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L’ARREDO URBANO E L’ARTE DI COSTRUIRE LE CITTA’.

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di Giuseppe Strappa

in “La Repubblica” del  2.10.1991

“Arredo urbano” è forse una delle locuzioni   più  ambigue che la cultura   architettonica contemporanea    abbia coniato: contiene il concetto insidioso di “guarnire un ambiente”, insinua subdolamente l’idea che le piazze e i giardini nelle città siano una sorta di salotti buoni da abbellire con oggetti di consumo. Alludendo  ad un provvisorio e sovrapposto  decoro , esso  testimonia nella  lingua  il degrado che subisce ai nostri giorni l’arte di costruire le città , l’abbandono di quel  processo continuo  di formazione  dello spazio urbano  capace di  assimilare  le necessarie  novità : il lampione, l’edicola, la fontana disegnati con sapienza e chiamati semplicemente con i loro bei  nomi.  Non a caso nella letteratura sull’argomento spesso lo si incontra con il suo puntuale pendant : la beautyfication,    altro terribile neologismo che ha fatto di recente irruzione nella pubblicistica di architettura e che significa, più o meno, cosmesi  dell’immagine.
Questa breve e personale nota  architettonico-lessicale in margine alla mostra  La capitale a Roma: città e arredo urbano dal 1870 al 1990  appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, costituisce in realtà  una fuorviante introduzione ai materiali esposti . I contenuti  della mostra rispecchiano  infatti  raramente il titolo: rilevata l’ambiguità  (si veda il lucido scritto  di Corrado Terzi nel catalogo edito da Carte Segrete) percorrono in genere, per nostra fortuna,  itinerari più vasti e avventurosi dove l’interesse prevalente sembra essere   lo spazio della città, la scena urbana. Tema di  titanica complessità: uno sterminato racconto  che si potrebbe far iniziare  con la formazione del sistema di grandi piazze a cavallo delle mura, quando la città ormai  si affacciava a Porta Maggiore, a Porta Ostiense, a Porta San Giovanni  a interrogare  il suo  incerto futuro di periferie . Per proseguire con il dramma  degli “isolamenti”, dei “diradamenti” dei tessuti antichi, degli sventramenti otto-novecenteschi che hanno abbandonato nel loro percorso angoli deformi di città, veri   relitti urbani. Oppure spazi dilatati, di pedante vocazione oratoria ai cui margini si sono spesso raccolti  altri spazi dalla grazia sommessa e domestica: piazze esigue come cortili dove la modesta, appartata invenzione di una fontana o  la secca arguzia di una testa di fauno (disegnati secondo il gusto per l’aneddoto minuto e imprevedibile  di tanta edilizia “minore” romana) evitano agli abitanti la desolazione dell’anonimato . Scenografie qualche volta  da operetta che pure sdrammatizzano, vivaddio, la tenace inclinazione al sublime , verso la quale sembrano  scivolare, come per vocazione, gli spazi romani.
Poi la città fascista. Che non fu solo sinistro antagonismo tra Geometria e Storia, ma anche  gelida, enigmatica  eleganza : i porticati dell’Eur, i piazzali del Foro Italico, i viali della Città Universitaria. Ed anche, perchè no, il patrimonio dimenticato di studi per le sistemazioni delle aree centrali che generarono spesso esiti  infausti (si veda il caso esemplare di piazza Augusto Imperatore)  soprattutto per la miopia dei politici.
E poi ancora le periferie dissennate della Ricostruzione, i prati sudici  cantati da Pasolini, le vecchie osterie con i pergolati polverosi, naufragate nel mare dei casermoni; ma anche il monumento delle Fosse Ardeatine, capolavoro e simbolo dell’architettura romana del dopoguerra, al quale peraltro Bruno Cussino dedica  un immotivato, inaccettabile    insulto nell’introduzione al catalogo.
E il boom economico , l’abbandono di ogni speranza di una dimensione civile  dello spazio pubblico, la fiammata dell’effimero,  fino alle illusioni  degli anni ’80 , all’euforia ottimista e contagiosa che ha  coinvolto architetti di ogni tipo ,professionisti , studenti , docenti , impiegati della pubblica amministrazione, in  uno sforzo generoso che ha prodotto un’ immane quantità di progetti, disegni, proposte, programmi, piani. Non lasciando quasi alcun segno sulla città.
Infine, comune a tutte le epoche, la cognizione inquietante del sottosuolo carico di storia, l’ubiquità del tenebroso splendore delle viscere della città, che ogni tanto affiorano come un’apparizione   a largo Argentina, come  tracce preziose tra i vicoli del Ghetto o nei prati delle periferie  : rovine auguste e indifese  di fronte alle quali parlare di “arredo” sembra un’ ingiuria volgare.
Il   materiale al quale la mostra attinge con risultati a volte spettacolari è,  come si vede , un magma  affascinante di smisurata vastità . Di fronte al quale, va detto, alcuni settori stentano a trovare un proprio centro (si veda l’erratico assortimento di temi in alcune delle sezioni storiche). Ma il vero significato della mostra è forse riposto  nei suoi vuoti : invano  si cercherà un accenno allo SDO, un disegno che riguardi la costruzione reale dei  grandi interventi per  Roma capitale, un’impennata di concretezza e orgoglio civile  che non renda inutile la lezione del passato.

