultura è il prodotto ritardatario di un “effetto Bilbao” sviluppatosi in un contesto storico e culturale del tutto diverso.
E anche quando era ormai evidente che questo intervento faraonico (il cantiere più grande della Spagna) con il deterioramento delle condizioni economiche e una disoccupazione al 20%, sarebbe stato anacronistico, l’ex ministro franchista Manuel Farga, presidente della Regione galiziana, poi spalleggiato dal suo successore, Alberto Núñez Feijóo dello stesso Partito Popolare, lo ha strenuamente voluto per lasciare il proprio segno prima di lasciare la politica. Aveva convinto, Farga, i propri concittadini dell’idea che un complesso culturale di scala planetaria, come il Museo di Arte Moderna di New York, come l’Opera House di Sidney, potesse planare sulle colline della Galizia a portare progresso e modernità. Ora ci si rende conto della dimensione del problema e i lavori sono quasi fermi, ma è troppo tardi per tornare indietro e le strutture già costruite, deserte di visitatori, vanno comunque alimentate con iniziative costosissime.
Così, sulla collina di Monte Gaiàs, il mondo apparentemente nuovo di intersezioni, attraversamenti, sovrapposizioni, deformazioni del progetto generato da una logica digitale dove la geometria sembra controllare tutto, si scontra con la realtà e mostra per intero le proprie radici ancora Beaux-Arts sviluppate, tuttavia, all’estremo, fino all’astrazione che libera dal contingente.
E vacilla la cortina mediatica stesa a protezione di quest’opera celebre per il procedimento d’invenzione che impiega. Sarà poi vero che i percorsi sono traducibili in layer immateriali e che i layer sono sovrapponibili tra loro e che questa sovrapposizione genera il progetto e che questo si fa, infine, costruzione? Secondo un metodo indimostrabile. Che, anzi, non ha bisogno di dimostrazioni e verifiche.
Non esiste una verità del percorso?
Non sarà che il re è nudo e che, semplicemente, il percorso è un percorso, serve a spostarsi, andare a prendere il giornale o, anche, a permettere alle case di aggregarsi tra loro, a formare tessuti e città?
O, per dirla tutta, che la forma è quello che percepiamo di una struttura: l’esito di un processo, non l’origine?
Come sarebbe semplice il mestiere di architetto, d’altra parte, se la realtà costruita fosse veramente una trascrizione, se il progetto si potesse fermare alla soglia del verosimile senza sporcarsi con calce e cemento, pietre e mattoni!
L’esattezza troppo rassicurante delle sofisticate geometrie del progettista ha in realtà generato, è evidente, spazi incontrollabili e incontrollati, a volte di grande suggestione come alcuni porticati, altre di desolante banalità, come l’onda che sale dalla piazza centrale.
Se si entra nella biblioteca, silenziosa e semivuota, si rimane colpiti dagli spazi piranesiani che si dilatano, avvolti da una luce rarefatta, verso l’altissima copertura. Ma la mia gentile accompagnatrice mi avverte che, al di sopra, ci sono ancora altri diciotto metri di inutile vuoto prima di arrivare alla vera conclusione dell’involucro. E mi mostra anche i restauri che si stanno già conducendo sulle opere ancora non terminate (la geometria ha trovato una faticosa strada per farsi realtà, ma a quale prezzo).
L’architetto è stato qui un abilissimo protagonista: esorcista e demiurgo, mediatore e avvocato di se stesso, capace di ammaliare le commissioni di controllo sostenendo i diritti dell’arte e della sua missione di maestro.
Ma se chiedete del Centro de Cultura a un galiziano, gente cordiale che prende le cose senza troppi drammi, lo vedrete rabbuiarsi, come se si trattasse di un malessere di cui non si parla volentieri. Vi racconterà delle infinite polemiche che per anni hanno occupato e occupano le pagine dei loro giornali, con accuse feroci di incompetenza e articoli di sostegno che, al contrario, collocano l’autore dell’opera tra i geni di tutti i tempi, insieme a Michelangelo e Bernini, insieme a Wright. E vi parlerà della rabbia degli abitanti.
