IL RINASCIMENTO UMILIATO – Progetti per via Giulia

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 4  marzo 2013

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Il vuoto urbano tra piazza della Moretta e il Tevere, derivato dalle demolizioni operate nel ’39 per unire piazza della Chiesa Nuova a ponte Mazzini, è uno dei nodi architettonici più controversi del nostro centro storico.

Dopo la guerra, tra le tante rovine lasciate dal fascismo, la ferita di piazza della Moretta è divenuta quasi un simbolo, un buco nero della memoria urbana sul quale si sono esercitati infiniti architetti sperimentando idee, metodi, progetti. Su fronti opposti. All’inizio degli anni Ottanta, ad esempio, Maurizio Sacripanti vi pose il suo fantasmagorico e provocatorio Museo della Scienza; non molto dopo Gianfranco Caniggia indicò, al contrario, la via del “riammagliamento”, la continuazione dell’edilizia storica, come se la città ricucisse le proprie ferite.

Che questa lunga e nobile storia di riflessioni e confronti si debba concludere, come sembra ormai stabilito, con la desolante decisione di costruire un albergo di lusso, a sorpresa, senza un concorso, senza alcuna partecipazione, sembra un segno dei tempi.

Ci sarebbe molto da discutere su come i pilastri delle nuove costruzioni invaderanno i fragili resti antichi o su quale interesse pubblico giustifichi un enorme intervento che attrae traffico proprio in un luogo che dalle auto andrebbe solo difeso. E non si comprende quale logica la Soprintendenza abbia seguito, quali illustri opinioni abbia ascoltato per permettere che s’intervenga tanto pesantemente sull’immagine di un luogo straordinario come via Giulia, la strada più importante dell’intero Rinascimento italiano, dove hanno lasciato il segno Bramante, Borromini, Sangallo.

Ma il problema è più generale: riguarda il modo casuale e senza regole attraverso il quale i nuovi interventi sembrano “capitare” in un centro storico abbandonato agli interessi privati.

Perché, a seguire la tragicomica successione degli eventi, sembrerebbe proprio che al nuovo progetto si sia arrivato “per caso”.  Nel 2009 iniziano i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. A scavo inoltrato, ecco la sorpresa: si scopre che il sottosuolo di Roma è inaspettatamente ingombro di rovine antiche e che i lavori, purtroppo, non possono andare avanti. Però il Grande Buco è stato ormai creato, insieme a un potenziale contenzioso con la Cam, la società appaltatrice. E allora, che fare? Nulla. Meglio attendere. Finché, quando l’attenzione è distratta dalle elezioni, appare una soluzione già definita, conciliatoria.  Un progetto con tanto di approvazioni e pareri favorevoli, bell’e pronto per essere realizzato: oltre all’hotel a cinque stelle, un ristorante, appartamenti di lusso in vicolo delle Prigioni e sul lungotevere e, visto che ci siamo, altre abitazioni su un’area libera in via Bravaria che nulla ha a che vedere con lo scavo. E poi posti auto, un urban center con sala per eventi e convegni… E, al di sotto, le ossa degli stabula romani, centro e ragione dell’intera operazione, sepolte tra fondazioni e parcheggi.

Un disastro urbano legato a un affare immobiliare che la società Cam definisce, con involontaria ironia, “l’unica soluzione sensata e storicamente fondata”.

LA BELLEZZA PERDUTA

di Giuseppe Strappa

in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2013

PAOLO CAPRIOLI AG. TOIATI Decordo, ordinanza antibivacco del sindaco nelle aree di pregio storico e artistico.

Non si può non apprezzare l’eleganza, da mecenate d’altri tempi, della fashion house Fendi. Oltre due milioni di euro elargiti per il Restauro della Fontana di Trevi senza chiedere, per i due anni di lavori, una sola immagine pubblicitaria sulle transenne di protezione. Anche chi, come me, non ama le griffe, guarderà d’ora in poi con maggiore simpatia le nuvole di F impresse sulle borse dell’antica impresa romana. La quale avrà pure il suo ritorno d’immagine, ma in modo discreto, subliminale, si direbbe.

Perché Fontana di Trevi, triplo nodo di vie d’acqua, è anche uno dei grandi nodi della memoria universale, un groviglio d’immagini che lega insieme il prorompente carro di Oceano, la barocca sensualità di Anita  Ekberg, il dinamismo delle volute di pietra, le monetine e il sole di Roma riflessi nella grande vasca disegnata da Nicola Salvi.