L’UTILITA’ DI PROGETTARE NEI CONTESTI STORICI

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Progetti di studenti nel centro storico di Trani e recupero di strutture in c.a. a Castelluccio Superiore

Giuseppe Strappa,  in “Il progetto nel contesto storicizzato” , Atti del convegno di Aramo, 17 maggio 2008,
a cura di Alessandro Merlo e Gaia Lavoratti, Firenze 2009

Vivere il paesaggio costruito di Aramo, “praticarne” le pietre, le murature, le costruzioni, costituisce già, credo, una buona lezione di architettura. Si comprende, dal vivo, come questa si formi per stratificazioni successive, attraverso un processo di mutazioni spiegabili con la logica elementare ed evidente della necessità che ogni organismo richiede per vivere e modificarsi nel tempo. Trasformazioni, altra nozione utilissima per il progetto, operate dagli abitanti a partire da un primo impianto che costituisce una fondazione e, insieme, una sorta di canovaccio, un’ipotesi di lavoro sulla quale costruire nel tempo l’aggregato futuro.
Si capisce anche come perfino quando (è il caso delle dieci Castella dell’area pesciatina) le decisioni su quest’impianto sono prese da un potere estraneo e sembrano appartenere solo al mondo lontano delle tecniche militari, la coscienza del costruttore finisce per adeguare le scelte alle condizioni fisiche del luogo, alla propria esperienza della terra e della vita che vi scorre. Le “addomestica”: le riporta cioè, nel senso etimologico del termine, alla confidenza della casa, instaura quel rapporto di calda familiarità tra costruzione, suolo e cultura che è il fondamento di ogni modificazione organica del territorio. E non è un caso che l’edilizia speciale e quella di base condividano, ad Aramo, una stessa misura dello spazio, le stesse dimensioni fondamentali che ricordano come qualsiasi grandezza del costruito ritorni, attraverso percorsi e cicli a volte misteriosi, all’origine del primo spazio abitato dall’uomo. Perfino l’impianto della chiesa di S. Frediano, sebbene di tanto seriore rispetto alla strutturazione dell’organismo insediativo, partecipa della stessa, domestica modularità condivisa delle case a schiera del borgo.
Ma è vero anche quello che scrive, su queste pagine, Maurizio Ciumei partendo da un testo di Claudio Magris: questi spazi, le forme che ne rendono visibile e bella la struttura, sono oggi “invasi”.
Noi in-vadiamo, cioè andiamo contro, quello che pure ammiriamo.
Ognuno di noi possiede una parte della rovinosa disposizione del barone von R. di Hoffmann: osservando un paesaggio costruito, tanto perfetto quanto distante, tendiamo a mettere al centro dell’osservazione i nostri desideri e le nostre attese, ne modifichiamo i contorni secondo una prospettiva privilegiata. Magari non abbattiamo gli ostacoli che si frappongono tra l’osservatore e la cosa osservata come il barone hoffmanniano, ma applichiamo quei principi romantici del pittoresco, fondamento del turismo e, insieme, di tanta parte dell’architettura moderna, che deforma la realtà costruita riportandola a quello che vorremmo che fosse.
Tra queste molte invasioni, quella operata dal progetto di architettura svolge un ruolo del tutto esemplare. Si noti, per convincersene, come non esista progettista che non affermi di aver profuso, nel disegno di una nuova costruzione, grande attenzione per quanto già esiste. E forse, per quanto siano sconsideratamente dirompenti o, al contrario, banalmente imitative le forme impiegate nei confronti dell’esistente, quello che dice è vero. Eppure non c’è progetto che non usurpi, facendo perdere loro qualche qualità, i caratteri storici e paesistici dei luoghi nei quali si pone. Se si rileggono le osservazioni dell’Adolf Loos di Parole nel vuoto sulle costruzioni che gli architetti inseriscono nel contesto, si vedrà che quest’osservazione è tutt’altro che polemica, che giace da tempo, accuratamente nascosta, negli strati profondi della coscienza moderna.
In realtà la radice del problema, credo, è il modo attuale, ancora tardo romantico (e che pure la critica considera come valore in sé) di vedere il mondo secondo una propria gelosa individualità. Una ragione che può essere riconosciuta nell’essenza stessa del progetto contemporaneo, se si considera che non solo nei tessuti premoderni l’edilizia di base non veniva progettata, ma fino a tempi recenti si continuava a costruire per lo più in base alla nozione vigente di casa consolidata dalla prassi edilizia e dall’esperienza abitativa. In qualche modo il progetto di case ed aggregati edilizi non era antecedente al costruito, ma nasceva con esso, emergeva, per così dire, dai depositi di una memoria condivisa. E’ noto, peraltro, come anche in molta edilizia specialistica del passato il progetto costituiva parte integrante della costruzione stessa costituendo la pro-iezione di disegni in scala reale, tracciati sul suolo del cantiere, ai quali gli elementi, anche se costruiti altrove, si sovrapponevano preformando una struttura che veniva poi “pro-iettata”, gettata nello spazio a costruire la forma. Un’idea della continuità di questo rapporto solidale tra edificio speciale e struttura statico-costruttiva si può avere pensando alle opere della grande ingegneria moderna, dalle realizzazioni ispirate dall’insegnamento dell’ École des ponts et chaussées fino alle sperimentazioni italiane del secondo dopoguerra sull’impiego del calcestruzzo armato in strutture a carattere organico.
A quest’adesione condivisa del soggetto operante con l’oggetto del proprio lavoro, con la fisicità oggettiva della costruzione, si è sostituito un rapporto sempre più individuale, astratto e distante. Il progetto contemporaneo ha finito così per possedere una propria totale autonomia rispetto alla realtà fisica, fino ad appartenere, oggi, ad un circuito immateriale dove ogni progetto rimanda non al costruito reale, ma ad altri progetti altrettanto astratti e senza luogo. Non si tratta più, si badi, dell’”esportabilità” del disegno architettonico di cui parlava Gianfranco Caniggia, degli scambi tra aree che hanno portato a fertili innovazioni, dal gotico fiorentino al moderno classicismo nordico: è la stessa nozione di area culturale ad entrare in crisi.
