L’OPERA DI GIULIO MAGNI, ARCHITETTO ROMANO

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Giulio Magni, Mercato Hala Traiani aBucarest, 1895

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di Giuseppe Strappa

in AA.VV., Il Palazzo della Marina, Roma 1995

La vasta opera dell’architetto Giulio Magni, uno dei contributi più significativi alla costruzione e al dibattito architettonico della Capitale alla fine del XIX ed agli inizi del XX secolo, può, a ragione, essere ritenuta esemplare del complesso passaggio dell’architettura romana alla prima fase della modernità, quando alla nozione tradizionale ed accademica di organismo architettonico (degli elementi, delle strutture, degli impianti architettonici derivati da un metastorico quanto inevitabile Museo della Storia) si va sostituendo una diversa, attuale ed originalissima, concezione critica dei caratteri degli edifici come portato di un processo in atto, che accoglie la trasformazione indotta dal mutare dei tempi come “incremento”, non sostituzione, di un patrimonio di conoscenze tecniche ancora operanti.

Lo stesso ambiente familiare, di cultura profondamente radicata nella tradizione romana, ha lasciato un segno importante nella formazione del giovane architetto, nato a Velletri il 1° novembre del 1859 da uno storico dell’arte, Basilio (1831-1925) autore, tra l’altro, di una Storia dell’Arte italiana dalle origini al secolo XX (Roma 1900, 1902) e di un saggio Sopra l’Architettura (Roma, 1876) e da Margherita Targhini, figlia di Pietro, alto funzionario della Segreteria di Stato e di Caterina Valadier, figlia dell’architetto Giuseppe Valadier e della marchesa Laura Campana.

I primi disegni di scuola mostrano la prematura vocazione dell’architetto romano alla deroga sottile, alla deformazione appena accennata dei canoni classici, insieme all’uso coerente della decorazione come strumento retorico teso a favorire la leggibilità dell’edificio. Si vedano gli elaborati a penna e acquarello per il concorso Poletti bandito dall’Accademia di san Luca nel 1881 (anno del diploma di Magni all’Accademia di Belle Arti) sul tema di “un battistero isolato da collocarsi di fronte ad una cattedrale del XV secolo”[1] : se paragonato ai disegni del vincitore Giovanni Busatti (col quale collaborerà agli esordi dell’attività professionale) autore di un progetto di stretta osservanza storicista, il disegno di Magni introduce nell’organismo ottagonale­­ della tradizione quattrocentesca varianti strutturali (come l’audace rapporto proporzionale tra la struttura portata della cupola e le strutture collaboranti dei portici) e decorative (come la disinvolta­­ collocazione delle statue di angeli in chiave agli archi di coronamento del tamburo) che dovevano sembrare sorprendenti nel quadro di una cultura accademica concentrata sulla rivisitazione filologica dell’antico. Autonomia intellettuale che si rilegge, ancora più marcata, nei rapidi disegni a matita e acquarello della prova ex tempore, seconda fase del concorso Poletti, che richiedeva lo studio di “una torre campanaria da collocarsi di fianco ad una cattedrale del sec XV e XVI”.

A soli vent’anni Magni compie le prime esperienze di cantiere con la sopraelevazione del convento all’angolo tra via Cicerone, via Belli e via Visconti, sovrapponendo all’organismo esistente, fortemente plastico-murario, portante e massivo, una semplice conclusione, portata e leggera, su due piani. La nuova struttura risulta virtualmente trilitica al piano più basso, con colonne binate alternate a pilastri tra i quali le finestre occupano l’intero specchio libero fornendo l’indicazione dello spazio vuoto, mentre al piano alto viene conclusa da archi ribassati che sostengono la copertura. La costruzione, appena increspata da un’astratta decorazione vegetale, è conclusa dalle falde nude della copertura a tetto priva di cornicione, mentre la vera fascia di unificazione è costituita dalla trabeazione continua al piano sottostante: un’architettura poco romana che, pur rispondendo ai criteri di relazione “necessaria” tra le parti dell’organismo, appare già sensibile alle innovazioni favorite dal clima eclettico postunitario e sembra anticipare quel modernismo discretamente cosmopolita che verrà introdotto a Roma a distanza di pochi anni (si vedano gli esempi di fine secolo come I’altana del villino Aletti di Giuseppe Sommaruga o la copertura del convento di Notre Dame des Oiseaux a piazza Galeno di Carlo Busiri Vici)[2].

Se Magni fornisce presto il proprio contributo al problema dei grandi lavori che si vanno eseguendo alla fine del secolo nella Capitale collaborando al lavoro di Giuseppe Sacconi per la costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II e partecipando, insieme a Camillo Pistrucci, con un discusso progetto al concorso per il Palazzo di Giustizia, è dal 1886 e, soprattutto, dal 1887 che inizia un intenso, concreto tirocinio progettuale segnato dall’apertura dello studio professionale in via Cernaia 51 e dalla presentazione al Ministero della Pubblica Istruzione i titoli accademici per l’iscrizione all’Albo degli Architetti di Roma.

In questi anni esegue un notevole numero di progetti per case di abitazione plurifamiliari che individuano un tipo edilizio di casa in linea a corpo doppio strutturale e triplo distributivo che si va consolidando nell’edilizia romana di fine secolo come conclusione di un lungo processo di trasformazione che parte dalla rifusione dei tipi unifamiliari di origine tre-quattrocentesca. Solo in questo periodo, del resto, quello della casa a in linea sul perimetro dell’isolato comincia ad essere un tema consueto per gli architetti romani: nei tre secoli che hanno preceduto l’unità d’Italia (dai tempi delle espansioni di Campo Marzio e Borgo Nuovo) il tessuto residenziale si era strutturato per trasformazione dell’edilizia preesistente, attraverso un processo di plurifamiliarizzazione, per molti versi spontaneo, dei tipi a schiera che spesso richiedeva più l’intervento del capomastro che dell’architetto. Se questo processo, ancora in atto alla fine del secolo, porterà il suo contributo leggibile alla formazione della casa in linea romana, manca ancora, nella città dei monumenti, una tradizione consolidata di tipologie abitative complesse di notevole mole intenzionalmente progettate.

Magni, come gli altri architetti romani incalzati dall’urgenza del problema della costruzione del nuovo tessuto della Capitale, affronta il tema dell’edilizia abitativa con lo spirito di chi progetta monumenti, secondo il ruolo tradizionale dell’architetto che disegna episodi urbani irripetibili. L’architetto romano di fine secolo ha, in realtà, ancora una stretta consuetudine con il disegno delle emergenze; quando questo ruolo si trasforma egli “… appropriandosi del problema del tessuto – come scrive Caniggia – del connettivo edilizio, delle case, pare che non muti affatto l’immagine che ha di sé. Può affermarsi che, paradossalmente quando progetta case tenda a produrre “altro”: altro e più sublimato prodotto, analogo a ciò che i suoi predecessori avevano per secoli ideato” [3]. Anche Magni tende a sovrapporre alla struttura rigidamente seriale (se si eccettua il frequente decremento dell’altezza del mezzanino) delle abitazioni plurifamiliari che gli vengono commissionate, la leggibilità gerarchizzata in fasce di stratificazione architettonica degli edifici specialistici, segnatamente del palazzo. Si veda ad esempio il disegno della facciata del fabbricato commissionato da Gregorio Spositi in Via Principe Umberto (1886), dove ad una pianta sostanzialmente razionale ed aggiornata, processualmente ricollegabile ai tipi in linea ottenuti nell’edilizia di base per rifusione di unità di schiera incrementate del vano scala, corrisponde una facciata che gerarchizza criticamente l’organismo edilizio suddividendo artificialmente i piani in basamento a bugnato che comprende il mezzanino, elevazione con due ordini di finestre (uno ad ordine completo ed uno ad asola, ad indicare l’unità della quinta “portata” dal basamento “portante”), serie di finestre alludenti ad una fascia di unificazione, sebbene inserite all’interno delle paraste, cornicione e conclusione ad attico che riprende l’ordine dei piani dell’elevazione. Da notare, in questo primo esperimento, come l’unione di due corpiscala, come in tutte le rifusioni spontanee o comunque tradizionali, comporti l’uso di interasse pari, con la formazione di una linea di specularità centrale che non consente l’allusione all’ asse accentrante tipico dell’edilizia specialistica, specie monumentale. Ma presto, per altri edifici per abitazione, viene introdotta una simmetria imperniata sull’ asse centrale: si vedano a questo proposito,la casa d’affitto Baldini e Battistelli a San Lorenzo, tra via degli Equi, via dei Rutili e via dei Volsci, le officine ed abitazioni per Ferdinando Pesler in lungotevere degli Artigiani, il fabbricato Fiorentini, fuori Porta Portese, il fabbricato Bellentani, poi demolito, in via Plinio, ai Prati di Castello, la facciata dei quali è organizzata intorno all’asse del portale d’accesso. Il primo di questi progetti affronta il difficile tema, che diverrà una costante della casa in linea romana, dell’edificio su corpo triplo rigirante, risolto qui ancora con una lieve gerarchizzazione dei vani angolari, leggibile sui prospetti laterali ma non nelle bucature, ad interasse unificato, del prospetto principale, e la formazione di spazi aperti interni intasati da due piccoli appartamenti.