Si va alla Fontana, cinesi, russi, brasiliani, ognuno con la propria immagine privata, quasi per vedere se esista davvero: ognuno fotografa ma nessuno guarda, come se cercasse non la gioia dello spettacolo fastoso e irripetibile, ma una certificazione, una prova.

Proprio questo fiume di turisti sempre in piena, quest’ansiosa curiosità globale che alimenta un commercio invadente e senza ordine, pone il vero problema della tutela della Fontana. Se, infatti, il suo restauro architettonico è indispensabile, è ancora più urgente restituirne il valore urbano, lo splendore dello spazio che genera e le si avvolge intono invadendo piazza di Trevi.

Una bellezza perduta, trasformata com’è in un groppo di degrado che s’irradia nelle vie circostanti. Il povero visitatore che percorra la strada dal Pantheon alla Fontana, costretto a passare per le forche caudine di file ininterrotte di tavoli, s’immerge in un mondo senza dimensione, in un magma di bandiere della Ferrari, colossei di plastica, centurioni con colli di peluche leopardati, bancarelle dove l’umano stenta a ricavarsi un varco.

Una potente risorsa economica come il turismo si trasforma così in un danno. Dopo aver rovinato le nostre coste dove, tra condomini e casette abusive, nessun forestiero ormai passerebbe le vacanze, dopo aver distrutto la fiorente agricoltura della campagna romana convertita in una periferia diffusa, ora stiamo trasformando i nostri spazi storici in luoghi invivibili, dove il turista si ferma il meno possibile lasciando solo i pochi spiccioli dei menù a presso fisso.

Una follia collettiva che quest’ Amministrazione ha spinto a limiti estremi, ma che ha radici lontane, nella disinvoltura con cui per tanti anni sono stati rilasciati permessi e si sono evitati i controlli.

Eppure, per ridare almeno un po’ di decoro agli spazi più preziosi e fragili della nostra città, non servirebbero milioni ma una ragionevole volontà di governare le trasformazioni in atto. Basterebbe un “restauro dell’uso delle aree pubbliche” da eseguire con poche regole, ma chiare, con qualche divieto elementare, ma rispettato.  Un’utopia si direbbe, nella Roma dei nostri giorni.

LA LEZIONE DI LIBESKIND. PER UN MUSEO DELLA SHOAH

CORRIERE DELLA SERA» DEL 25.02.2004
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PER UN MUSEO DELLA SHOAH.
LA LEZIONE DI LIBESKIND

di Giuseppe Strappa

Dalle finestre del mio liceo si intravedeva il cortile del carcere di via Tasso. Alzando gli occhi dalle pagine di Ovidio appariva, chiara e terribile, la figura delle finestre chiuse da un tavolato che impediva la vista all’esterno lasciando passare sui margini, tuttavia, un po’ di luce e aria.
Alcuni professori ricordavano di aver ascoltato, anni prima, le grida dei torturati provenire da quelle stanze semibuie. Ma ne parlavano poco, quasi con pudore. Più ancora che ai pochi racconti, la coscienza della tragedia di via Tasso era associata, per me, alla forma di quelle finestre mute, al crudele diniego della vista, allo spazio lasciato immaginare e sadicamente impedito. Quell’architettura minima della ferocia umana mi ha insegnato, prima che la logica lo spiegasse, il rifiuto di ogni fanatismo: è stato un antidoto contro ogni fuga dalla ragione e un buon viatico per la vita.
A molti anni di distanza, la visita al museo ebraico che Daniel Libeskind ha costruito a Berlino ha riacceso un analogo congegno percettivo: non è tanto il fiume d’informazioni contenute nelle teche, ma piuttosto il messaggio degli spazi (le ferite delle lamiere, il disequilibrio dei pavimenti, gli squarci improvvisi di luce dietro angoli misteriosi e notturni) a offrire la cognizione della catastrofe.
Contro quel tanto di disumano e intollerante contenuto in ogni purezza (dell’architettura, dell’ideologia, delle religioni) qui le forme sono instabili e ipertrofiche, fantasmagoriche e pericolanti, i dettagli sporchi, i materiali montati senza cura apparente, le geometrie dilaniate, alla deriva, tenute insieme da percorsi e flussi di emozioni spaziali che, come fasci nervosi, trasmettono il dolore, lo evocano e si fondono con esso.
In barba alle statistiche sull’antisemitismo, file di studenti di tutt’ Europa percorrono questa irripetibile scultura pedagogica che, al contrario delle lacerazioni senza oggetto di tanta avanguardia contemporanea, non ha tagliato il cordone ombelicale con i sentimenti più immediati e universali.
Il nuovo museo nazionale della Shoah che si dovrà costruire in Italia dovrebbe avere un ruolo analogo e per questo la decisione del governo di costruirlo a Ferrara lascia perplessi. Ferrara è certamente città di grandi tradizioni ebraiche, ma la sede naturale del nuovo museo, proprio perché espressione di una coscienza comune, dovrebbe essere accanto agli altri monumenti che hanno segnato la nostra storia e le nostre tragedie, dal Vittoriano alle Fosse Ardeatine.
Ma, se ormai questa decisione è stata presa, siamo ancora in tempo, tuttavia, per riflettere sulla costruzione del futuro Museo della Shoah romana. Cominciando col riconsiderare la proposta, un po’ rinunciataria, di utilizzare l’edificio esistente in via Capo d’Africa e valutando la possibilità di costruire un’architettura del tutto nuova, un monumento ebraico e romano, inevitabilmente distante dall’esempio berlinese per significato e linguaggio, ma ugualmente capace di trasmettere, attraverso la forma, la forza di un sentimento condiviso e l’ ammonizione che esso contiene.