Riprendendo un paragone esposto nelle pagine precedenti con molta chiarezza da Giancarlo Cataldi, non siamo più di fronte a quegli scambi tra culture che hanno portato alla formazione delle lingue nazionali, dove anche il dialetto aveva una funzione di contributo innovatore. Ci avviamo, ormai, verso l’impiego di una lingua metastorica e senza luogo, un inglese semplificato, asettico e cavo, predisposto ad accogliere ogni neologismo, non importa se proveniente da Silicon Valley o dalla borsa di Shanghai. E, intanto, i generi, in architettura, sono scomparsi e perfino per l’edilizia di base è considerata disdicevole la descrizione della prosa, essendogli di gran lunga preferita una onnipresente “poesia”, mediatica e spesso goffamente spettacolare. L’aspirazione pasoliniana alle “piccole patrie”, dove anche isole come la lenga furlana avrebbero trovato spazio e dignità, si è del resto trasformata, in tutta Europa, in egoismi etnici che reclamano confini, provocano divisioni e conflitti.
E’ con gli occhi rivolti a questo mondo in cui alla totale omologazione sembrano contrapporsi solo miti regressivi, dunque, che l’architetto contemporaneo invade gli ultimi santuari della cultura ereditata. Ed è in queste condizioni si tende a riportare un patrimonio prezioso, attraverso il turismo o per mezzo dell’architettura, con la disinvolta giustificazione dell’abbandono in cui versa, nel grande circo del consumo universale.
In questo quadro di totale perdita della nozione di processo, l’interpretazione neo-pittoresca del costruito storico suggerisce di solito l’idea di una casualità latente, di strutture irripetibili che hanno assunto la forma attuale “degna di essere dipinta”, appunto, ma che avrebbero potuto assumerne infinite altre. La qual cosa contiene certamente una parte di verità del tutto inutile, tuttavia, al progetto. Nascondendo, invece, quella parte di verità che sarebbe indispensabile per capire e progettare il nuovo, la regola individuata nella formazione e trasformazione della realtà costruita che consente di apprezzare, anche, la ricchezza della vita di tessuti ed edifici attraverso le sue infinite deroghe. Sintetizzare gli aspetti essenziali di un intorno civile non significa, infatti, comprenderne solo le fasi eccezionali che colpiscono l’immaginazione e riempiono le storie (le rotture, i rivolgimenti, le conquiste) ma, soprattutto, il ben più duraturo e lento svolgersi della vita quotidiana, ricercare quei principi generali che esprimono, attraverso la varietà degli esiti, l’eterno contrasto che contrappone al fluire della vita, con i suoi aspetti a volte accidentali e misteriosi, alla volontà di spiegarne ragioni e senso.
Nell’ansia del risultato unico ed irripetibile, ottenuto attraverso l’artificiale casualità di meccanismi d’invenzione gelosamente coltivati, i progetti contemporanei finiscono quasi sempre, al contrario, per essere tutti somiglianti tra loro senza che alcun principio comune ne spieghi la similitudine, se non una stessa ricerca di diversità, come una rivoluzione che abbia dimenticato, nella preoccupazione del cambiamento, la spiegazione dei propri fini.
Credo che un ruolo importante svolga, nella formazione di queste condizioni di progetto, la smisurata disponibilità di risorse e l’ estesa dilapidazione di ricchezza che caratterizza le società affluenti del mondo occidentale. L’affrancamento dai vincoli imposti dal bisogno, che obbligavano a rapporti di elementare necessità tra le cose, ha finito col produrre il decadimento dei nessi che contribuiscono a spiegare come si sviluppino ed applichino le leggi di proporzione e congruenza tra gli elementi che compongono un edificio, un aggregato edilizio, una città. Per questa via il principio di giusta proporzione dei mezzi impiegati rispetto ai fini da raggiungere sta perdendo il ruolo fondante che pure ha avuto per secoli nella pratica progettuale. Si sta smarrendo, anche, l’etica del buon uso delle risorse che coincide, insieme, con l’arte del saper ben progettare e ben costruire. E, forse, proprio le inedite concentrazioni di ricchezze nelle aree egemoni del mondo, permettendo la progressiva liberazione dalle necessità economiche, mito di ogni ideologia, diverranno il grande problema del futuro, togliendo senso alla logica della costruzione e all’equilibrio del territorio. Le nozioni di tipo, organismo, processo, divengono così, da necessità, scelta consapevole quanto difficile.
Per questo credo che dovremmo indicare di continuo ai nostri studenti di progettazione lo studio, troppo spesso lasciato alle sole discipline storiche e di restauro, di organismi formatisi attraverso processi ininterrotti di correzioni ed aggiornamenti i quali testimoniano come l’uso sapiente e proporzionato delle risorse produca anche bellezza.
Certo, nel quadro generale che abbiamo indicato, un seminario che, come quello di Aramo, proponga il tema del progetto e della contemporanea lettura di un contesto storicizzato può risultare eccentrico, inattuale. Nell’età dei media e della globalizzazione non è agevole parlare di caratteri condivisi e di organicità alle diverse scale. Eppure ritengo che oggi ci sia bisogno di inattualità, che proprio da questo guardare con occhi nuovi al passato cercando di comprendere le ragioni formative delle cose oltre la loro superficie, possa provenire uno dei pochi mezzi di innovazione e critica alle condizioni del progetto contemporaneo; che proprio la distanza dalle condizioni generali del dibattito architettonico (stancamente) in corso possa risultare, alla fine, feconda, visto che i nostri contemporanei sono troppo simili a noi perché possano insegnarci qualcosa.
