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RIPENSARE IL CASILINO 23

workshop

RIPENSARE IL CASILINO 23
WORKSHOP INTERNAZIONALE DI RIPROGETTAZIONE URBANA

ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Facoltà di Architettura “Valle Giulia”
S.A.C. – Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Citta’
Laboratorio di Progettazione 2A, Prof. G. Strappa A.A. 2009/2010
Con il Patrocinio della Consulta dei Beni Culturali dell’Ordine degli Architetti P.P.&C. di Roma e Provincia

Giovedì 17 giugno ore 9,00
– Presentazione del workshop
– Lavori dei seminari
Venerdì 18 giugno h. 9,00
– Lavori dei seminari

Dal Casilino 23 a villa de Sanctis
Venerdì 18 giugno 2010, ore 18.00
ASSOCIAZIONE CULTURALE CASALE GARIBALDI
Via Romolo Balzani, 87 (Villa De Sanctis) Roma
Saluti: Giammarco Palmieri (Presidente, Municipio Roma 6)
Sandro Sanguigni (Assessore all’urbanistica, Municipio Roma 6)
Pino Bendandi (Presidente Associazione culturale Casale Garibaldi)
Coordina: Giuseppe Strappa (Presidente del corso di Laurea in Scienze dell’architettura e della città, Facoltà di Architettura “Valle Giulia”)
Intervengono: Marco Corsini (Assessore all’urbanistica, Comune di Roma)
Francesco Coccia (Direttore Dip. XVI – Politiche per lo sviluppo e il recupero delle periferie, Comune di Roma)
Daniel Modigliani (Dirigente ATER, Comune di Roma)
Tom Rankin (Coordinatore California Polytechnic State Institute Rome Program in Architecture)
Alessandro Camiz (Direttore del seminario “Architettura e Città“)
Paolo Carlotti (Direttore seminario, Laboratorio di Progettazione 2)

Ingresso libero, la cittadinanza è invitata
A cura di:
Alessandro Camiz

alessandro.camiz@uniroma1.it
3388713648 Lpa
Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura

V. anche
Camminare Roma
X Uscita 17 Giugno 2010

OSTIA MODERNA

 