CARATTERE DELLA MATERIA, CARATTERE DEL MATERIALE

MATERIA, MATERIALE

prof. Giuseppe Strappa

Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Giuseppe Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.Il problema dell’impiego dei materiali non è la fase conclusiva del processo di progettazione, quella che prelude alla costruzione. Al contrario, la scelta dei materiali, l’individuazione del loro uso possibile, costituisce uno dei momenti fondanti del progetto e interviene fin dalla sua impostazione.

Possiamo definire un organismo, sotto questo punto di vista, come trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma.

I caratteri degli edifici sono legati al problema fondamentale delle trasformazioni della natura in realtà costruita: al problema di come la materia cambi, per così dire, di stato, divenga  materiale prima di essere trasformata in elemento di architettura e di come l’elemento concorra alla formazione dell’ organismo componendosi in strutture di grado sempre maggiore. La serie delle delle trasformazioni e aggregazioni che determinano selettivamente il carattere di un edificio può essere individuata nel passaggio dal  carattere della materia al carattere del materiale fino, attraverso la formazione di elementi e strutture, al carattere dell’ organismo. L’impiego della materia (i suoi diversi modi) è dunque uno dei dati fondamentali che presiedono alla formazione dell’edificio.

Risulta dunque riconoscibile  un carattere della materia, allo stesso modo in cui è riconoscibile  un carattere del materiale, degli elementi, e dell’organismo architettonico. Questi caratteri si influenzano reciprocamente, nel senso che l’edificio è sintesi e conclusione di un processo continuo di trasformazione della natura in realtà costruita.

Si è distinta la materia dal materiale perché i due termini hanno valore  profondamente diverso.

La materia è la sostanza di cui sono composti i corpi dell’universo, la parte fisica e sensibile del mondo: il termine esprime, insieme all’indeterminatezza, la potenzialità a ricevere forma. Essa non è, dunque,  un materiale edilizio:  è invece  il dato del problema, preesistendo  alla trasformazione. Dunque la materia  è l’origine prima della realtà costruita. La differenza tra materia e materiale  non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione, quanto la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio.[1] Il riconoscere all’interno della natura la disponibilità di alcune materie ad essere trasformate in materiali fa parte della storia della coscienza (spontanea o critica) dell’uomo di fronte all’universo. Lo dimostra la storia: il Neolitico è la fase di sviluppo della coscienza dell’uomo nella quale viene soprattutto riconosciuta l’attitudine della pietra ad essere trasformata in materiale lapideo benché fossero a disposizione, in potenza, infinite altre possibilità; lo stesso è avvenuto per il ferro, il bronzo ecc. con un progressivo adattamento artificiale (un processo di domesticazione del mondo minerale e vegetale) della materia a materiale. Adattamento segnato dal passaggio dal puro adattamento dei materiali “trovati” (le scaglie di pietra utilizzate come punte di frecce, la pietra raccolta e impiegata senza trasformazione nelle murature a secco) alla lavorazione della pietra in blocchi e conci squadrati, al controllo della fusione dei metalli, alla formazione delle leghe. Dunque il termine “materiale” indica l’attitudine che viene riconosciuta dall’uomo alla materia di essere impiegata, trasformata o meno, nella costruzione. Il materiale può essere interpretato come il risultato di un processo di “distillazione” della materia operato attraverso selezioni successive dovute alla convergenza di istanze civili e pratiche. Si pensi alla cura della “purezza” dei materiali che ricorre tanto nelle raccomandazioni di Vitruvio per la scelta dell’argilla, quanto nelle norme degli statuti medievali sulla tutela della qualità del gesso, la cui vendita, perché ne fosse controllata la purezza, era riservata agli iscritti nella lista dei mestieri. Se nel cantiere medievale il nome dell’architetto è spesso sconosciuto, ogni pietra reca invece la firma del tagliapietre che l’ha sagomata non solo per controllare la quantità del lavoro svolto, ma come verifica dell’esatta lavorazione del materiale e, anche, gesto d’orgoglio delle maestranze.