A giudicare dai documenti rimasti, il periodo successivo al 1887, gli anni della grande crisi edilizia, sembra segnato da una drastica riduzione degli incarichi: nel 1889 una costruzione ai Parioli (fabbricato Bendio) e una casa al Vomero, a Napoli; negli anni successivi progetta Casa Fellini, tra via Salaria ed il prolungamento di corso Italia, e una casa d’affitto, molto celebrata dai pochi storiografi che si sono occupati dell’opera di Magni, in via S. Martino della Battaglia. Negli anni di crisi produttiva Magni comincia a guardare all’estero: risalgono al 1893 alcuni disegni conservati nella Biblioteca Comunale di Velletri per una chiesa e per l’Archivio di Stato a Bucarest.

Nel 1894 Magni si trasferisce a Bucarest con il compito di architetto capo del Municipio, incarico affidatogli in seguito al successo ottenuto nei concorsi intenazionali per il Parlamento e la Stazione Centrale della capitale rumena. A Bucarest Magni soggiorna per oltre dieci anni progettando una grande quantità di edifici, tra i quali il Palazzo Comunale, I’Archivio di Stato, i Magazzini Comunali, la Borsa di Commercio, la Scuola Cattolica, il Seminario Centrale Ortodosso, oltre alle abitazioni di importanti esponenti della vita amministrativa rumena, delle gerarchie militari, del mondo professionale [4].

Attraverso la cultura architettonica balcanica, periferica ma ag­giornata, Magni entra in contatto con la ricerca mitteleuropea, con i nuovi linguaggi che si vanno sperimentando attraverso le diverse versioni nazionali del modernismo: la secessione, lo jugendstil, il liberty. Nella Romania di fine secolo appare evidente l’influenza esercitata dai legami culturali e politici con la Francia, testimoniata dalla presenza di numerosi architetti francesi e dal favore incontrato dall’art nouveau. All’arrivo di Magni a Bucarest uno dei più importanti edifici in costruzione, la Banca Nazionale, era stata progettata dal francese Bernard Cassien, mentre alcuni architetti romeni si erano formati presso scuole francesi (Mincu, Adronescu ecc.). L’amicizia con Raimondo D’Aronco, altro inquieto “architetto di ventura” che percorre l’Europa e la Turchia alla ricerca di lavoro, lo conferma nella necessità di sperimentare nuove strade.

E infatti la ricerca dell’architetto romano oscilla in questo periodo tra lo storicismo delle opere pubbliche maggiori ed il modernismo delle occasioni professionali private, le abitazioni per i burocrati, militari, borghesi dell’establishment rumeno. Nel progetto per il Palazzo Comunale di Bucarest, ad esempio, si fa esplicito riferimento al gotico veneziano più noto ed esportabile, quello della Ca’ d’Oro o del Palazzo Ducale, con una ricerca inedita, tuttavia, nei monumentali spazi interni; nel mercato coperto Hala Traian vengono adottate le coperture metalliche degli edifici utilitari sperimentate nei paesi europei più industrializzati, raccordate ad un involucro murario imponente e razionale; nella casa in Calei Victorei impiega la grande finestra circolare del liberty internazionale, dimostrando tuttavia un’adesione al modernismo “assai condizionata e parziale”, come rileva Portoghesi.

Mentre in Italia gli viene riconosciuta, secondo le nuove leggi sulI’esercizio della professione, la laurea in Architettura per equipollenza di titoli ed è nominato accademico di San Luca, non deve mancare al nostro una certa nostalgia di casa, se a Bucarest fonda e dirige, in quegli anni, la Fondazione Dante Alighieri rumena.

Va notato, per inciso, come lo stato attuale degli edifici costruiti nel periodo rumeno di Giulio Magni non sembri dei migliori: alcune opere sono andate distrutte, altre, come l’edificio della Vecchia Dogana, riferibile a quel clima di costruttivismo storicista che darà con Villa Marignoli l’esito più maturo, è stato parzialmente distrutto da un incendio nell’estate del 1990 ed era, fino al marzo del ‘92, in condizioni di totale abbandono; il palazzo del nunzio papale in via Pictor Stahi è stato oggetto di estese modernizzazioni, a partire dal 1991, con sostituzione di alcuni elementi architettonici.[5]

Nel 1904 prende di nuovo “stabile dimora a Roma” come testimonia una lettera del marzo al direttore dell’Accademia di San Luca.

Nel biennio 1906-7 diviene presidente, e in quello seguente vicepresidente, dell’Associazione Artistica tra i Cultori di Architettura , della quale era stato, prima della partenza per la Romania, tra i fondatori insieme a Basile, Koch, Ojetti, Piacentini, Pistucci, Sacconi[6].

In questo ambito Magni si batte per la libera concorrenza delle idee, contro la pratica dell’incarico diretto da parte delle amministrazioni pubbliche e il 28 aprile 1906 chiede, senza esito, che venga bandito un concorso pubblico per l’assegnazione dell’incarico di progettazione del nuovo Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio in via XX Settembre. Interverrà in seguito, nella polemica sorta sull’architettura definitiva della facciata dell’edificio, quando al progetto di Odoardo Cavagnari, ingegnere del Genio Civile, sarà opposta l’alternativa della proposta di Giuseppe Castellucci, architetto fiorentino esperto soprattutto in restauri. La commissione incaricata di prendere una decisione in merito (alla quale partecipano, insiema a Magni, Giuseppe Marmiroli, Corrado Ricci e Pio Piacentini), opterà per il secondo progetto, ritenuto “più rispondente allo stile classico”, come si legge nella relazione presentata nel febbraio del 19O9 al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.

Le opere che vengono commissionate a Magni negli anni immediatamente successive al rientro in Italia sono quasi unicamente ville per l’alta borghesia romana.

In questa fertile stagione progetta alcune delle sue opere più significative, dove la memoria degli esperimenti modernisti, ancora viva, si confronta col conservatorismo endemico del clima romano. Del quale però coglie gli aspetti meno scontati, quelli turbati dal contatto con le vicende internazionali, come nel villino Boni (poi De Robertis, poi Istituto Galileo Ferraris) nel quale, alla prima stesura del pittoresco progetto intrisa di reminiscenze mitteleuropee, succede una variante, realizzata, dove compaiono due grandi, stralunate volute barocche sui lati della facciata principale, quasi un ironico ripensamento sugli obblighi imposti dalla condizioni al contorno. O nella villa Marignoli in Via Po, all’angolo con corso d’Italia, del 1907, dove sono evidenti non solo gli echi del costruttivismo storicista di stampo mitteleuropeo sperimentato attraverso le declinazioni rumene, ma anche del lascito dimenticato delle opere romane di Edmund Street.

Nel 1908 Magni progetta, insieme a Giulio Podesti, il mai realizzato Stadio Nazionale nell’area del Circo Massimo, testimonianza di un’accezione retorica e mitizzata della romanità che, ancora agli albori agli inizi del secolo, troverà presto ispirati cantori. I due architetti ripropongono, in forma di libera ricostruzione archeologica, l’antico tracciato del complesso romano, con la sostituzione di un ingresso monumentale ai carceres del circo, l’eliminazione dell’arco trionfale sul lato curvo, e l’imposizione di un immenso colonnato emergente sul perimetro, nella parte più alta delle gradinate. Ma pochi anni dopo riemerge, prepotente, l’amore di Magni per la Roma del XVII e XVIII secolo, quella degli stucchi, delle deroghe eretiche ai canoni classici, delle infinite variazioni del linguaggio sovrapposte alla durevole struttura del tipo edilizio: a partire dal 1911 viene pubblicato a Torino Il Barocco a Roma nell’architettura e nella scultura decorativa, testo fondamentale per la diffusione di esempi architettonici sei-settecenteschi negli studi degli architetti romani.