ostia-colonia

di Giuseppe Strappa

Ostia, la città interrotta, in «La Repubblica» del 20 maggio 1994
Ostia vista dal mare.  L’orizzonte  è occupato quasi per intero  dalle sagome di casermoni senza volto, figli del   boom economico degli anni ’60. Edifici generati  senza amore,  condannati ad affollarsi confusamente  lungo una  spiaggia  un tempo bellissima.  La metropoli  non ha rovesciato su queste coste  solo i liquami che hanno  avvelenato  il mare; ha vomitato qui anche milioni di metri cubi di cemento che hanno trasformato una delle città balneari più singolari  d’Europa in una periferia desolata .
Al centro  della massa informe,  appena sopra  la linea d’acqua ,  si scorgono  tuttavia le  tracce di un’edilizia dignitosa  raccolta intorno alla sagoma della chiesa Regina Pacis  , ultimi resti   della stagione  che vide Ostia crocevia   di un originale  percorso verso l’architettura moderna interrotto dal cinismo di chi ha saccheggiato per decenni queste coste.
Volgendo lo sguardo un po’ a nord , dove l’edilizia più recente e volgare domina incontrastata,  emergono dal caos  edilizio del lungomare Toscanini , inaspettate  come un’apparizione ,  le sagome nettissime e tutte uguali   dei dormitori della colonia  Vittorio Emanuele III.  Volumi semplici come giochi o disegni infantili, architettura ridotta alla sua essenza: le pareti nude  increspate da rari ma meticolosi dettagli, le finestre  regolarissime, il semplice tetto a due falde, i comignoli.
L’ elementare purezza  dei volumi rimanda ad immagini consuete e lontane,  alla  pacata allegria di quelle costruzioni  balneari tra le due guerre ,un po’ nude ma  ravvivate da  tende a grandi strisce bicolori , alle  file di cabine , a sereni viali di palme. Eppure quella della colonia non è un’architettura di “intrattenimento”: troppo rigida e forse un po’ sgradevole, apparentemente priva di slanci, quest’architettura rinuncia ad ogni espediente accattivante a  favore della delicata, enigmatica poesia dell’elenco.  Come in un quadro di Carrà , il suo “realismo magico”  deriva dalla  laconica parsimonia dei mezzi espressivi impiegati.
La progettazione di questo “ospizio marino” del 1927 deve essere stato un arduo esercizio di rigore per il suo  architetto Vincenzo Fasolo, virtuoso del disegno (i suoi allievi  ricordano ancora ammirati  le complesse piante disegnate alla lavagna  con ambedue le mani) e acrobatico interprete  degli stili storici la cui versatilità è testimoniata ,tra l’altro,dal  neobarocco liceo Mamiani in viale delle Milizie e dal pastiche  medievaleggiante della caserma dei  Vigili del Fuoco in via Marmorata .
Della colonia  Vittorio Emanuele III sono ora, finalmente,iniziati i restauri delle opere esterne, in attesa dei molti milardi necessari a completare anche l’interno. Non è dato sapere quando nè, soprattutto, come finiranno questi lavori. L’architetto Luigi Ventura Piselli , che cura la difficile impresa  con la collaborazione dell’architetto Valerio Andronico, assicura che verranno  rispettati integralmente sia i prospetti dell’opera che le strutture interne,  compatibilmente con le nuove funzioni che il grande  complesso dovrà ospitare :un centro anziani,case-famiglia con alloggi indipendenti per  giovani disadattati, mensa ,centro culturale , biblioteca  e ,all’esterno ,orti per anziani e campi sportivi. Tuttavia  anche qui compariranno quelle  terribili scale esterne in metallo imposte dai Vigili del Fuoco  che hanno già deturpato molti edifici pubblici romani .Si spera che sia la sola violenza che  questo insolito  edificio , abbandonato dalla storiografia di architettura ,dovrà subire.
La vicenda   di questa costruzione  è un esempio di come nell’avventura  del  patrimonio edilizio di Ostia moderna gli edifici migliori escano regolarmente malconci .  Destinato al recupero di bambini  affezioni polmonari , l’edificio fu progressivamente abbandonato col regredire della frequenza del male fino a quando si decise di destinarlo ad altro uso. I geometri del Comune incaricati dei rilievi che nel 1983 fecero irruzione nell’universo segregato delle poche, operose suorine rimaste raccontano la sorpresa di aver trovato gli interni dell’edificio fermi agli anni Trenta, intatti negli arredi originali, con i tavoli  in massello  lucidati con cura e i bagni ben costruiti in perfetto stato di conservazione . Solo all’esterno le ingiurie inevitabili della salsedine avevano provocato qualche ferita.  Poi, nel breve intervallo che ha preceduto i lavori  di ristrutturazione, lo sfascio. Occupato e devastato dai baraccati, territorio di conquista frammentato in possedimenti autonomi occupati da USL,  Vigili Urbani , scuole , l’ex colonia  è giunta   in stato di pietoso degrado ai lavori di restauro.
Ma non solo sul lungomare si stanno eseguendo lavori. A piazza della Posta si restaurano (anche qui con molta lentezza) quella “ricevitoria postelegrafonica”  inaugurata nel 1934 che rappresenta forse il gioiello di Ostia Moderna. Nella tranquilla scacchiera della cittadina  l’immagine folgorante  di un edificio dalle forme nuovissime arenato sul litorale   riportava le suggestioni del nuovo mondo della velocità e delle comunicazioni   nelle tranquille sabbie del Lido .Le cure  filologiche che  l’arch. Marina Del Bufalo  dedica all’edificio, sono indicative sia della nuova sensibilità  per i problemi del patrimonio storico da parte del Ministero delle Poste , sia della nuova attenzione per il suo autore Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario delle Ferrovie di Stato e   protagonista di primo piano dell’effimera ventata dell’architettura futurista ,del quale studi recenti  vanno  riscoprendo il valore .
E tuttavia , a fronte di  qualche timido segnale che fa sperare  in una riscoperta del fascino  del Lido di Roma, in una considerazione meno distratta della sua vocazione tradita, stanno i tanti guasti irreparabili dell’edilizia recente.
Triste destino di Ostia decaduta, degradata a  periferia e  abbandonata alla sua sorte  di frammento segregato  di città  (nessun  collegamento moderno integra ancora la  primitiva linea ferroviaria ,  alleggerendo   il fiume di auto riversato dalla Colombo e dalla via del Mare).
E mentre non si è ritenuto di  costruire   la chiesa di S. Maria di Bonaria secondo il disegno solare  di Berarducci, Monaco e Rinaldi, opera che poteva costituire, nel panorama della nuova Ostia, una   testimonianza di ottimo livello della cultura architettonica  alla fine degli anni ’60,   si è realizzato  di recente , verso Castelfusano ,  il  verde sombrero  che copre il  nuovo,   “Palazzetto delle arti marziali” . Infelice testimone dell’imbarbarimento di un  costume edilizio che ha  sostituito   al raffinato   razionalismo delle case di Libera e al brio delle ricerche di Marchi   lo stile neocaprese   e  il moresco di cartapesta delle ville dove fumano instancabili  barbecue o  il kitsch senza volto delle discoteche nei paradisi delle  nuove maiemi.