La distinzione tra materia e materiale è dunque un’ operazione  critica e allo stesso tempo collettiva che nel passato apparteneva ad una società civile (o in via di civilizzazione) anziché all’individuo. Essa è  uno dei dati fondamentali nella formazione dei caratteri degli edifici e ne contraddistingue, contro luoghi comuni diffusi, la sostanza creativa. Anzi, questa operazione di riconoscere e ordinare la materia corrisponde all’atto creativo per eccellenza, costituendo l’origine di ogni costruzione. La stessa origine del mondo interpretata come creazione è basata, in molte religioni, sulla trasformazione del caos iniziale della materia che costituisce l’universo informe in sistema ordinato di elementi.

L’omogeneità dell’ambiente costruito tradizionale pugliese, ad esempio, non deriva unicamente dall’uniformità della sua costituzione litologica, ma dalla costanza del riconoscimento nella materia lapidea (in genere calcare compatto del cretacico di notevole durezza) dell’attitudine ad essere impiegata secondo le forme prodotte naturalmente per sfaldamento, ordinate dalle diaclasi, e riaggregate in idonei sistemi statico-costruttivi. L’ omogeneità deriva dall’impiego generalizzato, insieme, di questo materiale e dei modi d’impiego che l’opera dell’uomo gli ha associato nella costruzione di abitazioni, rimesse agricole, recinti murari, pavimentazioni di strade. L’attitudine dei tufi del pliocene e della pietra leccese del miocene ad essere impiegati dopo la trasformazione, resa semplice dalla scarsa durezza del materiale, ha dato vita, invece, ad una diversa cultura edilizia sviluppatasi soprattutto nell’area del Salento. Perfino la formazione di aggregati di abitazioni trogloditiche scavate nella roccia ha comportato una forma di riconoscimento dell’attitudine della materia (calcare tenero tufaceo) a trasformarsi in materiale (pareti e volte delle grotte e delle dimore ipogee).

All’interno del caos  indifferenziato, confuso ed informe (massa senza ordine) delle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio,  l’atto creativo  corrisponde alla composizione del conflitto interno alla materia operata da un nume che distingue (separa) i caratteri della materia: la leggerezza dell’aria e il guizzo del fuoco; la pesantezza della terra “premuta dal peso” e la fluidità dell’acqua. All’atto creativo corrisponde la leggibilità simbolica (architettonica) del gesto: l’ordine è anche comunicabile razionalmente, leggibile attraverso la forma sferica della terra. Si noti come, insolitamente per il mondo antico, sia la terra  ad avere forma sferica e non l’intero universo. La sfericità  dell’universo come elemento ordinatore della sua sostanza era invece comune alle cosmogonie antiche (si veda, ad esempio, la cosmogonia platonica esposta nel Timeo ). Anche nelle cosmogonie comuni alle culture islamiche è costantemente presente l’idea della forma sferica come geometria del mondo ordinato dal Creatore; nel X secolo la creazione viene così descritta: ” Emanata la Sfera Superiore, l’emanazione continua con la produzione di un Intelletto e di una Sfera. Dal Secondo Intelletto se ne produce un Terzo insieme alla Sfera delle Stelle Fisse; dal Terzo Intelletto un Quarto e la Sfera di Saturno; dal Quarto Intelletto un Quinto e la Sfera di Giove ; (…); dal Nono Intelletto un Decimo e la Sfera della Luna.[2]La costruzione ordinata del mondo ha dunque bisogno di un passaggio fondamentale che la completi e concluda, una  geometrizzazione del gesto creativo  che la renda  comprensibile: al primo e fondamentale gesto di organizzazione della materia corrisponde  la forma geometrica di assoluta perfezione, regolare per antonomasia. La creazione come ordinamento della materia operato distinguendone i caratteri è un gesto, dunque, fondamentalmente architettonico, tanto che il creatore di Ovidio è il fabricator mundi, l’architetto del mondo.