Il 13 febbraio 1912 Magni accetta l’incarico di progettare la nuova sede del Ministero della Marina, opera che, conclusa nel 1928, costituirà il suo testamento architettonico. Non sono molte le opere importanti delle quali si occuperà in futuro: il grande Ministero lo assorbirà in modo prevalente per il resto della vita.

Nel gruppo di edifici del Testaccio I°, inaugurati nel giugno 1913 e per molto tempo ritenuti sua opera esclusiva, Magni sembra sia intervenuto su planimetrie elaborate dagli uffici tecnici dell’Istituto Case Popolari [7] ed il suo contributo sembra limitato alla composizione delle facciate, di singolare semplicità ed eleganza.

Negli anni successivi Magni si dedica alla progettazione di lottizzazioni e quartieri residenziali (via Paisiello, via S. Nicola da Tolentino ecc.).

Legato alla ricca famiglia Almagià, progetta per loro il villino Saul Almagià all’angolo tra via Romagnosi e via Mancini (dove ricompaiono, forse propiziati dalla vicinanza del grande edificio in costruzione, echi di alcuni temi del Ministero), il completamento della villa Almagià – Bondi in via degli Scialoja (iniziata nel 1910) ed il sepolcro Almagià Bondi. Indubbiamente la tensione, l’ansia di ricerca degli anni iniziali ha ceduto ad un professionismo composto ma tuttaltro che banale, dove la memoria, ormai lontana, delI’esperienza modernista viene riassorbita in composizioni consuete che non si distaccano se non per la cura del dettaglio, l’equilibrio raffinato delle proporzioni, dal coro delle costruzioni della Roma agli inizi del secolo, con l’eccezione della Facoltà Teologica Valdese in via Luigi da Palestrina, angolo via Cossa a Roma, dove l’impegno a differenziare il carattere dell’edificio dai temi degli edifici religiosi cattolici produce esiti inediti.

La chiesa Regina Pacis ad Ostia, inaugurata nel dicembre del ‘28 poco più di un anno prima della morte di Magni, è un esempio estremo di questa prassi architettonica priva di slanci, rivolta verso una solennità non di maniera, dove la quinta della facciata conclude la scalinata monumentale di accesso con un grande arco vetrato, reminiscenza di quella finestra termale che sembra essere uno dei temi favoriti dei progetti per il Lido di Roma agli inizi del secolo. Portata ad esempio delle tendenze conservatrici di Magni, quest’opera, bisogna tener conto, era stata ideata, col sostegno appassionato del vescovo di Ostia Vannutelli, già durante la guerra mentre Magni aveva completato disegni esecutivi e computi metrici fin dal 1919.

L’opera di Giulio Magni non ha incontrato un particolare successo critico e non ha goduto, riteniamo, dell’attenzione che pure meriterebbe.

A partire dalle osservazioni rilevate nel pionieristico saggio di Paolo Portoghesi, La vicenda romana, nel 1959 [8], si sono succeduti nel tempo studi (mai peraltro numerosi né ampi) che hanno messo a fuoco il ruolo fondamentale di un corpus di opere, progetti, disegni singolare per continuità e qualità degli esiti. Nell’indagine di Portoghesi, puntualizzata nel 1968 nell’ambito più generale di uno studio sulla cultura romana dell’eclettismo [9], I’importanza di Magni è rimarcata dall’individuazione di alcuni momenti o fasi di sviluppo dell’attività dell’architetto, che rispecchiano in qualche modo le incertezze e gli esperimenti generosi dell’architettura romana a cavallo del secolo.

Secondo una tesi che fornirà le coordinate interpretative dell’opera dell’architetto in quasi tutti gli studi successivi, Portoghesi ha letto nella parabola professionale di Magni un primo momento di incertezza nel periodo formativo alimentato da un “un’inquietudine” compositiva che non raggiunge uno sviluppo formale coerente, cui succede la fase dell’attività internazionale, della maturazione avvenuta a contatto con la cultura mitteleuropea. Questo periodo di ricerca prelude alla stagione più fertile dell’attività romana dell’architetto che si conclude con il periodo accademico delle ultime opere.

Un “ripiegamento” sul quale, in realtà, il giudizio non può che restare aperto, investendo il senso stesso dell’interpretazione del ruolo della tradizione nella pratica di architettura dei protagonisti romani nella delicata fase di passaggio alla modernità.

Il lungo disinteresse per l’opera del Magni si è interrotto solo in tempi recenti, come testimonia lo stato di abbandono in cui ha versato per decenni l’archivio di disegni, appunti, lettere depositato nei magazzini della biblioteca comunale di Velletri, del quale solo nel 1976 fu deciso un radicale riordino. Si deve al lavoro di appassionati cultori e all’opera di sistemazione di Sandra De Puppi se i circa 3000 disegni hanno trovato una catalogazione adeguata all’importanza delle testimonianze conservate. Gettando nuova luce e ponendo nuovi problemi sulla magmatica attività di un personaggio complesso e contraddittorio.

L’interesse per la figura di Giulio Magni é stato ripreso soprattutto dalle note di Giuseppe Miano [10] e di Accasto, Fraticelli, Nicolini. I quali ultimi, nel capitolo dedicato al ” liberty ufficiale” del loro volume su Roma capitale [11] mettono in rilievo l’evidente transizione dal coraggioso progetto per il Parlamento del periodo di più intensa ansia di rinnovamento dell’architetto, alle tematiche ”moderate” tipiche dell’ambiente romano agli inizi del XX secolo.

Più recentemente l’enigma della lettura dell’opera di Magni e del ruolo che in essa ebbe la progettazione del Ministero della Marina é stato affrontato nelle riflessioni di Gabriele Morolli sulla linea interpretativa di un Magni protagonista della “Secessione Meridionale” dove il Classicismo Eclettico dell’ultima stagione dell’architetto viene visto come cosciente volontà di raccordare, all’interno di una sintassi consolidata, declinazioni degli elementi architettonici classici assolutamente inedite: “che si cerchi nel repertorio del Classicismo – osserva il Morolli – inteso anche nel senso del suo piú ampio spettro semantico e cronologico e topografico, una sola forma che risulti modello imitato in questo caso dalle invenzioni linguistiche del Magni… Non la si troverà” [12].

Uno studio condotto su materiali in parte inediti è il mio Il Ministero della Marina e l’opera architettonica di Giulio Magni, in “Edilizia Militare” N° 29-31 1989.

Regesto dei progetti e delle opere .

Il regesto che segue, senza avere la pretesa della completezza, può costituire un utile orientamento nello studio dell’opera di Giulio Magni .

Per un regesto più completo si veda il capitolo dedicato a Giulio Magni in G. Strappa (a cura di), Tradizione e innovazione dell’architettura di Roma capitale. 1870-1930, Roma 1989.

Uno studio condotto su materiali in parte inediti è il mio Il Ministero della Marina e l’opera architettonica di Giulio Magni, in “Edilizia Militare” N° 29-31 1989, oltre al saggio riportato sopra (Caratteri dell’opera architettonica di Giulio Magni, in G.P.Consoli (a cura di), Il Palazzo della Marina, Roma 1995, con saggi di G.Muratore, P. Portoghesi, G.Strappa, R.D’Ascia e R.Militi.

1880

Sopralevazione di un convento tra via Belli, via Cicerone e via Visconti.

1881

Concorso Poletti di Architettura; tema: “Battistero isolato da collocarsi di fronte ad una cattedrale del XV secolo”; prova ex tempore: “Torre campanaria da collocarsi di fianco ad una cattedrale del XV-XVI secolo” (secondo premio) .

1883-87

Concorso per il Palazzo di Giustizia di Roma (con C. Pistrucci), progetto premiato .

1888

Secondo concorso per il Palazzo del Parlamento a Magnanapoli, Roma (progetto menzionato) .

1886

Fabbricato Pietroni in corso d’Italia tra Porta Salaria e Porta Pia, Roma (in collaborazione con G. Bussatti).

Casa d’affitto Baldini e Battistelli tra via degli Equi, via dei Rutuli e via dei Volsci, Roma .

Fabbricato Spositi, isolato X, in via Principe Umberto, Roma.

1887

Fabbricato Bellentani, via Plinio, via Virgilio, Roma (demolito).

Officine Pesler con annesse abitazioni per operai in lungotevere degli Artigiani, Roma .

Fabbricato Fiorentini, fuori Porta Salaria, Roma.