La città a pezzi

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di Giuseppe Strappa

in «AR» n° 87/10 gennaio-febbraio 2010

– Mi sembra, prima di tutto, importante sottolineare come l’apertura di questa nostra festa dell’architettura sia iniziata invitando non un’archistar, come qualcuno si aspettava, ma un architetto appartato e fuori moda come Paolo Soleri che ricerca ancora un’alternativa alla spettacolarizzazione del nostro mestiere e, a novant’anni, ci ha trasmesso, con pacatezza, alcune tra le cose più interessanti, originali, e lucide che io abbia sentito in questi ultimi tempi. Credo che questa scelta possa essere di buon auspicio perché la nostra iniziativa trovi una propria strada originale tra le tante kermesse di architettura che ormai proliferano un po’ dovunque.
Roma città plurale: a me sembra che il titolo di questo forum dia adito a diverse interpretazioni, qualcuna fuorviante. Suggerisce, ad esempio, l’idea di un organismo urbano del quale noi cogliamo aspetti diversi e particolari, un organismo fondamentalmente unitario, secondo un’interpretazione che si potrebbe inserire nel grande flusso della tradizione romana della città frammentata, ma unita da una forma generale comune e condivisa. Un’interpretazione che rimanda alle metafore paradossali del tardo antico: Roma come casa che contiene molte città, dove l’immagine organica dell’abitazione esprimeva la visione della forma capace di contenere e, insieme, dare senso al molteplice, alle singole parti divise. Ma anche quella della metropoli contemporanea, che si vorrebbe incomprensibile e che, tuttavia, in fondo, mantiene una propria organicità strutturale, se solo si volesse leggerla, dove le schegge e i brandelli delle lacerazioni sono uniti dallo scheletro delle grandi infrastrutture, dalle arterie e dalle vene del sistema di percorsi che fanno intuire come il multiforme ed il complesso siano il portato di una nuova unità fluida e instabile, che non riusciamo ancora a definire. Ecco, a me sembra che la Roma attuale non sia nulla di tutto questo, che sia, più che una città plurale, un insieme diviso di città. Forse questa specificità ha origine, almeno in parte, nel piano regolatore del ’62 che ha previsto, soprattutto nell’espansione ad est, una città destinata a crescere attraverso insediamenti autonomi, separati da aree verdi, ma riferiti alla struttura unificante del  Sistema Direzionale Orientale. Noi abbiamo ereditato le rovine di questo piano, siamo orfani di un’idea di modernità che non si è tradotta in forma. Lo SDO non è mai stato nemmeno iniziato, il verde è diventato i prati di pasoliniana desolazione che conosciamo, aree d’edilizia abusiva, di discariche, smorzi, sfasciacarrozze. I quartieri d’edilizia economica hanno elaborato nel tempo proprie forme di autonoma sopravvivenza, a volte anche decorosa, ma estranee alla vita di una città distante e matrigna. “Vado a Roma” dicono i giovani dei quartieri periferici per dire che vanno al centro, dove c’è tutto quello che manca dove abitano: i servizi, i negozi, il divertimento.
Nonostante tutto, sebbene su quello che sto dicendo siano state innescate infinite polemiche, oggi assistiamo ad un’espansione che prosegue ancora, nei fatti, quella stessa linea dissennata, senza nemmeno l’illusione che il fiume di cemento che si sta riversando nelle periferie, possa avere qualcosa a che fare, almeno, con la città proposta dal movimento moderno quasi un secolo fa e che aveva ispirato un piano già ritardatario nel ’62.
Un’espansione che obbedisce, ancora una volta, alla regola di insediamenti autonomi ma, nei fatti, non autosufficienti, che non formano la metropoli contemporanea, ma nemmeno la continuità della città ereditata, separati gli uni dagli altri, come tante isole che si vanno ormai saldando senza che nessun sistema organizzatore, tra tante polarità rimaste nei piani e sulla carta, le possa realmente integrare. Il problema è di ottica, di prospettive: sembra che non sia possibile pensare che per rovine o frammenti. E’ il trionfo del contingente e del casuale, della trattativa tra politica e promoter sui piani e sui progetti. Le proposte di questi giorni per nuove “cittadelle dello sport”, per esempio, prevedono tutte strutture autonome: migliaia di metri cubi di nuove abitazioni con al centro uno stadio di calcio.
