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L’ARCHITETTURA COME ORGANISMO E PROCESSO

Giuseppe Strappa

L’ARCHITETTURA COME ORGANISMO E PROCESSO

In: Paola Gregory (a cura di) , Nuovo Realismo/Postmodernismo. Dibattito aperto fra architettura e filosofia, Officina, Roma 2016
Intervengo in questo dibattito come architetto e docente di progettazione. Mi guardo bene, quindi, dall’entrare nel merito di considerazioni che riguardano una disciplina, come quella filosofica, complessa e molto diversa dalla mia. Vorrei però fare alcune considerazioni che possono esporre il punto di vista, certamente di parte, di un progettista.
Dirò subito che ho sempre un po’ diffidato dal recente entusiasmo, spesso dimostrato dagli architetti, per le discipline filosofiche. Non che la filosofia non abbia a che fare con l’architettura, ci mancherebbe. Una vasta letteratura lo dimostra, dalle riflessioni di Ludwig Wittgenstein a quelle di Martin Heidegger e di Jaques Derrida, al lavoro di alcuni colleghi, come Paola Gregory, che si sono dedicati con grande competenza all’argomento.  Certamente anche la filosofia entra di diritto nel grande crogiolo dei materiali che gli architetti impiegano, più o meno disinvoltamente, per costruire il proprio corpus disciplinare. Il quale sembra oggi, tuttavia, un bizzarro collage di disparati saperi.
Nel mondo in cui viviamo, a ben vedere, nulla è estraneo all’architettura, la quale possiede una propria natura appassionata ed empatica, indagatrice, formatasi attraverso una consuetudine con la sintesi delle cose e delle idee che forse è il carattere specifico del nostro mestiere (mestiere!). Per questa ragione lavera questione epistemologica in architettura oggi, ritengo, non è
tanto la ricerca ansiosa dello scambio tra discipline, da sempre per noi necessario e inevitabile, quanto una perimetrazione, il riconoscimento logico e metodologico del centro scientifico della ricerca e della pratica progettuale.
Per questo credo che il tema affrontato in questo incontro, il rapporto con la realtà della quale l’architettura non può essere un semplice rispecchiamento, si collochi in una zona storicamente certa e investa direttamente il nostro lavoro. Esso riguarda, a mio avviso, le condizioni in cui operiamo quotidianamente e sulle quali occorre fare una seria riflessione.
Qualche giorno fa Salvatore Settis, in occasione dell’apertura dell’anno accademico alla Normale di Pisa (1), poneva il problema delle forme di comunicazione, reali o virtuali, a proposito degli oggetti esposti nei musei.
Citando il libro dello storico Steven Conn intitolato, addirittura, “Do museums still need objects?” (2) Settis annotava, laicamente, la crescente sfiducia nella capacità dell’oggetto di trasmettere conoscenza: le tecnologie informatiche possiedono una verità che non vuole essere equivalente a quella della cosa reale; pretendono di porsi come realtà di grado superiore (l’oggetto diviene monotono, nel senso letterale del termine, di fronte al turbine di informazioni che un semplice computer può fornire). Probabilmente é vero e, come è noto, considerazioni come queste sembrano aver aperto, per estensione, nuovi orizzonti alle ricerche degli architetti.
Ricerche che si concludono, invariabilmente, in esiti analogici, non investendo l’essenza del problema.
Se questa strada sia opportuna o meno, dipende dalla definizione che diamo di architettura. Renato Capozzi ha affermato, nel suo intervento, che dobbiamo avere il coraggio di esprimere la nostra definizione di architettura, altrimenti non ci capiamo. Cercherò di farlo.
So che la mia opinione in proposito non è condivisa da alcuni colleghi, ma credo che la difficoltà di questo dibattito sia contenuta proprio nella spiegazione del ruolo disciplinare dell’architettura la quale, per statuto, non può che essere strettamente legata anche alla materialità (nozione complementare a quella di processualità) del nostro mestiere, al valore dell’atto giudicato in quanto compiuto, indipendentemente da propositi e congiunture che lo determinano.
Possiamo discutere di come questo legame si possa o meno chiamare realismo, e come si collochi tra i tanti “realismi”. Però credo che il processo di evidente astrazione del nostro operare dai dati concreti non costituisca una nuova strada, ma uno dei problemi, ancora urgenti, dell’architettura contemporanea.
L’architettura è certamente anche comunicazione, arte, mercato, ma, per definizione non rappresenta, comunica o rispecchia la realtà: è la realtà. Architetture sono gli spazi e i paesaggi dentro i quali noi viviamo, sono le costruzioni, le strade, le piazze che noi abitiamo. Anche il disegno più astratto ha senso architettonico se si rapporta a un progetto di trasformazione, a un’idea di futuro. Il valore che possiede in sé è un’altra cosa.