Case Zappalà, fuori Porta Pia, Roma .

Proprietà Poggi in viale della Regina, Roma.

Proprietà Poggi in via Salaria, Roma.

1889

Casa al rione Vomero, Napoli.

Archivio di Stato, Bucarest .

Fabbricato Bendio in viale Parioli, Roma.

1890

Casa Fellini tra via Salaria e il prolungamento di corso d’ltalia, Roma .

1893

Chiesa a Bucarest .

Concorso per la stazione centrale di Bucarest (secondo premio) .

1894

Casa d’affitto in via S. Martino della Battaglia 6, Roma.

Ospedale Comunale, Bucarest.

1895

Municipio a Bucarest.

Villa Scolari-Trolli, Iassi (Moldavia).

Mercato coperto Hala Trajan a Bucarest.

Villino proprietà ing. Almagià alla Palombina, Ancona, (1895-1905).

1897

Casa per l’ing. Popovici in via Venerei, Bucarest .

1898

Casa per l’ispettore generale C. Mironescu, Bucarest.

Casa per l’ ispettore generale Elie Radu, Bucarest.

Seminario Centrale Ortodosso in viale Maria, via Viilor, Bucarest .

Casa per il generale Demosthen, via Victoriei, Bucarest.

Stazione “Curtea de Arges”.

1899

Casa del dott. Andronescu, Bucarest .

Villa Scolari-Trolli, Jassi (BSM-BCV).

Sepolocro della famiglia Camitz, Bucarest.

1900

Abitazione dell’arcivescovo Mons. De Hornstein (forse in collaborazione), Bucarest .

Proprietà Almagià alla Palombina, Ancona .

1902

Restauro della proprietà B. Musu in via Victoriei, Bucarest.

1904

Villino Boni (poi De Robertis poi Istituto Galileo Ferraris), via Po 8, attuale via Aniene, Roma .

Concorso per il Palazzo del Palarmento, Bucarest (terzo premio) .

Proposta per tre villini di proprietà Almagià sull’area di Villa Ludovisi, Roma .

Barriera di Porta Romana, Velletri.

Villino Volterra presso la via Appia, Albano.

1905

Proprietà Aboaf al Saltino, via Corradi, Firenze .

Edificio per abitazione in via Lepsius, Alessandria D’Egitto .

Proposta per il Palazzo del Parlamento a piazza Colonna, Roma .

1906

Concorso internazionale per il Palazzo della Pace, L’Aja.

Villa Pacelli in via Aurelia , Roma.

1907

Studio per una galleria a piazza Colonna per gli imprenditori ingg. R. Penso e A. Minozzi, Roma .

Fabbricato Ranieri in via Cavour, Roma .

Villa Marignoli, via Po angolo corso d’Italia , Roma .

Ristrutturazione interna del villino Radwill, via Boncompagnl 22, Roma .

Villino De Orestis, Roma .

1908

Progetto per museo di Belle Arti, Roma.

Progetto per uno stadio nazionale sull’arena del Circo Massimo, Roma.

Ampliamento di Villa Pacelli (poi Gerini) in via Aurelia, Roma.

1909

Stazione doganale e di confine a Primolano.

.

1910

Villa Almagià (con annesse scuderie e autorimessa, demolita) sul lungotevere Flaminio, angolo via Fausta, attuale via Scialoja , Roma .

Abitazione del portiere della villa alla Palombina, Ancona.

Case popolari a Testaccio, Roma .

Sala ristorante annessa all’Eden Hotel, proprietà Almagià, in via Ludovisi, Roma.

1911

Villino Gizzi, Anzio .

Concorso per il Palazzo dell’Esposizione Internazionale di Belle Arti a Roma (progetto premiato).

Progetto di fabbricato per la Società Anonima “Old England”, Roma.

Domanda per un villino in via Mancini angolo via Romagnoli, Roma.

1912

Serra di Villa Almagià in via Scialoja (demolita), Roma .

Ministero della Marina, lungotevere Flaminio.

1913

Edificio (non identificato) a Velletri .

1914

Sitemazione dell’area di fronte al Teatro Argentina, Roma .

Sistemazione del Piazzale della Stazione Termini e zone adiacenti, Roma .

1915

Cinematografo per la Soc. Romana Cementi Armati (con l’ing. Provera), Frascati.

1916

Chiesa Regina Pacis, Ostia Lido .

1917

Padiglione ad uso magazzini, Fiuggi

1919

Proposta all’I.A.C.P. per un nucleo di case economiche presso Sant’Agnese, Roma.

1920

Fabbricati angolo in via G. d’Arezzo, via del Cavaliere, Roma.

Palazzina F.lli Sonnino in via Spontini, Roma .

Fabbricato S.A.I.E. in via S. Nicola da Tolentino, Roma .

Fabbricato S.A.I.E. in via Paisiello, Roma.

Palazzina S.A.I.E. in via Monteverdi, Roma.

Facoltà Teologica Valdese in via Cossa (progetto soluzione A e B), via Luigi da Palestrina, Roma.

1923

Villino Almagià in via Mancini, angolo via Romagnosi, Roma.

1924

Fabbricato Cesare Ratta in lungotevere degli Anguillara, Roma.

Villa Almagià-Bondi a via Scialoja in lungotevere Arnaldo da Brescia, Roma .

1925

Portineria e recinzione della proprietà Almagià-Bondi in via Scialoja, Roma.

Lottizzazione in corso Trieste, viale Gorizia, via Ajaccio, via Corsica, Roma .

Accademia Rumena a Valle Giulia, Roma .

Opere senza datazione

A Roma:

Fabbricato, via Nomentana 235 .

Convento Suore Carmelitane .

Convento, Ostia Lido .

Due villini, Ostia Lido .

Cappella Molinari, Campo Verano.

Altare, Chiesa di S. Patrizio .

Altare maggiore, Chiesa di S. Maria del Popolo

Sepolcro Angelici, Campo Verano

Sepolcro Almagià-Bondi .

Progetto per la nuova sede dell’Istituto

delle Belle Arti .

Progetto per la caserma del Corpo Reale Equipaggi annessa al Ministero della Marina.

Sistemazione dell’area Chigi.

Palazzo Pacelli.

Progetto per la Camera dei Deputati.

Fabbricato Lelli.

Fabbricato della S.A.C.I.R. in piazza Marmorata.

Fuori Roma:

Dogana Vecchia a Bucarest .

Hotel De Ville, Bucarest .

Proprietà Lahovaru, Bucarest .

Magazzini generali Entrepots, Bucarest.

Borsa di Commercio, Bucarest.

Scuola Cattolica di C. Calarasilor, Bucarest .

Scuola Mavrogheni pass. Kiseleff, Bucarest .

Casa Sternberg, boul. Elisabetta, Bucarest .

Progetto della “Scola Normalia de Istitutori” a Bucarest .

Ristrutturazione del Villino Gatteschi ad Alessandria d’Egitto .

Proprietà Vaccaro, Sofia .

Stazione ferroviaria centrale a Velletri

Monumento ai caduti, Velletri .

Sistemazione di piazza Romana, Frascati .

Sistemazione dell’area davanti a Villa Aldobrandini, Frascati.

Casinò e teatro, Fiuggi.

Sistemazione della zona termale, Fiuggi.

Ristorante, Fiuggi.

Villino Aboaf, Vallombrosa .

Chiesa cattolica S. Costanza.

Banca, S. Benedetto del Tronto .

[1] Magni ottiene il secondo premio ex aequo con Manfredo Manfredi . Cfr.Archivio storico dell’Accademia di San Luca, disegni nn. 1255-1261.

[2] V. Giuseppe Strappa, La continuità con la tradizione nell’edilizia romana del ‘900, in G.Strappa (a cura di) Tradizione e innovazione nell’architettura di Roma capitale. 1870-1930, Roma 1989.

[3] Gianfranco Caniggia, Permanenze e mutazioni nel tipo edilizio e nei tessuti di Roma (1880-1930), in Giuseppe Strappa (a cura di), Tradizione e innovazione …, cit., , pag. 19.

[4] Si veda in proposito Progetti e lavori eseguiti a Bucarest, Roma 1903, raccolta di foto delle opere rumene di Magni.

[5] Notizie gentilmente fornite dal prof. D. Derer, della Soprintendenza dei Monumenti Storici di Bucarest.

[6] Dal ‘91 al ‘93 ne era stato segretario.