Accettando il compito di mediazione che il progetto à chiamato a svolgere, non ci si è mai soffermati sul ruolo che l’architettura potrebbe avere nel ricostruire i pezzi dispersi delle periferie.
Sembra che il dibattito recente sull’architettura contemporanea si sia concentrato piuttosto sul rinnovo del centro storico. Non riesco a capire per quale ragione, quando si parla di architettura contemporanea e di rinnovamento a Roma, si debba parlare inevitabilmente della sua parte storica. Problema che sembra preoccupare, molto più delle periferie, non solo gli architetti italiani, ma anche quelli stranieri. Dalle dichiarazioni rilasciate dagli architetti che hanno frequentato Roma nella stagione recente, emerge come regolarmente il problema del rinnovamento del centro storico appaia il più urgente tra tutti.
Vorrei soffermarmi su questo problema, non perché sia realmente la questione principale, ma perché è lo specchio delle contraddizioni che vive l’architettura romana contemporanea.
Che il centro storico si debba rinnovare è indubbio: il problema è quale tipo di “contemporaneità” noi dobbiamo prevedere per Roma. Dovremmo considerare con maggiore attenzione, io credo, la nozione contemporanea (contemporanea, non moderna) di “tessuto”, nodo centrale dell’architettura romana estendibile, in forme diverse, dal centro storico alle periferie. L’attenzione al tessuto potrebbe essere il motore del rinnovamento e una scelta assolutamente attuale. La tradizione moderna romana andava, infatti, in direzione diversa. Lo stesso Gustavo Giovannoni, nelle sue teorizzazioni degli interventi su Roma,  proponeva esattamente il contrario, la teoria del diradamento, con il monumento al centro ed il tessuto aggregativo di peso trascurabile.
L’importanza della vitalità del tessuto e della sua funzione di lingua comune è una scoperta recente, che risale al dopoguerra. È una scoperta che ci induce a pensare che il bene cui attribuire valore non è solo il monumento (ed estendendo la nozione dal centro all’intera città, non l’episodio straordinario) ma proprio questa radice profonda che dà il carattere all’architettura romana. Una radice che, per intervenire tanto nella costruzione del nuovo quanto nel patrimonio di edilizia storica, bisognerebbe comprendere a fondo e che quasi mai è stata compresa. La quale potrebbe spiegare come i nuovi interventi di architettura “alta”, le opere firmate che dovrebbero dare nuova qualità alla periferia, dovrebbero “derivare” dal tessuto abitativo al contorno.
Nei libri di architettura e in quelli di storia dell’arte ogni edificio firmato da un grande architetto viene interpretato per la sua eccezionalità. Ma basta pensare al palazzo romano per capire come questo non sia altro che l’interpretazione colta di una nozione condivisa di tessuto che costituisce il sostrato indispensabile per comprendere il monumento e per fare architettura. Sono edifici congruenti “necessari”. Basterebbe guardare la pianta dei pianterreno della città di Roma per vedere come tutto obbedisca ad uno stesso modulo derivato dall’abitazione.
Un lavoro utile che potrebbe fare l’amministrazione è ridisegnare, con rigore scientifico, la pianta dei pianterreno della città di Roma. Pianta che potrebbe divenire il palinsesto sul quale ragionare e dal quale trarre indicazioni che, aggiornate alla luce delle nuove condizioni, potrebbero fornire un utile contributo di metodo per progettare il nuovo. Un palinsesto che  andrebbe esaminato non col gusto antiquario del nostalgico che vuole riproporre il passato, ma con gli occhi nuovi e spogli di pregiudizi di chi vede i disastri dei contemporanei e si chiede che cosa, della città umana e vivibile, sia andato smarrito.