Come ho potuto riscontrare anche in altre occasioni, con i seminari tenuti nel vivo dei tessuti storici a Trani, La Valletta, Urfa, Bahia, Castel Madama, progettare partendo non da cartografie, descrizioni, sopralluoghi, ma leggendo dal vivo la cosa progettata, è un modo di riproporre il contatto diretto con la verità fisica della costruzione e del suo processo formativo: è una maniera di riportare i problemi “alle cose stesse” da cui derivano, superando l’astrazione della rappresentazione mediata e delle incerte deduzioni che ne derivano. E in questo senso, va detto, i risultati grafici conseguiti dai seminari condotti sul campo, che non sempre hanno i tempi necessari a lasciar “decantare” il progetto, non danno sempre conto dell’insegnamento profondo che da queste esperienze proviene.
Una lezione ricavata dalla lettura di un tessuto storico come quello di Aramo può avere inizio, mi pare, dai modi stessi nei quali l’architettura viene consumata. Il termine “consumo” non ha nulla a che vedere oggi, infatti, con trasformazione civile, funzionale e fisico di una forma, che termina un suo ciclo per iniziarne un altro, ma ha trasformato il proprio significato in richiesta imposta dalla rapidità dei cicli produttivi, della pubblicità, delle mode.
Proprio la lettura ed il progetto in contesti che mantengono un forte legame col proprio processo formativo sono di fondamentale importanza, ritengo, per riscoprire l’insegnamento dei tempi “naturali” di trasformazione e consumo delle forme degli organismi edilizi ed urbani. Tempi che sono pertinenti alle diverse fasi civili e che è un errore tentare di eludere nascondendosi dietro assunti apparentemente scontati ma, in realtà, indimostrabili.
L’idea che la velocità imposta dal progresso, ad esempio, debba comportare l’abbandono del carattere plastico e murario (che non è semplicemente costruzione in muratura) del nostro ambiente costruito, inseguendo modelli “leggeri” sviluppati, peraltro con qualche coerenza, in aree culturali estranee e lontane. O quella che compito della nuova architettura sia quello di produrre bisogni per assicurare il proprio sollecito rinnovamento, in modo non diverso da quanto avviene per le merci.
L’interesse dell’edilizia di Aramo e la vitalità del suo insegnamento derivano, dunque, da una nozione processuale di consumo (dell’edilizia speciale, della casa a schiera con le specializzazioni e gerarchizzazioni successive) alla quale corrisponde una continua capacità di aggiornamento e recupero nel tempo. Aggiornamento e recupero che oggi non possono che essere inevitabilmente critici: mi pare, anzi, che una delle ricadute positive del seminario sia costituita proprio dalla dimostrazione di come la lettura, anche quando condivisa, non liberi il progettista dalle proprie responsabilità, che ogni soluzione non possa che costituire, nelle condizioni di crisi nelle quali siamo tenuti a progettare, prodotto di coscienza critica.
Il progetto elaborato dal gruppo guidato da Giacomo Gallarati e Marco Zuppiroli mostrato in queste pagine, ad esempio, espone la diversità degli esiti, peraltro tutt’altro che inconciliabili, all’interno di una lettura comune. Le regole d’accrescimento dell’insediamento di Aramo ( le “leggi del divenire dell’edilizia”), sono riconosciute negli organismi insediativi sintopici dell’area pesciatina, condivise da tanti insediamenti di crinale dell’Italia centrale dove l’organismo insediativo si forma attraverso accrescimenti concentrici intorno al percorso matrice di crinale e, raggiunta la propria completezza, la forma finita d’individuo urbano, si raddoppia per gemmazione. Ma quando questa conclusione è stata raggiunta? Quale forma assume la polarità che individua la linea di ribaltamento da cui si genera il nuovo organismo? E quale edilizia speciale la denoterà? La lettura, anche se condotta per via comparativa su casi di studio affini, non da risposte (o meglio, presenta un ventaglio di soluzioni possibili, ognuna soggetta, a sua volta, a molte interpretazioni) ponendo l’eterno quesito del rapporto non solo tra lettura e progetto, ma tra teoria e prassi. Dimostrando, anche, la ricchezza e le potenzialità del metodo tipologico-processuale, al di là dell’apparente determinismo che ha generato infiniti equivoci. A parte la provvisorietà dimostrativa delle soluzioni (che è interna allo spirito di un seminario e alle intenzioni stesse degli autori), i disegni sembrano proporre un fertile dubbio più che una soluzione, presentando due criteri d’intervento possibili. E va notato, a proposito della (relativa) convergenza della lettura e della molteplicità del progetto, come altri gruppi, come quello della Facoltà d’Ingegneria di Bologna guidato da Giorgio Praderio e Luigi Bartolomei, abbiano seguito ipotesi simili con esiti molto diversi dai precedenti.
Certo, nella tradizione della “riprogettazione” come metodo d’indagine sulla realtà costruita, si sarebbero potute sondare molte altre soluzioni e sono certo che non mancheranno occasioni per continuare lo studio progettuale sull’insediamento di Aramo che Alessandro Merlo ha organizzato con tanta capacità e passione.
Ma a me pare che già la preziosa esperienza di questo seminario possa aver contribuito ad insegnare allo studente libero da pregiudizi a riconoscere quei caratteri di organicità della realtà costruita che, necessariamente aggiornati, sono ancora capaci di fornire indicazioni ai frammenti dispersi del nostro territorio. E magari possa anche aver concorso a fargli intuire, nel pessimismo dilagante, lo spiraglio del cambiamento, a fargli balenare l’ipotesi, autenticamente nuova, di poter leggere nell’indistinto apparente che caratterizza i disastri di tante trasformazioni contemporanee del nostro territorio, i segni nascosti di un ordine ancora possibile.