[7] Cfr. Livio Toschi, Dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in AA.VV., IACP di Roma, tra cronaca e storia “, Roma 1986, pp. 134-135. Si noti, comunque, che presso la Biblioteca Comunale di Velletri sono conservati numerosi disegni e studi di piante con annotazioni di Magni (cod.1185-1223).

[8] Paolo Portoghesi, La vicenda romana, in “La Casa”, 1959.

[9] Paolo Portoghesi, L’Eclettismo a Roma, Roma, 1968.

[10] Di Giuseppe Miano si veda lavoce “Magni” nel terzo volume del “Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica” e la scheda relativa a Giulio Magni nel saggio Figure e voci per la città capitale, contenuto in: AA.VV., Catalogo della mostra Roma Capitale 1870-1911- Architettura e Urbanistica, Roma, 1984.

[11] Gianni Accasto, Vanna Fraticelli, Renato Nicolini, L ‘architettura di Roma Capitale 1870-1970, Roma, 1971.

[12] Gabriele Morolli, IlMinistero della Marina, in: Franco Borsi, Gabriele Morolli, I Palazzi della Difesa, Roma, 1985, pag. 165.

LA POLEMICA SUL RESTAURO DI PONTE SISTO

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di Giuseppe Strappa

La storia infinita dell'”arco di ferro” – l’agonia di ponte Sisto,

in “La Repubblica” del 13 settembre 1992.

Quando nel 1876 Angelo Vescovali, solerte e dimenticato burocrate comunale, pose mano al progetto per la trasformazione di Ponte Sisto, forse  non fu nemmeno sfiorato dal sospetto  che stava operando nel corpo vivo della storia.  Preso nel  vortice della febbrile attività edilizia che aveva seguito il trasporto della capitale a Roma, nascondeva probabilmente, in qualche angolo riposto della propria mente, come peraltro altri tecnici ed amministratori, un pregiudizio livoroso e incoffessabile: che molti dei monumenti antichi  non fossero, in fondo, che ostacoli ingombranti alla costruzione di una città moderna. Che molti  dei ponti sul Tevere grondanti di storia, ad esempio,  fossero semplicemente  ormai inadatti , per il grande ingombro delle pile piantate nel fiume, al flusso regolare delle acque  e , per la modesta carreggiata, al flusso crescente  del traffico . E di traffico Ponte Sisto, in realtà, ne poteva sostenere ben poco, con la sua sezione di sei metri e mezzo occupata , per di più, da due angusti marciapiedi laterali.
Tanto che Antonio  Canevari, rappresentante della commissione istituita per la regolamentazione del flusso del Tevere, ne aveva proposto, senza mezzi termini, l’immediato abbattimento.
Poichè il ponte doveva comunque sopravvivere per le proteste degli archeologi, Vescovali , con la diligenza dell’ ingegnere idraulico, pensò candidamente di  aumentare la “portata” del traffico sul ponte disegnando  due marciapiedi sospesi sull’acqua, sostenuti da una struttura in ferro  poggiata  sulle opere antiche, come se le auguste pietre fossero un suolo naturale che via dei Pettinari incontrava nel suo percorso in direzione di  Trastevere.
Gli scarni disegni del progetto che ci sono pervenuti descrivono un sistema di travi, tiranti, mensole in ferro, il cui   banale rigore viene concluso dalla decorazione di  un parapetto in ghisa, materiale di vocazione eclettica , disponibile a qualsiasi virtuosismo plastico.
Il progetto fu senz’altro approvato dal Consiglio Comunale che liquidò sbrigativamente l’opposizione dell’ingegnere Luigi Gabet, sostenitore tenace   della costruzione di un  nuovo ponte  nel rione Regola. Le nuove  opere furono così appaltate durante le festività  natalizie  dello stesso anno, rapidamente realizzate e  decorosamente  illuminate con lampioni a gas mentre qualche anno dopo i marciapiedi vennero raccordati a quelli dei nuovi lungotevere.
La brutale sovrapposizione  del moderno all’antico aveva generato un  ibrido vagamente indigesto ma anche un nuovo, involontario monumento che racchiudeva  l’essenza della storia edilizia romana. La sua immagine enigmatica, resa familiare dal tempo, trasudava  significati e messaggi  lasciando supporre, sotto la leggerezza  del metallo poggiato su strati di rovine, le aggiunte faticose, i crolli,  le ricostruzioni in  successione infinita. Il segno  inequivocabile ed estraneo  della nuova Roma  si sovrapponeva, a provvisoria conclusione di un’avventura consumata su ritmi secolari,  alla mole massiccia fondata da Agrippa, restaurata da Aurelio e Valentiniano, rovinata per la furia della piena del 792 d.C, ricostruita, presagio di nuove distruzioni,  da Sisto IV per il giubileo del 1475. E’ indubbio che la  solennità delle  magnifiche strutture quattrocentesche di Baccio Pontelli ne risultava compromessa.
Eppure il nuovo ponte non mancava di un suo fascino quotidiano e discreto, con gli alti marciapiedi che racchiudevano  lo spazio complesso del percorso interno a schiena d’asino dal quale  il fiume appariva progressivamente, via via che si raggiungeva  il centro del ponte.
Legato all’astratto nitore degli argini piemontesi, il ponte mediava  due mondi diversi, Trastevere e il rione Regola, ai quali non apparteneva. Era divenuto  col tempo  un piccolo universo dotato di carattere autonomo. Non proprio un ponte “abitato” come Ponte Vecchio a Firenze o il ponte  di Rialto a Venezia, ma almeno una strada addomesticata , partecipe della vita dei vicini quartieri: luogo cordiale di passeggiate, incontri, convegni fugaci, attraversamenti.
Nel ’31   le strutture ottocentesche corsero il rischio, non raro a quei tempi, di essere abbattute da Marcello Piacentini desideroso di ampliare il ponte sistino. Episodio, questo, che  la nobilita , in qualche modo, ai nostri occhi suscitando il  rispetto che sempre si ha per i sopravvissuti.
La leggittimità  delle sovrastrutture metalliche venne  di nuovo messa  in discussione negli anni ’60 quando,   credendo di riconoscere nel ponte una vocazione “parigina”, si provò ad occuparlo  con bancarelle più o meno  stabili. Alla richiesta di rimozione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti si accompagnò  l’auspicio della demolizione dei marciapiedi ottocenteschi. Iniziava una lunga polemica sulla opportunità  di conservare o meno  le sovrastrutture metalliche  che, se  nascondevano uno dei capolavori del Quattrocento romano ,  facevano  anche parte ormai di un contesto spaziale come i lungotevere, nel quale il ponte, se “liberato” delle aggiunte moderne, poteva apparire uno spaesato relitto .
La polemica non fu risolta  dal confronto, leggittimo ed utile, tra diverse scuole di pensiero sul restauro dei monumenti, ma da un’ incuria colpevole  che ha lasciato per anni marcire le strutture in ferro di Ponte Sisto. Ci si rese conto delle pessime condizioni in cui versavano le travi, e quasi per caso, solo quando nel ’75 un gruppo di studiosi guidati dal professor Gaetano Miarelli Mariani , in occasione del centenario della costruzione del ponte,  redasse un’accurata analisi storica e una proposta di restauro. Il resto è cronaca tristissima  degli ultimi anni. Qualche tempo dopo l’Amministrazione comunale  fece  mettere a nudo le travi. Un cartello spiegava che si trattava di “indagini conoscitive”. I responsabili delle indagini debbono aver avuto ampio modo di valutare le condizioni delle parti metalliche visto che per molti anni le strutture sono rimaste esposte, senza alcuna protezione, alle intemperie. Finchè, nel luglio del ’90, due anni dopo che i professori Giuliano Canella e Michele Mele ebbero accertato che la corrosione aveva divorato gran parte del materiale originale ,  i resti  delle strutture ottocentesche furono  pietosamente rimossi e abbandonati in un vecchio capannone  di Testaccio.
Così anche oggi il ponte continua a mantenere  il suo ruolo di simbolo dei tempi: le sue spoglie devastate, attraversate da cordoli di cemento e volgari pannelli di recinzione, mostrano i monconi desolati delle travi amputate. L’orgoglioso ponte imperiale , il monumento  del Giubileo sistino del 1475 si è trasformato stabilmente in  un territorio desolato, vago ed infido, da attraversare in fretta, ai margini della   città anche se  nel cuore del suo centro antico.
E mentre  la  Commissione Comunale per Ponte Sisto  si é espressa, dopo otto anni di studi,  a favore del  restauro delle sole strutture quattrocentesche del ponte, tecnici di diverse competenze, come l’asino di Buridano, si arrovellano nei dubbi di una nostalgia tardiva e si chiedono se non convenga  ricostruire con materiali nuovi la struttura demolita.