Così l’uso dei materiali ha inizio dal riconoscimento del loro carattere,  della suscettibilità dei metalli, ad esempio, ad essere impiegati secondo la loro natura, l’attitudine alla fusione, considerandone l’utilità potenziale che fa ritenere, nei tempi più arcaici, il bronzo materiale nobile per la sua durezza e l’oro materiale prezioso e allo stesso tempo vile per la sua scarsa resistenza.

Con ogni probabilità la prima fase del lavoro dell’uomo nella quale è riscontrabile l’intero ciclo di trasformazione della materia è da riconoscere nell’arte della ceramica, sviluppatasi in diverse fasi :

– l’individuazione dei caratteri della materia (il riconoscimento della plasticitàdell’argilla);

– l’acquisizione delle tecniche di lavorazione della materia divenuta materiale (l’uso della cottura ai raggi solari e, successivamente, l’uso del fuoco) ;

– l’adattamento del materiale ad una forma governata da un ordine riconoscibile (struttura)

– la sintesi estetica operata attraverso il pieno possesso delle tecniche di fabbricazione e l’istanza di espressione artistica.

Non a caso i resti di vasi fittili rappresentano le testimonianze più leggibili che consentono di riconoscere i caratteri delle civiltà arcaiche. Uso del fuoco nella cottura  e ordine geometrico nella  forma dei vasi costituiscono due tappe fondamentali nel processo di addomesticazione della materia. L’uso del fuoco per la cottura delle terre (vasi di terracotta, mattoni cotti ecc.) segna l’inizio del processo di progressivo abbandono da parte  dell’uomo del rapporto di imitazione della natura. Il prodotto della cottura a fuoco non rappresenta  l’utilizzazione di procedimenti esistenti in natura piegati ai fini utilitari come la cottura solare: esso possiede, al contrario, come i più tardi esiti prodotti dalla fusione dei metalli, caratteri artificiali che la natura non avrebbe potuto generare. Caratteri ottenuti inoltre, dato fondamentale, in tempi accelerati rispetto ai processi naturali: ” Se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, – scrive Bachelard –tutto ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco“. Proprio in questo distacco dell’uomo dalla natura, nella creazione del primo e più semplice degli elementi artificiali della costruzione, il mattone cotto (ed in seguito i prodotti delle “industrie del fuoco”, delle fornaci, delle vetrerie, delle ferriere), può essere riconosciuta l’essenza artificiale dell’architettura.

A noi è utile una classificazione generale dei materiali in funzione dei caratteri che sono stati loro riconosciuti nel rapporto con i diversi tipi di elementi, tipi di strutture di elementi, tipi di sistemi.

Quando l’uomo riconosce nella materia alcune qualità edilizie, infatti, ha già riconosciuto  la sua adattabilità a formare un certo tipo di elementi   e non altri. Il riconoscere nel  magma solidificato di una roccia eruttiva depositatasi per strati la possibilità di ottenere per sfaldamento lastre di  dimensioni pressoché costanti già contiene l’idea del modo di riaggregazione del materiale ottenuto per  stratificazione, stendendolo per sequenze di strati (stratum è participio di sternere, stendere, appunto)  secondo fasce orizzontali parallele.

