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RIDOLFI, IL VILLINO ASTALDI E IL POVERO FOSCHINI

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di Giuseppe Strappa

Il valore di un simbolo, in «Corriere della Sera» del 04.03.2006

Il villino Astaldi, celebrato per la memoria che lo lega alla figura di Ridolfi e mai a quella di Foschini è, oggi, un’opera d’architettura tra le più complesse. E’ il simbolo del passato che ha cessato di fluire nel presente e un viaggio nell’inquietudine della nostra coscienza moderna: non solo una stratificazione che, come un deposito geologico, mostra i traumi delle diverse epoche di formazione, ma anche la rappresentazione, esibita, di una demolizione, di un giudizio su un’intera stagione dell’architettura romana e di una rottura della quale, ancora, portiamo i segni.
Una storia che ha inizio ai primi del’900 con la lottizzazione delle aree comprese tra Villa Torlonia e Villa Borghese dove l’ing. Adolfo Sebastiani decide di costruire due magnifiche ville per le proprie figlie. L’architetto è quell’Arnaldo Foschini (coadiuvato da Attilio Spaccarelli) destinato a svolgere un ruolo decisivo nelle vicende edilizie romane, dalla trasformazione di corso Rinascimento alla presidenza dell’INA Casa negli anni della Ricostruzione. Nei due edifici costruiti tra via Mercadante e via Porpora, Foschini si pone sul solco tracciato dai maestri, dai Koch, dai Calderini. Ma il tradizionale riferimento al rigore dell’architettura civile del’500 diviene meno severo, si stempera nei primi, tolleranti sentori del“barocchetto” che incresperà lo storicismo romano di un gusto pittoresco e lieve, brulicante di sottili estrosità.
Il villino destinato a Valeria Sebastiani, rilevato e completato nel 1923 dalla famiglia Astaldi, viene sottoposto a radicale trasformazione nel 1954. Questa volta l’architetto è Mario Ridolfi, uno dei migliori del panorama romano. Il quale demolisce i volumi dell’attico che concludono l’edificio per costruire un grande piano in calcestruzzo armato, aggettante dal filo dell’edificio. Una nuova costruzione nasce così liberamente, come poggiata, si direbbe, su una sorta di suolo artificiale, su moderne rovine: “completamente staccata – per usare le parole di Ridolfi – e disimpegnata dal resto”, è priva del legame organico che, a Roma, ha sempre annodato alle preesistenze la nuova costruzione.
Per questa sua storia di lacerazioni, il villino Astaldi sembra sintetizzare, in modo esemplare, valori e contraddizioni della vicenda romana moderna, dove la qualità dell’architettura si confronta con la labilità delle regole e sembra divenire incerto, perfino nella coscienza dei migliori, il senso e il carattere della realtà costruita.



L’architettura religiosa in un libro di Strappa

La presentazione

L’architettura religiosa in un libro di Strappa

in “Corriere della Sera” del 26.05.2009

Il tema dell’architettura religiosa è tornato di grande attualità. Anche a Roma si costruiscono nuove chiese, veri poli urbani in quartieri spesso degradati che pongono, anche, il problema di cosa significhi un edificio per il culto nel mondo contemporaneo. Giuseppe Strappa, architetto e ordinario di progettazione, tenta di dare una risposta con un libro, «Edilizia per il culto» (Utet, Torino) che ha la forma e l’ambizione di un vero trattato. Tesi di fondo è che ogni chiesa, sinagoga o moschea costituisce anche un «organismo » del quale occorre comprendere, soprattutto, il processo formativo. In un periodo in cui l’architetto, anche nei temi religiosi, è ossessiona¬to dalle mode, Strappa sostiene che si è originali solo riscoprendo l’origine delle cose, le radici dalle quali le forme hanno inizio. L’opera verrà presentata oggi a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi. Il grande storico e architetto romano non è, infatti, solo autore di importanti architetture religiose, dalla Chiesa della Sacra Famiglia a Salerno alla Moschea di Roma, ma si è posto, tra i primi, il problema della crisi del progetto contemporaneo, dello smarrimento dell’uomo di fronte a un mondo costruito che non sa più leggere e, quindi, trasformare con coerenza.

Alle 18, Aula Magna della Facoltà di Architettura «Valle Giulia», via Gram¬sci 53

Il libro viene presentato oggi pomeriggio alle 16 a Valle Giulia da un esperto del tema come Paolo Portoghesi, in primo piano nella foto qui sopra insieme a Giuseppe Strappa

NODI NELLE CITTÀ


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di Giuseppe Strappa

in «Area» N°27 , 1996.