Certo, nonostante le pessimistiche previsioni, la nuova Città della Cultura potrebbe forse ancora trovare una sua strada, lo speriamo tutti, per sopravvivere. Ma rimane l’interrogativo sul senso dell’intera operazione, esemplare, sotto molti punti di vista, del ruolo dell’architetto nel ciclo produttivo contemporaneo. Ruolo che sembra appartenere ad un mondo ottocentesco, alla separazione dei saperi e delle tecniche, dove l’arte si isola dalla vita reale e l’architetto sembra ancora, come avvertiva Le Corbusier, “lavorare per un altro pianeta”.
*Le Corbusier, Vers une Architecture.
LEGGERE LA PERIFERIA CON OCCHI NUOVI
Giuseppe Strappa
Il problema dello studio della nostra periferia, di una città moderna che si è sviluppata in modo contraddittorio nel territorio di confine tra tessuti consolidati e campagna, è quello di leggere un’edilizia nuova sulla quale, al confronto con la bellezza e l’autorità riconosciuta al centro antico, si è consolidato un giudizio sbrigativo di città instabile e vaga, non legittimata dalla storia: senza struttura.
Le tante letture che si sono succedute, dal neorealismo in poi, nella letteratura, nel cinema, nell’architettura, non hanno fatto che rafforzare l’immagine di un indefinito mondo di confine, a volte estremo, trasformando la realtà di quartieri, insediamenti abusivi, intensivi abitativi pubblici o di speculazione, in luoghi della mente tanto verosimili e consolidati da essere accettati come verità: dalla disperazione delle case popolari di Val Melaina in Ladri di biciclette, alla speranza delusa delle abitazioni del Quadraro di Mamma Roma, ai fondali urbani dei drammi di Rossellini, De Sica, Antonioni, Monicelli, Zampa, Pasolini. L’ultimo brandello di ordine cui aggrapparsi prima del naufragio nei casermoni disordinati, sembrava costituito, curiosamente, dalla rigidità del Quartiere Don Bosco, nella versione metafisica che ne ha dato di Fellini o in quella ironica e malinconica di Dino Risi. Oltre questa soglia, astratta e simbolica, si stendeva un territorio di conflitto senza monumenti e senza memoria, che si alimentava di infiniti segni e permetteva infiniti codici.
Una città strabica, peraltro, che ha sperimentato il mito populista della crescita per quartieri indipendenti proprio nel momento di transizione della città da capitale di stampo ancora ottocentesco verso un incerto futuro di metropoli. Che ha continuato a proporre, con i “comparti” del piano del ’62, una crescita per brani isolati in un verde fragile, virtuale, trasformato presto nei prati desolati cui è legata l’immagine letteraria della periferia romana, e saturato poi, a ondate dalle successive, da caotiche espansioni di frettolosa edilizia privata, epilogo inevitabile e provvisorio di un naufragio amministrativo ancora in corso.
Non è stato deliberatamente riconosciuto alla periferia romana quel valore culturale che pure doveva essere evidente, né individuato alcun processo formativo che ne spiegasse ragioni e vocazioni. Eppure la forma del suolo strutturata da lievi crinali già in parte abitati, separati da compluvi dove scorrevano le marrane, ha costituito il riferimento alla struttura di percorsi e perfino alla costruzione dei primi tessuti di speculazione o abusivi degli anni ’50, in un inconscio rispetto di un territorio storico ancora operante. Per questo la sua struttura è stata volutamente ignorata: perché una città senza forma sembrava aprirsi a qualsiasi possibilità e, dunque, a qualsiasi forma, anche alla più apparentemente improvvisata. La colpa è stata attribuita soprattutto alla brutalità degli interventi privati, ai “palazzinari” senza scrupolo. Anche se, credo, qualche responsabilità, seppure marginale, abbiano avuto alcuni interventi “informali” di illustri architetti che, nelle espansioni originate dalla legge 167 del ’62, hanno indicato la strada di un ordine astratto e individualistico di parti isolate di città a fronte di un disordine generale del territorio. Esattamente il contrario di quello che sarebbe servito.
D’altra parte il fallimento del progetto per il Sistema Direzionale Orientale, che avrebbe dovuto organizzare, con i quaranta milioni di metri cubi previsti, l’intera struttura urbana di un’area immensa comprendente Pietralata, il Tiburtino, il Casilino e Centocelle, è stata l’espressione plastica dell’impotenza della politica di fronte ai problemi reali.