Studio Valle – 50 anni di architettura

valle

mostra organizzata dalla Darc al San Michele

in «Corriere della Sera» del 07.12.2007
di Giuseppe Strappa

La saga professionale della famiglia Valle, dai primi progetti dell’ingegner Cesare nel ’26 ai recenti lavori dello Studio, è ora in mostra al San Michele. Una mostra, ricca e ben documentata, che rappresenta uno spaccato dell’architettura romana vista “dal di dentro”, da chi costruisce pezzi di città, che si sporca le mani con la calce, lotta con gli appalti e la burocrazia. Che rischia, dunque, e qualche volta sbaglia, ma crede ancora che lo scopo dell’architetto sia la costruzione in tutti i suoi aspetti, non le riviste patinate. Questa visione sintetica, quasi  “rinascimentale” del proprio mestiere, che pretende di controllare per intero i processi, dal progetto al cantiere, può sembrare inattuale. Eppure questo limite è anche la grandezza di alcuni grandi studi romani, che, fenomeno forse unico nel mondo della specializzazione, riescono ad essere vincenti con un’organizzazione ancora da atelier.
La storia inizia con i primi progetti di Cesare Valle come il liceo “Giulio Cesare” a Corso Trieste, vera invenzione urbana dove un lungo portico trasparente rompe l’isolamento dell’edificio annodandolo alla vita che scorre nel quartiere. Un tema che compare anche nelle case di via Poma, associate ormai al delitto misterioso che vi avvenne, ma invece allegre ed ariose. Colpiscono, nei suoi disegni, le audaci strutture studiate con Pierluigi Nervi, dallo stadio per 120.000 spettatori all’immenso auditorium sull’Aventino. Opere che forniranno una sorta di “imprinting strutturale” al figlio Tommaso.
Il quale inizia la propria attività, nel dopoguerra, con lo straordinario progetto  per Auschwitz, dove il vero monumento è il campo stesso dello sterminio, marchiato dal segno lugubre della ferrovia e dalle rovine che emergono dal suolo come apparizioni, evocatrici di un sostrato oscuro e terribile.
E poi un fiume di progetti legati alla casualità delle occasioni professionali, difficili da raccogliere in filoni di ricerca. Edifici di solida tradizione muraria e romana (dall’Ateneo salesiano alla biblioteca Don Bosco appena terminata) s’intrecciano al linguaggio trasparente del padiglione italiano all’Expo di Osaka, che riassume, nell’intrico  piranesiano delle travature diagonali, le inquiete ricerche sulle “megastrutture” degli anni ’60. O di opere come la futura sede del Consiglio europeo a Bruxelles, della nuova Fiera di Roma e tante altre. Pezzi di città ignorati, tuttavia, da una critica che sembra spesso prediligere il gioco intellettuale, il disegno raffinato e astratto.
Per questo la mostra organizzata dalla Darc al San Michele non è solo un documento inedito, ma anche il segno di una nuova attenzione alla realtà, concreta e contraddittoria, della città che si trasforma.