ATTUALITA’ DI PIACENTINI

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in «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2010

di Giuseppe Strappa

Pochi architetti come Marcello Piacentini, protagonista assoluto dell’architettura romana tra le due guerre, hanno ricevuto condanne tanto definitive.
Piacentini, scriveva Giuseppe Pagano (e dopo di lui l’intera critica del dopoguerra), ha paura del nuovo. In realtà Piacentini aveva fatto di più, aveva teorizzato questa paura. Le trasformazioni in corso nell’architettura internazionale, sosteneva, apriranno pure al futuro, ma stiano lontane dalle nostre città, troppo preziose perchè corrano il rischio di esperimenti. Le sue architetture finiscono così per sembrare, oggi, estranee alla vita, evocare un’aristocratica distanza tra il mondo astratto dell’architetto e la complessità della metropoli in tumulto.
Eppure alcune sue opere sono parti di Roma autenticamente moderne e, a loro modo, singolari.
Un’ originalità difficile da scoprire che consiste, paradossalmente, nella cosciente riduzione dell’invenzione. Quando anche l’architetto più modesto si sentiva chiamato alla creazione individuale, Piacentini proponeva una lingua comune, semplificata, originaria. Sapeva, infatti, che la modernità è anche una rinuncia, l’arte di dire poche parole, ma essenziali; l’unità delle cose che mette in secondo piano il molteplice dei particolari e la sua poesia.
Nei suoi piani per l’Eur e per la Città universitaria ha così convinto i molti architetti che disegnavano i singoli edifici, anche grazie alla sua autorità indiscussa, a far rifluire il proprio linguaggio personale in poche forme condivise.
Ancora oggi molta critica non gli perdona il suo legame col potere politico. Dimenticando che il rapporto tra architettura e potere (dei papi, dei re, dei grandi finanzieri) è parte integrante delle maggiori stagioni artistiche, dal Rinascimento, al Barocco, al Moderno. E che i tanti professionisti che hanno gestito la nostra urbanistica e la nostra edilizia recente hanno avuto, anche loro, solidissimi legami coi poteri forti dell’economia e della politica, con i poveri risultati, tuttavia, che sono sotto gli occhi di tutti.
Forse varrebbe la pena, ogni tanto, di guardare le cose senza il peso della Storia, con occhi nuovi, come per la prima volta. Ci accorgeremmo, allora, di come la forza urbana della Città universitaria, forse proprio per il rigore del suo disegno, sia ancora capace di accogliere il caos di studenti ed automobili, di resistere all’incuria, di sopportare ogni sorta di abusi edilizi rimanendo un vero pezzo di città. E di come, al paragone, la nuovissima università di Tor Vergata non sia che un collage di frammenti discontinui, seminati a ridosso di informi arterie di traffico.
Certo, Piacentini ha commesso anche molti errori monumentalizzando, tra l’altro, intere parti di tessuto storico.
Anche per questo attribuire ai suoi volumi grandiosi un’impossibile attualità sarebbe un errore. Ma non lo è il riconoscere quello che oggi quei volumi indicano: la possibilità di offrire una forma alla città in trasformazione, il desiderio, dimenticato, di dare senso e unità alle sue schegge disperse.