Se si usa appena qualche cautela nei confronti del trionfante luogo ideologico che vuole la modernità associata ad una condizione di perpetua crisi dove, inevitabilmente “tutto quello che è solido si dissolve nell’aria” e si guarda alla semplice evidenza della realtà costruita, non si può non constatare che, dalla contraddittoria fase di passaggio dalla città tradizionale europea alla metropoli contemporanea, emerge una evidente, traumatica innovazione nei tessuti, ma anche una altrettanto evidente continuità negli organismi edilizi.
Alcuni aspetti della sostanziale diacronicità tra organismi abitativi e tessuto urbano sono stati da tempo osservati nella continuità del processo che ha generato l’attuale casa in linea a partire dalle rifusioni di unità di schiera. E tuttavia non è mai stato indagata a sufficienza la complessa continuità formativa, generata dalla nozione di aggregato, di molti edifici specializzati moderni. I quali spesso, lontani dall’imitare la macchina, mostrano al loro interno la spiegazione delle proprie leggi formative “annodando” (trasformando in nodi spaziali) luoghi in origine fisicamente o virtualmente aperti: come molti organismi edilizi del passato, essi nascono dalla dialettica tra recinto e copertura, tra strutture seriali ed organiche, tra città ed edificio.
La derivazione del teatro moderno dal tessuto é, ad esempio, tra i fenomeni più evidenti e documentabili di questo processo. La stessa rappresentazione teatrale si evolve per specializzazione di forme di spettacolo “di base” (le recitazioni religiose, le feste laiche, le giostre). Il famoso disegno eseguito da Johan de Witt nel 1596 del teatro Swan di Londra dimostra pienamente il carattere dell’organismo edilizio in formazione: lo spazio “pubblico” é quello fluido della platea-piazza dove lo spettatore assiste in piedi o in sedili di fortuna; lo spazio “privato” é quello perimetrale dei palchi-tessuto, codificato dalla legge costruttiva del recinto. Se già nel ‘400 si rappresentava Plauto e Seneca nel cortile del palazzo del cardinale Riario coperto da teli, agli inizi del ‘600 si conclude il processo di trasformazione del teatro elisabettiano e inizia quello contemporaneo con la copertura stabile dello spazio aperto del vecchio teatro Fortune.
E un analogo processo formativo può essere colto, ancora in atto, in molti aspetti dell’edilizia speciale ottocentesca. Nelle grandi borse, ad esempio, nate alla fine del XVI secolo come piazze concluse all’interno della serie di uffici e magazzini, la cui protezione genera lo spazio coperto dello scambio (di questo processo la “basilica” di Berlage per la Borsa di Amsterdam rappresenta solo l’esito più noto). Oppure nei grandi magazzini formatisi a Parigi a seguito della nuovissima tradizione dei passages , dove elementi, strutture, sistemi seriali si annodano intorno allo spazio di un cortile coperto.
Ma, soprattutto,esso è individuabile nella dialettica tra spazi urbani e spazi interni agli edifici generati, alla fine del secolo scorso, dall’ organizzazione delle complesse reti di comunicazioni nelle metropoli. L’articolazione dell’edificio per poste e telegrafi nasce, infatti, dal legarsi dei vani seriali, per amministrazione e servizi, intorno alla grande sala per il pubblico, vasto spazio di mediazione tra città ed edificio. L’architetto di fine ‘800, smarrito di fronte all’intrecciarsi di problemi inediti, si rifugia nel patrimonio di esperienze portato a riva dalla storia, nei tipi di edificio tradizionali ancora capaci di propiziare sincretismi, trasformazioni, aggiornamenti. Molti dei maggiori palazzi postali ottocenteschi sono organizzati su impianti basati sulla nozione di recinto, come quelli tedeschi organizzati intorno ad una vasta hof  aperta  (a Breslau, Halle o Potsdam), ma anche protetta da vetrate, come a Berlino.
La transizione dal cortile al vano nodale si manifesta, in tutta la sua evidenza, nel riuso di edifici esistenti organizzati su percorsi interni rigiranti intorno a spazi aperti (conventi, palazzi ecc.). Non si tratta di semplice reimpiego, ma di un processo dove la mutazione dello spazio aperto genera edifici interamente nuovi, di maggiore organicità. Si veda la trasformazione in poste del Fondego dei Tedeschi a Venezia dove l’introduzione, nell’edificio seriale del XVI secolo, di una grande struttura in ferro e vetro a copertura del cortile aperto innesca un processo unitario di trasformazione che coinvolge tutte le componenti dell’edificio: le sollecitazioni indotte dalla copertura, compromessa la stabilità delle pareti murarie sottostanti, si estendono progressivamente (organicamente) all’intero edificio, favorite dalle successive opere di consolidamento. L’intero organismo ne esce rivoluzionato: il nuovo vano centrale risulta, come in ogni edificio nodale, staticamente portato, distributivamente servito e spazialmente dominante, mentre i vani periferici risultano portanti, serventi, seriali.
Nel trasformarsi processuale del grande vano centrale la fase “logicamente” successiva é costituita dalla saldatura di atrio e sala degli sportelli, cioè dalla progressiva fusione del cuore dell’organismo con lo spazio urbano. Nato dalla città, il nodo spaziale torna alla vita delle strade: se ancora all’inizio del XX secolo la stessa manualistica raccomanda di considerare la sala per gli sportelli come “spazioso cortile tutto ricoperto a vetri” (Donghi), in pedanti edifici come le poste di Bologna di Emilio Saffi, si annida l’innovazione, il nuovo carattere urbano degli spazi per il pubblico.
Questo processo, annunciato da molti sintomi, precipita nel fecondo periodo di passaggio dalla fine degli anni ’20 agli inizi degli anni ’30, attraverso mutazioni rapide e complesse, ordinabili in sequenze logiche più che cronologiche, rintracciabili dietro la trama di molte facciate “accademicamente” moderne  come quella del Palazzo delle Poste di Brescia  di Piacentini, o quelle di Bergamo, Agrigento, Palermo costruite da Mazzoni. Fino all’apparizione  della solare modernità delle poste romane di Libera e De Renzi o di Ridolfi, o dello straordinario pezzo di città che Vaccaro ha costruito a rione Carità a Napoli. Edifici che indicano, in modo esemplare, come la riduzione dell’edificio postale a macchina di sterile precisione, (la trasformazione idraulica dei corridoi in “flussi”, di gallerie e portici in “circolazione”) appartenga alle tante mitologie del moderno. Nel suo momento più alto, al contrario, la vicenda dei palazzi postali italiani sembra essere stata sul punto di realizzare l’aspirazione alla sintesi tra organismo edilizio ed organismo urbano inseguita da generazioni di architetti nel corso della storia.