Le cognizioni necessarie alle scelte vengono gradatamente acquisite ed entrano a far parte della coscienza del costruttore attraverso l’esperienza dell’atto costruttivo, inteso come processo unitario di trasformazione della natura. L’idea di tipo investe quindi l’intero processo edilizio fin dalle scelte e decisioni  iniziali che riguardano l’impiego del materiale, determinate da:

selezione  degli elementi ottenibili soprattutto in base:

– alle dimensioni (ad esempio pietre in grandi blocchi cavati, ciottoli fluviali, lastre ottenute da sfaldamento ecc., oppure tronchi di grandi e medie dimensioni, rami di dimensioni medie e piccole ecc.);

– alle qualità meccaniche (ad esempio, in base alla durezza: rocce tenere come le arenarie, i calcari gessosi, i tufi vulcanici, o rocce dure come marmi e graniti; per il legname legni dolci come il pioppo, l’ontano, la betulla, oppure duri come la quercia, l’olmo, il castagno, il faggio);

– alla durabilità, cioè alla qualità di resistere nel tempo agli agenti esterni;

– alla lavorabilità, carattere legato alla durezza e ad essa opposta. La selezione della materia prima é anche una delle  manifestazioni originarie di volontà cosciente di rapporto stabile col territorio: la vasta diffusione di alcune materie prime nel Neolitico, induce a ritenere, in assenza di commercio, che le diverse comunità di villaggio conoscessero, in un raggio piuttosto vasto, i caratteri dell’ambiente naturale, come la posizione delle cave che venivano raggiunte con viaggi anche di diversi giorni.

specializzazione degli elementi ottenuti (blocchi portanti-chiudenti, ciottoli di riempimento tra le pareti esterne del muro in pietra squadrata, marmi e graniti di rivestimento ecc.; travi ottenute da tronchi squadrati utilizzabili per grandi luci, travetti, arcarecci ecc.).

 

 

 

 

La specializzazione può avvenire non necessariamente attraverso la lavorazione, ma anche semplicemente dal riconoscimento delle attitudini del materiale al momento dell’estrazione, ad esempio sfruttando linee di stratificazione e fessure per ottenere elementi già idonei ad essere aggregati in alcuni tipi di strutture e non in altri. Il reticolo stesso della diaclasi determina spesso il modulo degli elementi impiegati nell’apparecchiatura muraria, nella quale si susseguono, diacronicamente, disposizioni irregolari di elementi poligonali, segmenti spianati e resi regolari nelle facce di contatto, filari di dimensioni regolari.

Il carattere riconosciuto nei mezzi che la natura mette a disposizione è dunque indissolubilmente legato all’esito intermedio (la formazione degli elementi) e finale (il legame degli elementi in strutture).[3] Non è possibile, per questa ragione, studiare il carattere di un edificio prescindendo dalla scelta e dal  modo d’uso dei materiali. Scelta che, come vedremo, condiziona il carattere degli organismi su tempi molto lunghi, permanendo anche nelle fasi di crisi nelle quali, per motivi contingenti (economia, nuove tecniche costruttive ecc.) la materia impiegata verrà sostituita. Le forme di individuazione dei caratteri dei materiali sono infatti elemento determinante nel riconoscimento di aree culturali. E infatti per area culturale si intende una porzione di territorio nella quale è riconoscibile un elevato numero di caratteri comuni nei materiali, negli elementi, nelle strutture degli edifici e dei tessuti edilizi. Tali aree, la cui definizione è evidentemente parziale e finalizzata allo studio che stiamo compiendo, caratterizzate da maggiore o minore persistenza dei caratteri derivati dall’uso del materiale, hanno a volte conservato nel tempo i caratteri specifici  dell’edilizia prodotta, tanto da essere identificabili perfino in una fase di estrema internazionalizzazione dei processi  produttivi come l’attuale.

Naturalmente i caratteri riconosciuti nei materiali e il tipo di elementi che ne deriva sono estremamente articolati, legati non solo alla civiltà che li ha prodotti ma anche, sincreticamente, alle influenze e interazioni tra aree culturali. Possiamo tuttavia  individuare alcuni caratteri di base comuni. Essenzialmente la materia  che l’uomo ha riconosciuto idonea a costituire materiale edilizio può essere divisa in due grandi categorie:

– materiali a carattere elastico

–  materiali a carattere plastico

Si tratta di caratteri tipici, rispetto ai quali si possono operare differenziazioni ulteriori in base al grado di tipicità che si intende utilizzare, ma che, proprio per il loro basso grado di tipicità, costituiscono un riferimento generale per la lettura della grande maggioranza degli organismi costruiti. L’attitudine riconosciuta alla materia vegetale a differenziarsi induce all’impiego di materiali gerarchizzati (l’albero possiede una struttura articolata per forma,  dimensioni  e resistenza che si traduce nella differenziazione gerarchica di pilastri, travi, arcarecci ecc.). Gli elementi prodotti e utilizzati  in prevalenza in aree eleastico-lignee (legno, ferro, acciaio),[4] caratterizzati morfologicamente da una dimensione prevalente sulle altre due (elementi lineari), presentano l’attitudine ad essere discreti e ripetibili in serie. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi tendenza seriale, intendendo con questo termine la propensione ad aggregarsi in strutture discontinue, composte di elementi  iterati e intercambiabili, che non perdono la propria funzione e riconoscibilità quando vengano sostituiti alcuni elementi della serie con altri.[5] L’attitudine riconosciuta alla materia lapidea a produrre materiali indifferenziati (le pietre vengono cavate da una massa informe di materia in pratica non gerarchizzata) induce all’impiego del  materiale in forme omogenee. Gli elementi prodotti in aree plastico-murarie (muratura in pietrame o mattoni),[6] caratterizzati morfologicamente da due dimensioni prevalenti sulla terza (elementi piani o a sviluppo curvilineo), presentano l’attitudine ad esserecontinui e individualizzabili in modo univoco all’interno della struttura. Le strutture composte dall’unione di questi elementi presentano qualità specifiche che possono sinteticamente essere indicate come aventi predisposizione organica, indicando con questo termine la propensione di una struttura ad essere omogenea, dove gli elementi sono tra loro in rapporto di necessità tale che la posizione reciproca nell’organismo ne conforma univocamente dimensioni e geometria in modo tale che sostituendo un elemento con un altro la struttura perde la sua funzione e riconoscibilità. Visti nel loro diretto rapporto con il materiale del quale sono costituiti, gli elementi possono essere considerati come individuazioni tipiche del carattere dei materiali.



[1] Una considerazione apparentemente ovvia riguarda la disponibilità del materiale in un’ area: una materia non disponibile non può essere individuata come materiale. La nozione di disponibilità dovrebbe comunque essere approfondita. Essa non riguarda solo la disponibilità fisica, ma anche l’accessibilità, la trasportabilità,  l’economicità dell’impiego, la facilità tecnica delle eventuali lavorazioni che precedono l’uso della materia . A volte l’individuazione collettiva della scelta che sintetizza anche queste componenti si traduce in norma religiosa o legislativa.

[2] Al Farabi, riportato in Fahd Toufic, La naissance du monde selon l’Islam, in  Sources orientales , Paris 1959.

[3] “Per l’architetto costruire – scrive Viollet-le-Duc – è impiegare i materiali in ragione delle loro qualità e della loro propria natura (…) I metodi del costruttore devono dunque variare in ragione della natura dei materiali, dei mezzi di cui dispone, delle necessità che deve soddisfare e della civiltà in seno alla quale nasce.” (Eugène Viollet-le-Duc, voce Construction in Dictionnaire raisonneé de l’architecture française du XI au XVI siècle, Paris 1854-68.)

[4] Si intendono come “elastici” gli elementi composti da  materiali capaci, se deformati,  di tornare alle condizioni iniziali una volta che vengano rimosse le cause della deformazione (cioè di restituire interamente  l’energia spesa nella deformazione).

[5] Mentre nella cattedrale gotica può essere sostituita una campata con un’ altra della serie, in impianti centrali barocchi come S. Ivo alla Sapienza non può essere  sostituito alcun elemento comparabile alla campata gotica, essendo l’organismo costituito da uno spazio unitario. In realtà anche nell’edifico più organico, che esprima in modo esemplare il proprio carattere plastico murario, possono essere individuati elementi ripetuti in serie (anche se limitata), qualora si riguardi l’elemento in scala opportuna (iterazione delle colonne, degli spicchi di volta ecc.). La definizione di organico e seriale è dunque relativa (si veda la definizione  di grado di serialità e grado di organicità impiegata per gli organismi architettonici). Rimane il fatto che i due diversi caratteri generali e le aree di appartenenza sono quasi sempre facilmente individuabili quando si tenga contemporaneamente conto di tutti gli attributi che ne permettono la riconoscibilità.

[6] Il calcestruzzo può essere usato, fatte salve le specificità meccaniche, sia con carattere elastico-ligneo (sistemi di elementi lineari  in cemento armato) sia  con carattere plastico-murario (setti portanti, volte ecc.).