LETTURA DELL’ ORGANISMO ARCHITETTONICO

 

Lezione di G.Strappa
Prendiamo in esame il caso di Villa Capra cercando di comprenderne le ragioni formative e le potenzialit¦ di sviluppo:
– perché essa si configura come organismo;
– perché di questo organismo possono essere date alcune leggi generali, che lo identificano allíinterno di una famiglia di organismi: una definizione che, trascendendo il singolo edificio, permetta di riconoscere nel manufatto architettonico la presenza di caratteri costanti che individuano il tipo.
Villa Capra, concludendo una famiglia di edifici e ponendosi all’inizio di un’altra, sotto molti punti di vista, esemplare. Riguardiamola sotto l’ottica del rapporto col luogo e delle componenti che lo informano.
Il luogo. Nel programma unitario dell’organismo uno dei dati del problema è legato all’utilizzazione dell’edificio rispetto alle condizioni al contorno: una villa situata nella campagna vicino Vicenza, su un luogo di cui sono note le qualità, e dal quale è possibile osservare quasi in maniera isotropa il paesaggio circostante con pochi discreti punti cospicui: “Il sito è degli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto gradevole Theatro, e sono coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi e buonissime viti…”.

 

L’utilitas. Questo edificio è una villa, quindi fa riferimento ad un modo di abitare di consolidata tradizione: corrisponde ad una grande, ben individuabile famiglia di edifici. La villa, così come si è configurata nel tempo, corrisponde ad un edificio di abitazione di campagna, che ha con la natura un rapporto contemplativo: la tradizione della villa corrisponde alla cultura dell’otium, del riposo volto alla riflessione, allo studio, alla contemplazione. Rapporto diverso, quindi, da quello che instaura la casa rurale, altra forma diffusa di relazione diretta tra edilizia abitativa e natura, che è invece principalmente produttivo, di sfruttamento. dato che condiziona la funzione è costituito dalla figura del committente, il referendario apostolico Paolo Almerico, figura di prelato colto, intellettuale e letterato. Ne risulta un programma di relazioni tra le parti dell’edificio dove l’istanza funzionale non è separabile da quella simbolica.
La firmitas. Dal punto di vista della costruzione il programma è altrettanto chiaro: non possono che essere utilizzate le tecniche tradizionali disponibili, legate alla struttura muraria continua o alla struttura trilitica (parti portanti) e alle coperture spingenti a volta, a cupola o semplicemente appoggiate come travi e capriate (parti portate). L’esteso uso della parete muraria condiziona la geometria dell’edificio: l’organizzazione per setti murari costringe ad un rapporto di necessità strettissimo tra la parete portante (che è anche chiudente) e la coperture portate. Lo studio statico dell’organismo risulta dunque non isolabile da quello distributivo.