Opinione di Gaetano Miarelli Mariani

in «La Repubblica» del 27/7/97

Al prof. Gaetano Miarelli Mariani, docente universitario e direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro  che ha guidato il gruppo dei progettisti del restauro di ponte Sisto, abbiamo chiesto quali criteri hanno informato il progetto.

“Quando abbiamo cominciato a studiare il ponte – dice Miarelli Mariani – nessuno aveva intenzione di rimuovere le strutture in ferro. Abbiamo però cambiato opinione constatando che esse non erano più in condizione di reggere. La polemica che ne è seguita è spesso stata alimentata, in mala fede, senza conoscere il risultato  degli studi condotti trave per trave, che dimostrano  il degrado irreversibile delle strutture ottocentesche . Io sostengo che piuttosto che rifare le opere in ferro (che  dovrebbero essere adeguate alle  normative attuali e quindi anche   diverse dalle originali )  si dovrebbe  costruire un parapetto moderno: sono convinto che noi non  possiamo rifare un falso, una  struttura in stile.

Dal  punto di vista del metodo, tengo a precisare,  noi non abbiamo mai parlato di semplice “ripristino” delle opere quattrocentesche . Avevamo anzi proposto, provocatoriamente,  un parapetto in calcestruzzo prefabbricato per far capire che l’ intervento doveva essere moderno. Il problema restava, ovviamente,  da approfondire. Tolto il ferro si è scoperto poi che esiste ancora tutta la base e resti non insignificanti del parapetto quattrocentesco. Si tratterebbe dunque ora  di reintegrarlo.”            G.S.

Opinione di  Paolo Portoghesi

in «La Repubblica» del 27/7/97

Al prof. Paolo Portoghesi, docente di Storia dell’Architettura e profondo conoscitore  di Roma, abbiamo chiesto un parere sulle demolizioni delle strutture in ferro di ponte Sisto.

“Credo che sarebbe opportuno rimuovere tutte le strutture ottocentesche del ponte e conservarle in altro luogo – afferma Portoghesi- perchè sono essenzialmente un elemento di disturbo e  nascondono la fruizione dell’oggetto . Queste aggiunte alle strutture antiche  sono forse cose di un certo sapore  ma fanno parte della cronaca, come un’edicola di giornali o un lampione : possono al massimo commuovere i cultori di Roma sparita, mentre ponte Sisto è uno dei monumenti romani più significativi .

Rimontare poi ora la parte di  strutture già tolte sarebbe un’offesa alla ragione e all’economia. Se ci sono delle risorse utilizziamole per salvare qualche monumento importante che sta crollando piuttosto  che ripristinare  documenti di una necessità storica transeunte. Se per caso avessero messo delle gronde di ghisa sulla facciata di San Carlino credo che nessuno avrebbe dubbi a toglierle.  Un atteggiamento che io condanno è quello di rinunciare a giudicare, di conservare ad ogni costo: è il tradimento peggiore che si possa fare nei confronti di chi ha costruito. Se oggi noi difendiamo  l’ambiente è perché alla fine del secolo scorso a Vienna è stata fondata una scuola di storia dell’arte che ha diffuso una sensibilità per i valori ambientali . Utilizzare questa sensibilità per omologare tutto e rinunciare al giudizio è un errore . G.S.

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RIAPERTURA DI PONTE SISTO

Miracolo a Ponte Sisto,  in «La Repubblica» del 27/7/97

di Giuseppe Strappa

Se fosse apparsa la Madonna le facce non sarebbero state meno stupite. La piccola folla che, anticipando l’apertura ufficiale, si era riunita ieri sul “nuovo” Ponte Sisto, osservava come un’apparizione l’acqua lenta che scorreva sui due lati delle vecchie arcate, i mulinelli che investivano le pile di pietra. Erano diciotto anni che attendevano questo momento. Da quando il ponte quattrocentesco era stato segregato da una parete continua di lamiere “provvisorie” collocate per “indagini conoscitive”, ridotto ad un luogo inospitale, da attraversare in fretta: un pezzo di Bronx arenato nel cuore vivo di Roma.

Diciotto anni: una generazione. Eppure sono bastati due mesi di lavori e centociquanta milioni di lire per restituire, almeno, dignità (in attesa della sistemazione definitiva) ad uno dei ponti più belli di Roma.Tra i tanti fattacci che i monumenti romani potrebbero raccontare, la storia di Ponte Sisto è una delle più assurde e vergognose.  Comincia nel 1876, quando Angelo Vescovali, tecnico comunale immerso nel turbine dei lavori postunitari, pose mano all’ampliamento del ponte avendo in mente, con logica burocratica, due soli problemi: il flusso delle acque da regolamentare e il flusso crescente del traffico da assecondare ampliando la carreggiata. Per risolvere quest’ultimo furono collocati due nuovi marciapiedi a sbalzo retti da strutture in ferro, il cui banale rigore si pensò di mascherare con rivestimenti modanati in ghisa. Ma anche la sezione ampliata della carreggiata divenne troppo modesta per il traffico delle automobili e nel 1931, Marcello Piacentini riceveva l’approvazione del progetto di ampliamento: una nuova carreggiata di 16 metri ottenuta rimuovendo le strutture metalliche e affiancando un nuovo ponte all’antico, da rivestire con il paramento quattrocentesco, smontato e riposizionato.  Fortunatamente, nonostante l’appoggio di  Munoz, massima autorità del tempo nel campo del restauro, non se ne fece nulla.

Ma furono i rivestimenti di ghisa a segnare la condanna delle travi ottocentesche: le pesanti decorazioni sovrapposte ne avevano impedito la  manutenzione e quando nel ’75 un gruppo di storici guidati dal prof. Miarelli Mariani condusse un’accurata analisi del ponte, ci si accorse, quasi per caso, che le travi in ferro erano marcite. Ma nulla si mosse fino ai fatidici Mondiali di calcio del’90, quando una squadra di operai resa disponibile dalla sospensione dei lavori all’Olimpico, fu incaricata di rimuovere le “ali” ottocentesche. Da allora caroselli di Esperti, Studiosi, Consulenti, si sono avvicendati al capezzale del ponte, dividendosi in Scuole di pensiero, riunendosi in Commissioni, scontrandosi con furore su questioni teoriche. Senza arrivare ad alcuna conclusione. Se il soprintendente Ruggeri si era espresso, peraltro, a favore della  rimozione delle strutture metalliche, nel ’92 il successore Zurli esprimeva parere diametralmente opposto.

Ma oggi, mentre la polemica sulla sistemazione definitiva è ancora arenata sulla questione se rimontare  le strutture metalliche o restaurare tout court il ponte quattrocentesco, avanza una terza ipotesi. Poiché sembra impossibile utilizzare le vecchie travi depositate in un capannone di Testaccio e il disegno originale di Baccio Pontelli risulterebbe ora estraneo alle quote ed all’immagine dei lungotevere umbertini, perché non progettare una struttura metallica completamente nuova, tecnologicamente avanzata, trasparente e leggera come un guizzo che si accosti alle strutture antiche, filologicamente restaurate, senza toccarle? Ne è convinto Maurizio Cagnoni, direttore dell’Ufficio Progetti Città Storica e protagonista del blitz della riapertura del ponte, che propone un grande concorso internazionale che riporti la città nel contesto della ricerca architettonica europea.  La decisione definitiva verrà presa, per decreto del ministro Veltroni, da una nuova commissione di esperti. Comunque vada, speriamo sia l’ultima.

CHIUSURA A TRANSENNA

RENZO PIANO, PALAZZO DELL’OPERA DI LA VALLETTA, MALTA (in costruzione))

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SAVERIO MURATORI, CHIESA DI SAN GIOVANNI AL GATANO (PISA)

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A. LIBERA, M. DE RENZI, PALAZZO DELLE POSTE IN VIA MARMORATA

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CASA IN LINEA A LUDWIGSBURG, GERMANIA

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F. PARDO CALVO, B.G. TAPIA, MUSEO ARCHEOLOGICO DI OVIEDO

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GUSTAVO GIOVANNONI, STABILIMENTO DELLA BIRRA PERONI A ROMA

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LE CORBUSIER CHANDIGAR

NUOVE CITTÀ MEDITERRANEE


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Segezia

di Giuseppe Strappa

in AA.VV. Metafisica costruita, Roma 2002.

