di Giuseppe Strappa
in «Industria delle Costruzioni» n° 356, giugno 2001
Non c’è dubbio che molti architetti romani sognano per la loro città scintillanti, modernissime costruzioni sulle cui coperture qualche Mègane Gale, come sul titanio del museo di Bilbao, possa compiere acrobatiche evoluzioni: il lampo del futuro che fa irruzione tra le polverose mura di Roma, il cambiamento atteso da tempo.
L’esito di recenti concorsi di progettazione (la Galleria d’arte contemporanea di Zaha Hadid, la Galleria comunale di Odile Decq), l’incarico a Richard Meier per la nuova sede dell’Ara Pacis, sembrano avallare, infatti, l’idea di una Nuova Roma costruita a immagine e somiglianza dei più consumati modelli imposti da un mercato globalizzato e pervasivo.
Ma qualcuno si comincia a chiedere se questa ammirazione entusiasta per l’architettura-spettacolo di Parigi o New York, questo cercare di balbettare un inglese alla Alberto Sordi, non riveli il sintomo di un’ansia di aggiornamento un po’ provinciale che finisce per nascondere una sorta di colonialismo culturale, la rinuncia a un contributo originale che la cultura architettonica romana è pure obbligata a dare dalla sua storia, anche moderna.
Non a caso il tema della “lingua” architettonica che i nuovi edifici romani dovranno scegliere, il problema dell’affinità o della contrapposizione con l’esistente, ha costituito il filo conduttore di molti interventi al convegno dell’ARCo, intitolato a un celebre luogo brandiano, “l’inserzione del nuovo nel vecchio”, appena concluso nei locali ristrutturati dell’ex Mattatoio.. Un problema la cui soluzione non può essere oggettiva: il progetto, qualsiasi progetto, ha una sua non eludibile sostanza critica, implica scelte, indicazioni di valori. Ma, se la lingua può essere appresa, essa può essere compresa in profondità solo da chi condivide solidalmente la cultura che l’ ha generata. E forse ha ragione Ruggero Martines quando sostiene, semplificando polemicamente il problema, che un architetto americano sarà indotto a disegnare piuttosto un oggetto che un luogo, così come la città americana, dove opera, privilegia l’individualità degli edifici rispetto alla collettività degli spazi urbani. Roma è invece l’eredità di infinite sovrapposizioni che trascolorano l’una nell’altra, dove il molteplice e il diverso viene sempre riunito nell’unità dello spazio pubblico: questo flusso di vita e di storia, che finisce per nobilitare il più povero marciapiede con la presenza immanente del passato, è il vero bene da tutelare. L’architettura non può, allora, che aprire nuovi paesaggi il cui senso è dato dal più vasto paesaggio della scena urbana. Della quale ogni nuova, necessaria trasformazione, dovrà tener conto. Perfino via dei Fori imperiali (si rileggano in proposito le parole di Cesare Brandi) potrà essere letta, allora, non solo come imbarazzante prodotto della retorica di regime e ostacolo agli scavi archeologici, ma eredità della Roma moderna, segno futurista nel silenzio dei fori. Secondo, peraltro, un’idea di bellezza che, come ha ricordato Alessandro Anselmi, non è più quella classica: ha metabolizzato le esperienze delle avanguardie, le frammentazioni della modernità. Bene ha fatto l’Ordine degli architetti di Roma a promuovere la divulgazione delle nostre architetture moderne: l’ esempio di alcune di loro ha un valore etico, fondante: dimostrano come anche nella Roma moderna, quando l’architettura ha avuto solide radici nella storia e nella lingua condivisa, non tutto è stato costruito contro la città.