Progetto Palladio Digitale

La venustas, problema delicatissimo per essere il periodo nel quale Palladio progetta un momento di transizione nel quale si instaura un rapporto tutto particolare con l’antico. Le componenti del programma “espressivo” della villa palladiana sono molteplici: da una parte líistanza di dare dignit¦ allíedificio utilizzando le forme rintracciate nelle testimonianze dell’antico, secondo il disegno, che Palladio persegue costantemente, di dare un volto nuovo agli edifici della nobiltà colta veneziana che ancora non possiede segni attraverso i quali autorappresentarsi. Non possono che rivelarsi inadeguati alle esigenze della committenza tanto il tipo di edificio derivato dalla “barchessa”, la residenza del piccolo proprietario terriero veneto con semplice copertura a tetto, quanto il tipo della villa-castello formatasi nel Quattrocento (Villa Porto-Colleoni a Thiene; Villa Giustinian a Roncade) ed ancora in uso ai tempi di Palladio. Ma qui più che altrove, cogliendo l’occasione di rispecchiare il carattere di una committenza allo stesso tempo intellettuale e religiosa, insorge l’istanza a fondere elementi di un edificio religioso legato alla storia (il tempio) con le forme di un edificio civile (la residenza di campagna). Si tratta di un processo critico complesso per le scelte da operare e perchè in realtà Palladio, come è noto, opera su materiali da tempo detratti dalla storia. Egli non vive la prima età della riscoperta dell’antico, quando con entusiasmo si cominciavano a studiare le tracce lasciate dal mondo classico. Opera, invece, su un corpo già consolidato di nozioni, riflessioni, conoscenze: conosce a fondo Vitruvio e i trattatisti rinascimentali, ha acquisito e fatto uso di un patrimonio di studi ormai consolidati. Opera, inoltre, all’interno di una sorta di fertile contraddizione tra fonti dirette e fonti letterarie: il trattato di Vitruvio trae origine per larga parte dallíantichità greca, mentre Palladio in realtà studia ed opera sull’antichità romana. Contraddizione che si manifesta appieno quando gli vengono commissionate le illustrazioni al testo antico (un testo letterario del I secolo a.C. privo, com’è noto, di commento grafico). Questa condizione di interprete costretto a fondare le sue deduzioni su fonti malsicure pone Palladio in una posizione particolare nei confronti dell’antico: non già quella dell’archeologo o del filologo, ma dell’architetto, nel ruolo fecondo di chi è costretto a risalire processualmente alle origini delle forme architettoniche, ad interpretare “criticamente” gli esempi antichi, ad “inventare” nuove varianti ai tipi tramandati. Inventare nel senso etimologico di invenire, dunque trovare, incontrare, scoprire (imbattersi, in un certo senso), dove l’inventio è più ritrovamento critico che innovazione programmatica.
Cerchiamo di ricostruire, interpretandola strumentalmente, la genesi di Villa Capra. Per prima cosa vengono tracciati due assi. Gesto fondamentale di orientamento che permette all’uomo di orizzontarsi rispetto alla natura (al sole, alla campagna, alla vegetazione). Sono gli stessi gesti elementari di fondazione, ripetuti per gli edifici come per le città. Il tracciamento dei due assi di orientamento è seguito dal disegno del recinto quadrato, atto elementare di appropriazione dello spazio. L’edificio deve essere rivolto verso il paesaggio per permettere la contemplazione della campagna circostante: viene tracciato un sistema ordinatore di altri quattro assi, secondo due direzioni, che proiettano l’edificio all’esterno; la contemplazione viene tradotta in termini architettonici, attraverso l’idea del pronao ripetuto sui quattro lati.
Palladio stabilisce una gerarchia tra le parti:
– il perimetro quadrato, limite individuato da linee che dividono l’architettura dalla natura, l’interno dall’esterno;
– la serie dei vani perimetrali ripetuti lungo il perimetro, alla periferia dell’edificio;
– il nodo spaziale, il grande vano centrale, fondamento e cuore dell’edificio, espresso attraverso la forma circolare.
Il tipo si comincia a tradurre in un programma di assi, linee, vani attraverso riflessioni che abbiamo esposto in astratto, ma che in realtà, nella mente dell’architetto, non sono scindibili da ragionamenti costruttivi, funzionali, espressivi: dalla concretezza muri e delle volte. Ne deriviamo una considerazione che svilupperemo ampiamente in seguito: la geometria non determina, ma interpreta ed esprime la vita dell’edificio. Le componenti dell’organismo hanno tra loro un rapporto di necessità intrinseco, secondo una concezione unitaria dello spazio, della struttura, della vita che nell’edificio si dovrà svolgere. Palladio non pensa ad uno schema funzionale da tradurre in architettura: la sua è una totale dell’edificio da realizzare attraverso forme semplici, elementari, dove la forma circolare del nodo spaziale è, coscientemente, leggibile come sintesi perfetta dell’unità dell’organismo perché la circonferenza “avendo le sue parti simili tra loro, e che tutte partecipano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l’estremo ugualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità e la Giustizia di Dio”. Per questo Villa Capra è uno degli esempi di organismo architettonico più chiari: perché è cristallinamente unitario il modo di relazionarsi delle parti con le necessità generali dell’edificio. Dalla iniziale concezione unitaria dell’organismo Palladio ha derivato le considerazioni che uniscono funzione e simbolo: lo spazio centrale è lo spazio della vita, quindi deve essere lo spazio dell’emozione dinamica che si prova entrando
all’interno dell’edificio.” uno spazio domestico, ma anche simbolico, che trascende la pura funzione abitativa. Come la geometria è la rappresentazione formale della regola gerarchica per la pianta, così avviene per l’alzato. Il vano circolare centrale è dominante e quindi a doppia altezza, i vani minori occupano la periferia dell’organismo, sono secondari e “quindi” su una sola altezza: il concetto di centro e periferia, della gerarchia delle parti, informa in modo totale il disegno dell’edificio. E quasi a conservare l’idea leggibile del recinto, della corte originariamente aperta intorno alla quale l’edificio si struttura, il grande vano centrale viene coperto a cupola, simbolo della volta celeste, dello spazio dinamico, aereo, mentre il volume del parallelepipedo che lo circonda simboleggia la base, la terra, la parte statica, materiale dell’edificio. Gerarchicamente il cilindro è la parte più importante, e accanto ad esso si organizzano le parti periferiche, subordinate dal punto di vista funzionale e statico. L’edificio è un organismo perfetto perché ogni parte concorre in rapporto di strettissima necessità statica, funzionale, espressiva a formare un’unità: tant’è che le parti periferiche sono subordinate gerarchicamente anche dal punto di vista del ruolo che svolgono all’interno del sistema statico-costruttivo: la cupola, parte portata, spinge sulle reni, dove viene impostata la capriata, e sui vani periferici (parte portante) destinati ad assorbire, secondo un meccanismo consolidato, le sollecitazioni prodotte dal vano centrale. Anche la capriata, a sua volta, potenzialmente spinge sulla muratura perimetrale (anche se le azioni mutue sono “provvisoriamente”, potremmo dire, eliminate dal tirante) e quindi la funzione dei pronai è allo stesso tempo quella di individuare e rendere leggibili gli assi accentranti dell’edificio, e, contemporaneamente, di reagire alle sollecitazioni ultime trasmesse dalla copertura agli elementi contigui. L’intero edificio poggia infine su un basamento-podio che, oltre a sopraelevare la villa rispetto al terreno, indicandone l’artificialità rispetto alla natura, ha il compito di scaricare sul terreno i carichi delle murature.