Tra le molte letture delle città di fondazione costruite in Italia tra le due guerre, una delle più fertili, ritengo, possa essere quella di interpretarle non solo come risultato di contingenze politiche, ma come esito di un processo che opera, nel fluire della storia, su tempi lunghi e, anche, prodotto di una forma di rinuncia all’individualismo, a quella volontà di “distinguersi ad ogni costo” nella quale Giuseppe Pagano aveva colto uno dei più insidiosi pericoli dell’architettura moderna. Interpretarle, in altri termini,  come adesione, seppure non priva di ambiguità e contraddizioni, a una più generale langue comune che la cultura architettonica italiana del ‘900 tenta di elaborare. O meglio, stenta a riconoscere nelle condizioni di crisi generate dalla contrapposta interferenza degli echi rivoluzionari che arrivano dalle aree nordeuropee, del dettato storicista trasmesso dalle accademie, dell’interpretazione romantica che non pochi architetti coinvolti nel dibattito sull’architettura nazionale fornivano della tradizione di edilizia minore.
Riconoscibile attraverso un insieme di caratteri condivisi, la radice di questa lingua, spesso indicata come specificamente nazionale dalla pubblicistica della fine degli anni ’20 e degli anni ’30, appartiene, in realtà,  ad una vasta koinè architettonica che apparenta contesti civili, per altri versi diversissimi tra loro, formatisi intorno al bacino del Mediterraneo.
Una vasta area culturale della cui specificità si comincia a prendere coscienza a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella cultura europea: il problema di un’identità mediterranea è un portato della modernità, delle trasformazioni culturali e politiche che hanno spostato verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Se quella antica, infatti, era la storia del mondo vista con gli occhi del Mediterraneo, è anche vero che si trattava della storia dei greci o dei romani, essendo il Mediterraneo soprattutto luogo di conflitti tra culture diverse. Solo per un breve periodo l’uomo mediterraneo aveva sentito come patria condivisa le terre romanizzate che andavano dalla penisola anatolica alla Spagna e all’Algeria: dopo il declino della grande unificazione romana le unificazioni parziali bizantine, arabe, ottomane, sotto la spinta dell’intolleranza e del proselitismo imposti dalle nuove religioni monoteistiche,  non avevano fatto che acuire divisioni tra culture diverse.
In architettura, in particolare, la coscienza di una specificità mediterranea si forma con l’insorgere del Movimento moderno: come ogni identità essa nasce da una contrapposizione, dal riconoscimento, a volte contraddittorio e non sempre lucidamente cosciente negli scritti dei protagonisti, di istanze antagoniste operanti nella storia, identificabili attraverso la polarizzazione, nell’Europa del nord, delle ricerche per un’architettura caratterizzata dalla serialità legata al mondo delle macchine ed alla produzione industriale. Queste ricerche, coerenti con il processo formativo di aree culturali che coincidono per larga parte con le regioni storicamente segnate dal gotico, si traducono in forme opposte a quella nozione di organicità  che era stata per secoli il vero carattere specifico del mondo mediterraneo, con il programmatico distacco tra le componenti dell’organismo edilizio: l’indipendenza della distribuzione dal sistema statico-costruttivo, della quale la “pianta libera” era il portato più evidente, l’indipendenza della leggibilità esterna dalla costruzione, testimoniata in forma di manifesto dalla “facciata libera”.
Si fa quindi strada, in modo complesso ma sinteticamente evidente, l’idea di un’ architettura moderna  basata su ideali umanistici, un mondo di forme “necessarie”, per molti versi divergenti da quelle del Movimento moderno anche se non prive di superficiali assonanze, derivate dal processo formativo dell’edilizia a matrice muraria, che lega organicamente, attraverso la funzione portante e chiudente della parete, distribuzione, struttura, leggibilità.
Il riconoscimento di questa diade di polarizzazioni riscontrabili nell’architettura moderna tra le due guerre va operato superando la confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti. Caso esemplare è quello dei ponderosi volumi che Alberto Sartoris dedica alla nuova architettura, dove la distinzione tra climat mediterranéens e climat nordiques viene dedotta esclusivamente attraverso le aree geografiche di appartenenza, indipendentemente dal carattere degli edifici selezionati e non tenendo conto della complessità del problema, della nostalgia delle origini che il mondo mediterraneo, ad esempio, ha sempre suscitato negli architetti nordici, da Asplund a Markelius ad Aalto ,
E sull’idea di “mediterraneità” si scrive molto, anche in Italia, tra le due guerre, senza dedurne, tuttavia, nozioni trasmissibili che superino un generico riferimento alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi finendo per rendere incerta o ambigua ogni definizione . Soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1934 la polemica sui caratteri dell’architettura nazionale che ha diviso gli architetti italiani coincide spesso con quello sull’architettura mediterranea. L’idea che si vuole avallare è quella di una tradizione antica della quale si propone un aggiornamento: la ripresa della semplicità dei volumi, la lezione della varietà di forme nella spontanea composizione delle abitazioni isolane. Se si fa eccezione delle note posizioni critiche  di Persico e Pagano, di alcune riflessioni interne al gruppo che si forma intorno alla rivista «Quadrante» e di isolate osservazioni (come quelle di Giuseppe Capponi, che riconosce nelle forme della casa mediterranea, che “stranamente esprimono quell’idea che è così propria della più moderna concezione dell’architettura”, non il generico fascino del primitivismo, ma il risultato di un processo ), il dibattito è informato a generici richiami al pittoresco e alle qualità “spirituali” della tradizione mediterranea da contrapporre al “materialismo” dell’internazionalismo nordeuropeo.
E tuttavia un carattere distintivo può essere riconosciuto invece, al di là delle affermazioni dei protagonisti, nella nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, molti progetti e costruzioni degli architetti moderni che guardano al Mediterraneo. Continuità leggibile tanto nei tipi edilizi quanto nel linguaggio architettonico inteso, appunto, nel senso di declinazione individuale di una lingua condivisa. Si pensi ad esempio alle ricerche sulla casa a corte, vera matrice spaziale delle forme mediterranee, riproposta da Luigi Piccinato per la sua casa coloniale esposta alla V Triennale di Milano. “È invero interessante vedere – scrive in proposito Piccinato – come in fondo la storia ci offra un tipo di casa mediterranea comune a quasi tutti i popoli vissuti intorno al mare mediterraneo:un tipo in cui le differenziazioni tra nazione e nazione sono più superficiali che sostanziali” . E si pensi anche, contrapposta alla discontinuità dei sistemi elastici e discreti delle aree nordeuropee, alla continuità plastica della parete muraria e dei relativi nodi tettonici, spesso  impiegati spontaneamente, ma a volte criticamente anche indagati  da architetti come Giuseppe Pagano. Il quale in Architettura rurale in Italia  riconosceva nel marcadavanzale il segno della permanenza  di una lingua ancora operante, che Pagano stesso impiegava concretamente, peraltro, nelle facciate di palazzo Gualino.
Ma continuità, anche, con le strutture del territorio, che introduce una nozione di paesaggio che meriterebbe di essere indagata a fondo: contro la tradizione pittoresca anglosassone della landscape architecture e propiziata dal legame tra costruito e ambiente imposto dalle bonifiche, si forma un’idea di paesaggio inteso come aspetto visibile della struttura del territorio, espressione organica dei valori di un contesto civile del quale non solo e non tanto la natura incontaminata, ma le aree produttive, la natura addomesticata dal lavoro dell’uomo costituiscono gli elementi fondanti.
Di questa nozione organica e antimeccanica di paesaggio costruito le città di fondazione forniscono forse l’interpretazione più evidente attraverso il loro legame di necessità col territorio, l’unità dell’ impianto basato sulla gerarchia dei percorsi, la plasticità muraria degli edifici,.