La periferia romana sembrava condannata a incarnare l’essenza pittoresca della modernità urbana. Una modernità che ha avuto i suoi cantori, che interpretavano la frammentazione e il disordine urbano come germe di figure in continua rigenerazione. Col risultato concreto di legittimare, in qualche modo, la disinvoltura con la quale ancora oggi si procede per parti o, meglio, per spartizioni, attraverso insediamenti autonomi e tuttavia, non autosufficienti, incapaci di comporsi a formare una vera metropoli. Schegge che si vanno ormai saldando o meglio giustapponendo senza che nessuna struttura razionale, tra polarità immaginarie e centralità rimaste sulla carta, le possa realmente integrare. Le proposte di questi giorni per il nuovo stadio di calcio, contro la stessa cultura contemporanea delle città europee, prevedono strutture autonome d’iniziativa privata: migliaia di metri cubi di nuove abitazioni isolate intorno a un centro vuoto, una struttura separata e monofunzionale. E’ la vittoria del contingente e del casuale, della trattativa tra politica e promoter.
Un dato è evidente dalla constatazione del fallimento del piano del ’90: il “generoso” dimensionamento dell’edilizia privata ha portato a due esiti ugualmente disastrosi.
Da una parte la dilatazione delle quantità realizzabili ha indotto a un notevole abbassamento, oltre che della dotazione di servizi, anche privati, della qualità edilizia dei nuovi quartieri, costruiti con un cinismo sconosciuto perfino agli interventi speculativi dei decenni del dopoguerra; dall’altra il numero elevatissimo delle unità immobiliari immesse sul mercato ha comportato il netto prevalere dell’offerta sulla domanda senza peraltro produrre, com’è avvenuto in altre parti del mondo, una significativa riduzione dei prezzi di vendita. Si ripropone, in altre parole, quel vistoso e devastante fenomeno di rendita di posizione contro cui per decenni si è scagliata la parte più impegnata della cultura architettonica romana ma che ora sembra accettato come inevitabile portato dei tempi. Basta osservare le recenti espansioni di edilizia privata, ormai unica forma di costruzione abitativa, che hanno invaso le aree libere lungo le consolari, per rendersi conto di come i tipi edilizi impiegati siano sostanzialmente gli stessi di quelli degli anni ’80, ma dilatati in altezza e profondità, “gonfiati” dalla labilità delle regole e dalla mancanza di una qualsiasi idea di città. Ritornano perfino gli stessi dettagli, gli stessi balconi, le stesse facciate dove le aperture si affollano banalmente secondo un elenco ignaro di ogni regola, interrotte a volte, senza pudore, da qualche patetico tentativo di “ravvivare” la composizione con improbabili partiti diagonali.
Questo quadro desolante dà conto di una condizione, ma esprime anche, credo, l’urgenza del cambiamento. Istanza particolarmente avvertita da un gruppo di docenti e dottorandi del nostro dottorato Draco in Architettura e Costruzione i quali hanno studiato la possibilità di riconoscere aspetti progressivi in alcuni quartieri della periferia romana costruiti con finanziamenti privati. Quartieri, cioè, realizzati da una categoria imprenditoriale storicamente considerata tra le più arretrate e voraci della Capitale, che ha invece messo in campo, nei casi di studio esaminati, insospettate capacità di scelta e anche, in alcuni casi, di vera ricerca. E’ un dato tanto più rilevante perché riconosciuto in un momento della crescita urbana nel quale la mano pubblica sembra del tutto latitante, avendo da tempo rinunciato a fornire qualsiasi contributo alla qualità della produzione edilizia. E, d’altra parte, assegnando un compito di mediazione alle procedure di progettazione, la politica non ha mai dato troppo peso al ruolo propositivo e innovatore che l’architettura potrebbe svolgere nel ricomporre i pezzi dispersi delle periferie.
I testi che seguono spiegano ampiamente le ragioni scientifiche di questa nuova attenzione per la “città privata” che ha coinvolto criticamente anche la disciplina dell’estimo, spesso confinata, in ricerche come questa, in un ambito di competenze isolato dai problemi dell’architettura della città.
Vorrei però rilevare l’ottimismo con il quale questi docenti e giovani ricercatori hanno guardato a un passato recente nel quale sembrava difficile leggere segnali positivi. Leggendo da progettisti e oltre i luoghi comuni, com’è giusto che sia, anche nel desolato banale quotidiano i segni di un possibile cambiamento.