E’ riscontrabile, in altre parole, una legge gerarchica comune a tutte le componenti dell’edificio. Nell’utilitas questa legge è riconoscibile attraverso la sequenza: vano centrale di rappresentanza, vani subordinati perimetrali. Nella firmitas lo stesso programma funzionale coincide in una gerarchia statica: parte portata (la cupola spingente), vani perimetrali che sostengono questa spinta, pronai che raccolgono la spinta residua delle coperture e la contrastano, basamento. Utilitas non significa quindi dare risposta alle funzioni in modo meccanico e utilitaristico: quella di Palladio è uníidea umanistica di funzione, legata al modo con cui l’uomo è destinato a vivere lo spazio, che procede non attraverso strumenti puramente logico-funzionali ma fondamentalmente emotivi. Si veda, come lampante dimostrazione, il ruolo assegnato alle scale interne. Villa Capra è una particolare interpretazione della villa e, ovviamente, non l’unica possibile: in molti edifici di questo tipo, a volte anche ville palladiane, la scala ha una funzione importante, costituisce il cuore stesso dell’edificio che indica l’idea di continuità dello spazio centrale del piano terreno con il resto della casa. In questo caso il programma Ë diverso: lo spazio simbolico al centro dell’edificio deve essere di chiarezza assoluta, non disturbato da elementi accessori. La scala ha quindi un ruolo meno importante di quanto la sua funzione richiederebbe, un ruolo del tutto subordinato: il programma dell’utilitas è condizionato dalla più generale visione del “funzionamento simbolico” dell’edificio.
Anche se il problema dei due vani angolari, che risulterebbero dall’applicazione meccanica della geometria, non può che essere risolto nella fusione di due vani, ottenendo vani gerarchizzati, l’impianto rimane, tuttavia, orientato dai due assi di percorrenza che organizzano due fasce laterali (quasi la fascia di pertinenza di una strada urbana) che generano, come nei tessuti urbani di case a schiera, un’anomalia sugli angoli, dando luogo ad una pianta “incidentalmente” asimmetrica. L’interpretazione di questo edificio svolta con gli strumenti dell’architettura, riconoscendo la fondamentale unità dell’organismo, è diversa dall’interpretazione dello storico dell’arte: se si osservano gli schemi interpretativi di R. Wittkower delle ville palladiane si rileverà una diversa lettura, legata alla forma visibile che l’edificio ha assunto nella costruzione: da storico, riflettendo sugli esiti, Wittkower riconduce questo edificio nel filone degli organismi monoassiali, secondo lo schema comune che dovrebbe informare tutte le ville palladiane14. In realtà, riguardato sotto il punto di vista della “matrice” formativa che presiede alla formazione dell’organismo, esso possiede due assi di simmetria intersecantesi nel polo dello spazio centrale, con vani perimetrali di carattere rigidamente seriale, gerarchizzati unicamente allo scopo di risolvere il problema dell’accesso al vano angolare. Anche la posizione delle aperture di porte e finestre, distribuite in “infilata” secondo assi contemporaneamente di percorribilità secondaria e di continuità percettiva, conferma la legge generale di isotropia. In che modo quello che sembra essere esclusivamente il portato “necessario” delle scelte che riguardano l’organismo riesce a rendere leggibili i contenuti dell’edificio? Si immagini di sovrapporre alla sezione il prospetto: la facciata (dove sono anche rappresentati i diversi ruoli delle parti di edificio rispetto alla verticale, alla forza di gravità: basamento, elevazione, unificazione, copertura) corrisponde esattamente, ma, si badi, non meccanicamente, all’idea di spazio che Palladio voleva rappresentare. Essa non rispecchia il semplice dato costruttivo, ma esprime la vita dell’edificio. Le linee orizzontali (sia la sequenza continua della trabeazione che il marcapiano unificante il piano dí appoggio alla conclusione del basamento) percorrono le quattro facce dell’edificio rivelandone la gerarchia interna coll’informare le pareti murarie e i quattro pronai, indicando la quota di imposta sia del primo piano che dei timpani. Sono segni che esprimono sinteticamente e convenzionalmente (simbolicamente) il carattere dell’edificio, rendendone leggibile l’unità. Si noti come anche il basamento, quasi una fondazione fuori terra, denunci la gerarchia che anima l’edificio, eseguito ad archi e volte in quanto autonomamente stabile e virtualmente precedente la costruzione abitata, come un suolo artificiale sul quale fondare líedificio.
E’ chiaro come tutta l’espressione architettonica corrisponda ad alcuni principi, un ordine generale che denuncia la necessità del rapporto tra i diversi elementi: questa regola, resa leggibile, è lo stile usato da Palladio.
A differenza del modo romantico di intendere lo stile come espressione individuale, lo stile in architettura può essere quindi definito come la scelta dei principi che coordinano l’atto costruttivo dell’artefice. E’ quindi un principio molto diverso, ad esempio, da quello che contempla l’uso personale di un repertorio.
In fase di coscienza critica la nozione di stile prevede, nella mente dell’artefice, una conoscenza degli elementi e della loro relazione reciproca (struttura) talmente profonda da consentire un uso del linguaggio individuale eppure aderente alla processualità della realtà costruita. La riconoscibilità individuale dello stile, tutt’altro che condannabile, è comunque data dalla inevitabile frequenza di certi elementi e dalla ripetizione di alcune strutture tettoniche sperimentate. E se in altre arti può esistere una relativa coincidenza tra poetica e stile, questo non può verificarsi in architettura: dove nelle arti figurative lo stile riguarda la rappresentazione, in architettura esso riguarda la costruzione. Lo stile per l’architetto deve essere generalizzabile, deve corrispondere appunto ad un modo universale, trasmissibile e leggibile, di coordinare la progettazione. In questo l’architettura è diversa dalle arti visive: le altre arti rappresentano o interpretano, in diverse forme, la realtà; l’architettura è la realtà. Da questa considerazione deriva larga parte delle riflessioni che verremo sviluppando nel seguito.