Nel pieno della modernità Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia , sorte intorno a Roma tra il 1928 ed il 1936, rispondono ancora, in diverso grado, ai principi di organicità stabiliti dal rapporto di continuità col retroterra agricolo, dalla gerarchizzazione dei percorsi legati alla viabilità territoriale, dalla relativa collocazione e individuazione dei tipi  edilizi, dal carattere delle costruzioni coerente con la tradizione muraria nonostante gli aggiornamenti.. Organicità che ha inizio dal rapporto di congruenza con il processo storico di trasformazione del territorio: esse partecipano alla conclusione dell’ultima fase di un ciclo che, secondo un “tipo territoriale” piuttosto costante nell’Italia centrale, parte dal recupero della viabilità romana, continua con la ristrutturazione degli insediamenti di promontorio  dei monti Lepini e si conclude con la formazione di insediamenti rurali di fondovalle e pianura, di origine produttiva.  La fondazione delle città dell’Agro Pontino, per questa ragione, é da associare alla conclusione dei grandi cicli di antropizzazione del territorio del bacino del Mediterraneo che hanno portato, anche, alla bonifica della piana di Salonicco, delle aree del Basso Rodano, della Mitidja algerina.
Tra queste città sembra utile riproporre come esemplare il caso di Sabaudia, per essere stata considerata dalla storiografia ufficiale del dopoguerra la città di fondazione più innovativa, mentre, come cercheremo di dimostrare,  testimonia con concreta evidenza  la continuità con gli organismi urbani tradizionali
Nonostante sia stata interamente progettata nel 1933, e risulti quindi il prodotto di quel modo critico di pianificare gli interventi che nelle aree nordeuropee trovava esito nella contrapposizione tra città e contesto, Sabaudia presenta evidenti legami di continuità col suo territorio: una continuità storica in quanto ultima fase di un processo di antropizzazione che procede da monte verso valle, secondo cicli e fasi tipiche di ogni processo insediativo del territorio italiano; continuità spaziale dovuta alla maglia di percorsi e nodi territoriali gerarchizzata in fondovalle dalla pedemontana e dall’Appia, e strutturata attraverso il sistema delle miliare; continuità tipologico-processuale in quanto la forma della città è “pertinente” alla propria fase storica, che è quella di una progressiva riutilizzazione delle aree produttive di pianura e di fondovalle, quale recupero di aree anticamente civilizzate, entrate in crisi nel periodo tardo antico.
L’organismo urbano di Sabaudia, come gli altri centri rurali della bonifica, è quindi il portato di percorrenze territoriali. Tanto che Sabaudia può essere considerata un borgo agricolo fortemente gerarchizzato da una posizione (discontinuità orografica) e da una viabilità (raccordo con la viabilità costiera) singolari che le conferiscono il ruolo di nodo territoriale: “Essa non è una città -scriveva Piccinato- ma un centro comunale agricolo: indissolubilmente legato al suo territorio e alla terra che produce”.
Questo legame tra insediamento e territorio risulta evidente dalla gerarchizzazione degli assi urbani secondo un impianto polarizzato dagli edifici di servizio (specialistici) che costituiscono l’origine dei percorsi, mentre nella periferia viene dislocata, a somiglianza degli insediamenti tradizionali, l’edilizia specialistica  antipolare, raggruppata per affinità tipologica.
Si noti infatti come un ruolo centrale assuma il sistema delle percorrenze relativo alla piazza del Comune ed ai suoi edifici specialistici, il quale “annoda” gli assi accentranti di  corso Principe di Piemonte, corso V. Emanuele III e corso V. Emanuele II e come quest’ultimo risulti fondamentale per costituire la continuazione di una delle direttrici territoriali che partono dall’Appia in direzione della costa.  In opposizione all’ideologia dello zoning del moderno nordeuropeo, gli architetti che idearono Sabaudia non disegnarono un piano urbanistico: progettarono l’architettura della città avendo in mente un tessuto di edifici orientato da percorsi; pensarono unitariamente la forma delle costruzioni e l’impianto di di strade e viali.
E il nesso organico tra edificio e tessuto, tra distribuzione interna e percorsi esterni appare evidente nella scelta dei tipi edilizi impiegati, che costituiscono un aggiornamento processuale dei tipi tradizionali. Si veda il Palazzo del Comune, nel quale la struttura dei vani gerarchizzati è organizzata dai percorsi interni su cortile polarizzati dalle scale, o il complesso religioso in piazza Regina Margherita, dove il vano nodale della chiesa è accentrato dalla continuazione di un asse urbano che dal portale raggiunge l’altare, mentre  la “Casa delle suore” è organizzata, come negli impianti conventuali, su un percorso che si diparte dal presbiterio.
Il carattere degli elementi e delle strutture costruttive degli edifici di Sabaudia costituisce, infine, una declinazione moderna dei caratteri propri dell’area plastico-muraria romana. Gli edifici sono, per la gran parte, ottenuti dalla composizione di pareti murarie leggibili come portanti e chiudenti allo stesso tempo, organizzate secondo fasce di stratificazione architettonica tradizionale: basamento, portato spesso fino al marcadavanzale, elevazione e, infine, unificazione e conclusione  modernamente rifuse in unità. Questo dato é più evidente (maggiore massività e organicità) quando le costruzioni sono realmente eseguite in muratura portante, mentre, quando risultano costruite ad ossatura in cemento armato, la leggibilità del carattere degli edifici è resa complessa dalla parziale esposizione del telaio in c.a., rivestito o meno in mattoni, che conferisce agli organismi un certo grado di serialità (si veda, ad esempio l’impiego dei porticati-pilotis).
Se progetto di tessuto e progetto edilizio nascono, nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, contemporaneamente, portato di una stessa idea di aggiornamento della nozione ereditata di città, le stesse nozioni fondanti si riscontrano, seppure con qualche ritardo e declinate a volte in maniera più pragmatica, nei progetti per i nuovi insediamenti italiani in aree decentrate come quelli per Cortoghiana in Sardegna, primo banco di prova delle riflessioni progettuali di Saverio Muratori, o per i centri di Segezia, Incoronata e Daunilia  in Puglia, dove il tema della bonifica richiedeva, pur nella permanenza, anche amministrativa, della nozione di “opera pubblica” , la pianificazione di un legame organico col territorio.
Ma gli stessi principi  sono  riscontrabili nei nuovi insediamenti delle colonie italiane del Mediterraneo, sotto l’influenza, anche, di quella spinta all’assimilazione che negli ultimi anni del fascismo verrà sostituita dalla strategia del “diretto dominio”. Come ha notato Giorgio Ciucci in un acuto saggio sull’architettura delle colonie , prima della conquista dell’Etiopia non esisteva una sostanziale differenza tra i criteri di progettazione edilizia e urbanistica adottati per il territorio nazionale e quelli per le colonie e i possedimenti d’oltremare, specie mediterranei. L’impianto di Portolago, cittadina costruita sull’isola di Leros dagli architetti Rodolfo Petracco e Armando Barnabiti, presenta, a scala ridotta, caratteri affini a quelli dell’organismo urbano della contemporanea Sabaudia, con l’asse principale che raggiunge l’area degli edifici specialistici principali (il complesso dell’albergo-cinema-teatro; il municipio e la casa del fascio) e due percorsi a tenaglia che collegano poli secondari (le scuole, la casa del balilla, la dogana, il quartiere operaio). Nonostante l’abbandono e le trasformazioni subite, anche qui le pur modeste costruzioni, alle quali sembra aver giovato la scarsità delle risorse economiche, testimoniano lo sforzo di cogliere un processo di trasformazione in atto . E considerazioni analoghe possono essere fatte  per i tanti insediamenti rurali costruiti negli anni’30, come Campochiaro e Peveragno, costruiti a Rodi dal ’29 al ‘35, o per i villaggi Baracca, Bianchi, Breviglieri, D’Annunzio e i tanti altri costruiti per la colonizzazione della costa tra Derna e Bengasi.
Visti sotto questo pur parziale aspetto, non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo.
E dalla quale  traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, ad esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata dal Le Corbusier delle case Errazuris,  De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv, (città di fondazione dove l’idea howardiana che sta alla base del piano di Geddes   genera nel tempo un tessuto denso e mediterraneo, in analogia con alcuni casi italiani, e gli architetti formatisi nel Bauhaus finiscono per interpretare, sul piano dei risultati, una versione muraria della modernità internazionale); quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis o Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda  dell’architettura moderna.

1. Cfr. A. Sartoris, Encyclopédie de l’architecture nouvelle, Milano ; nuova ed. 1954 sgg ; vol.I, Ordre et climat méditerranéens, 1948, vol.II, Ordre et climat nordiques, 1957.

2. Cfr.: S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in: Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di S.Danesi e L.Patetta, Venezia 1976; M. Fuller, Mediterraneanism,in: Amate Sponde… Presence of Italy in the Architecture of the Islamic Mediterranean, numero monografico di «Environmental Design» n.9-10,  Como 1992; G.Capponi, Motivi di architettura ischiana, in  «Architettura e arti decorative», a.IV, fasc.XI, luglio 1927.