Credo che, per quanto fluido possa essere oggi il centro delle discipline, per quanto incerti i loro confini, l’architettura, più di altri saperi, deve ridefinire il proprio statuto e le proprie specificità.
Noi dobbiamo, per poter coltivare nuove forme di sovrapposizione fra saperi diversi, riflettere sulle specificità, sui caratteri distintivi del nostro lavoro. Proprio perché la sua natura sincretica rischia di disperdersi sotto l’aggressione dei tanti specialismi con i quali tende a identificarsi. Il fascino che questi esercitano sugli architetti è un altro dei nostri problemi.
Dentro questa concreta specificità dell’architettura, naturalmente, sta anche il progetto. Il progetto fa parte della realtà dell’architettura.
Vorrei tentare a questo proposito, me lo consentano per una volta i filosofi, di interpretare il ruolo del progetto alla luce di quanto è stato qui detto da Maurizio Ferraris sulla nozione di documentalità (3). Il progetto è, sotto questo punto di vista, un oggetto sociale, ma è tale in quanto prodotto, come osservava Franco Purini, non solo del lavoro dell’architetto. Come pratica di negoziazione e mediazione intervengono nella sua definizione diversi attori: la finanza, la committenza, la normativa, secondo un procedimento che ha le proprie consuetudini, regole, rituali (l’architettura non è solo processo, ma anche procedura che s’iscrive in una sequenza di norme e formalità).  A volte intervengono gli utenti e, alla fine, anche l’architetto. La conclusione è un contratto. Questa è, se vogliamo, la parte immateriale, e non per questo meno concreta, della realtà dell’architettura, che è infine tradotta e criticamente registrata dal progetto nella sua redazione grafica.
Tale graficizzazione è una registrazione che ha diverse forme di circolazione. Quella amministrativo/burocratica è una delle possibili forme di comunicazione e scambio. Si danno poi altre forme di circolazione, come quella tecnico/amministrativa, ad esempio, o quella estetico/artistica che possiede un proprio circuito (quello della critica, delle pubblicazioni, ecc). Sono tutte, certo, forme di registrazione. Ma per l’architetto l’artefatto è un’altra cosa: è il modo attraverso il quale l’immaterialità del contratto diventa concretamente materia alla quale dare forma.
E siamo arrivati al centro del problema.
Noi ci occupiamo di forma. Sotto due aspetti apparentemente divergenti.
Quello della percezione, della αἴσθησις, è oggi il più coltivato dagli architetti nelle sue mode legate, di volta in volta all’arte o alla scienza (si veda la recente deriva verso le neuroscienze). Quello, ben più complesso e meno accattivante, della morfologia, del λόγος, dello studio della forma come aspetto visibile di una struttura e delle scelte che ne derivano: la forma come formazione che presuppone un processo formativo conoscibile e razionalmente, indagabile (4).
A dimostrazione di come questa suddivisione sia riduttiva ed esprima, in realtà, i poli di una diade di termini opposti e complementari, una delle definizioni di forma più pertinente agli studi di morfologia è stata proposta proprio uno studioso d’estetica, Luigi Pareyson.
La forma è un organismo, ci insegna Pareyson, e in quanto tale è formata e formante, con proprie leggi interne che legano le parti in unità. Per noi questa definizione è di grande interesse e tutt’altro che neutrale.
Significa leggere il territorio come organismo territoriale, come architettura in cui ogni elemento si annoda all’altro in un rapporto di necessità, legato all’orografia e all’uso del suolo. Anche se le sue condizioni sono apparentemente frammentate e disperse, significa riconoscere nel territorio proprie capacità formative, l’attitudine a ricostruire una nuova, pur instabile, organicità.
Considerando il paesaggio non solo nei suoi aspetti legati alla percezione, ma come aspetto visibile di strutture territoriali in trasformazione.
E lo stesso vale, a scale diverse, per l’organismo urbano, per i tessuti, per gli edifici: la forma della città come processo in atto e in continuo divenire.
Gli stessi edifici possono essere riguardati come organismi edilizi, dove la forma è l’esito di un permanente processo di trasformazione dalla materia al materiale, agli elementi, alle strutture, ai sistemi collaboranti tra loro a formare, dare forma alla realtà costruita.
L’aspetto dell’architettura che percepiamo può essere, dunque, considerato uno stato di provvisorio equilibrio all’interno di uno svolgimento continuo, di un inarrestabile processo di trasformazioni. E l’opera architettonica è il processo stesso della sua formazione, che non s’interrompe ma trova una sua temporanea unità e compiutezza, il momento di equilibrio in cui «la forma si placa e insieme si raccoglie» (5).
Questa nozione di forma-formazione ha conseguenze dirette sul progetto e sulla didattica di progettazione. Cercherò di esporre il problema proprio dal punto di vista didattico, aspetto particolare che spiega bene, a mio avviso, le condizioni generali in cui operiamo.
I nostri libri di architettura moderna e contemporanea, che dovrebbero esporre agli studenti come si siano formati gli attuali modi di produzione e quali siano i loro problemi, costituiscono, in realtà, interpretazioni di interpretazioni staccate dai dati concreti. Al centro di questi libri raramente incontriamo la fisicità delle architetture, costruzioni inserite nel grande flusso delle trasformazioni in atto, ma figure esemplari di architetti, il loro modo personale ed eroico di produrre idee e intuizioni, il concept che altri tradurranno in costruzione. È ancora la storia consolatrice, la “storia monumentale” di cui parlava Nietzsche, del passato esemplare, anche se recente, e dei modelli da imitare. Sarebbe utile, invece, la conoscenza della realtà costruita nel suo divenire concreto che serve all’operare, riflettendo sulla quale è possibile, come cercherò di spiegare, la costruzione della teoria. In questo la nostra Facoltà ha una grande tradizione ormai, nei fatti, abbandonata.
La “critica operativa” di Bruno Zevi, la “storia operante” di Saverio Muratori sono aspetti diversi del comune problema di leggere la storia, che è anche storia dello spirito ma rivolta al mondo materiale delle azioni umane: accumuli di esperienze, esplorazioni, esperimenti sul modo di edificare e abitare lo spazio.
In realtà da qualche tempo anche l’architettura, come gli oggetti dei musei discussi da Settis, è sede di un processo di progressiva separazione: noi ci stacchiamo gradualmente dalle cose che dovrebbero essere la materia stessa dell’interpretazione.
Questo fenomeno non accade da oggi. È scomparsa l’esegesi del testo.
Mai che compaia, con poche eccezioni, lo studio del costruito reale, dell’edificio, l’analisi del formarsi del suo significato che contiene, spesso, anche la spiegazione della sua poesia. Operazione, in teoria, delegata ad altre discipline “complementari” al progetto. Eppure, anche se l’architettura è per sua natura sincretica, la sua scienza non è la somma di altre scienze. Per questo l’architetto dovrebbe ricavare dall’esegesi del testo (che per noi è il mondo costruito nel suo divenire, le città, il territorio visti nel loro contesto storico e sociale) un proprio sistema di conoscenza. Servirebbe a tornare all’origine delle cose, ai problemi concreti e veri della nostra attività, perché la teoria per gli architetti – forse i nostri amici filosofi inorridiranno – non è una serie di principi generali, razionali e rigidamente coerenti tra loro dai quali derivare, per via logica, indicazioni per operare. È una cosa molto meno cristallina, è stratificazione di esperienze, generalizzazione di quello che si fa, che serve in un certo momento dell’attività positiva del progettare: è utile a riflettere sul proprio agire, a dare coerenza e anche a spiegare quello che si sta producendo. Per un architetto la teoria è ancora, in definitiva, il tentativo di sistematizzazione dell’esperienza che tenta faticosamente di riportare l’aspetto frammentato e particolare di ogni gesto alla totalità della conoscenza, per quanto questa possa essere, nella condizione contemporanea, mutevole e contraddittoria.
Non a caso nel passato ogni teoria conteneva sempre la riflessione pratica, ogni trattato una parte di manualistica.
Certo, lo sforzo di trasformare in cosmos ordinato il caos indomabile delle cose, che non si lasciano ingabbiare in alcuna tassonomia o legge, è destinato al fallimento (lo é sempre stato, non solo nella condizione contemporanea).
Ma il desiderio di quell’ordine, che comunque finisce per incidere sulla realtà e dal quale ci si aspetta una qualche forma di felicità, è l’essenza struggente e irrinunciabile del progetto, senza la quale ogni sforzo è destinato a disperdersi, ogni scrittura a non lasciare tracce.
I molti modi di vedere le cose che la teoria raccoglie ed esprime, quindi, con tutte le incoerenze che può comportare, sono, in qualche modo, tutti veri, sono una constatazione. E l’attuale rinuncia alla generalità capace di produrre generi e generare il particolare, in nome dell’impossibilità, nel mondo contemporaneo, di ogni sistema unificante, è, ritengo, una dolorosa perdita per la nostra disciplina.
A sostegno di quest’affermazione porterò, in termini concreti, un esempio che riguarda i materiali e le tecniche di architettura.
Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui è comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’architettura come mera traduzione di un processo ideativo: esecuzione, realizzazione. La conseguenza è che gli studenti, in mancanza di una visione generale del problema, “subiscono” oggi la tecnica come un pesante compromesso, una sofferta dicotomia tra la soggettività dell’ideazione e l’oggettività della realtà materiale.
Il riconoscimento di un’ineliminabile materialità dell’architettura dovrebbe riportarci, invece, alla realtà concreta del nostro mestiere dalla quale occorre, oggi, ripartire. Perché credo che noi siamo di fronte a una potenziale rigenerazione dell’architettura di cui non sempre abbiamo piena coscienza. Oggi l’industria produce una sorta di seconda natura: non materiali, ma materia in parte sconosciuta nella quale la nostra coscienza dovrebbe riconoscere l’attitudine a far parte del ciclo dell’architettura. Siamo di fronte alle condizioni dell’uomo primitivo al cospetto dell’ambiente ignoto che lo circonda: può riconoscere nell’argilla l’attitudine a divenire mattone, alla pietra la disposizione a farsi parete, origine di una cultura plastico-muraria, distinguere nell’albero possibili piedritti e travi che propiziano il formarsi di un mondo elastico-ligneo. È la coscienza dell’uomo che dovrebbe decidere L’architettura come organismo e processo oggi, ancora una volta, che quella materia diventerà “materia segnata”, materiale finalizzato dall’ uso, designato da un progetto. Che non è semplicemente di trasformazione fisica! I materiali moderni lasceranno tracce se sapremo inserirli criticamente nel grande, vitale, continuo processo delle trasformazioni artificiali della natura, riconoscendone il profondo valore culturale.
Anche nella storia dell’architettura moderna, è il caso del calcestruzzo, i grandi mutamenti sono avvenuti attraverso un processo culturale, non semplicemente attraverso scoperte e invenzioni.
Non è un caso che la ricerca di François Hennebique, padre riconosciuto del cemento armato, sia iniziata dal lavoro di restauratore di cattedrali medievali, nel cuore stesso di un contesto pertinente al mondo gotico e mall’area culturale elastico lignea. Hennebique impiegava i primi elementi in calcestruzzo prefabbricati per sostituire travi di legno all’interno di sistemi discreti e seriali. Attraverso il rapporto diretto con i materiali, ha quindi progressivamente preso coscienza di come la nuova materia, una pietra artificiale, potesse dare origine, nell’unione col ferro, a un materiale differente e nuovo: di come tra i diversi elementi si potesse stabilire un rapporto di collaborazione e solidarietà. E di come la nuova solidarietà tra le parti desse origine alla trasmissione di nuove, più complesse sollecitazioni chiedendo che ogni elemento fosse maggiormente congruente e proporzionato al proprio ruolo, osservazione che ha permesso la soluzione dei nuovi sistemi iperstatici.
Congruenza e proporzione: gli stessi termini e criteri che l’architetto artista dell’epoca, meno interessato ai problemi strutturali, impiegava nella composizione di facciate e piante, stavano per essere usati anche dagli ingegneri per il dimensionamento delle membrature, a dimostrazione della sostanziale unità dell’operazione progettuale. Le stesse definizioni potevano essere impiegate per leggere il graduale predisporsi alla collaborazione degli elementi dell’architettura e la loro progressione di organicità.
Io credo che la cultura architettonica abbia perso, allora, un’occasione di riconciliazione tra le sue due anime, tra la materialità della costruzione e l’astrazione del disegno artistico.
Alla fine dell’Ottocento, quando si sviluppavano gli studi sull’elasticità dei materiali sulla scia dell’interpretazione “architettonica” del problema proposta da Claude-Louis Navier, architetti e ingegneri non hanno saputo (o potuto) comprendere come il loro lavoro non potesse essere solo complementare, ma sostanzialmente identico.
Il termine fisico di “congruenza”, che gli ingegneri cominciavano a impiegare nella soluzione di problemi scientifici, legava insieme analisi del comportamento dei materiali e forma architettonica, sollecitazioni e deformazioni al disegno dell’opera. E altri aspetti della conoscenza scientifica sembravano propiziare una nuova unità di saperi che, sotto la spinta della specializzazione, percorrevano in realtà strade parallele e rigorosamente autonome.
Come, ad esempio, la nozione di vincolo, che contribuiva a spiegare in termini razionali uno degli aspetti dell’idea di nodo che gli architetti avevano sempre percepito e definito in termini di linguaggio e codici.
Molte delle considerazioni sulla conformità e misura tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano, peraltro, un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell’“arte della costruzione”. L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata su una scissione funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici, come Schopenhauer rilevava con profetica chiarezza (6).
Se volessimo davvero rinnovare le scuole di architettura, il loro studio dovrebbe indicare il ritorno alla realtà, dimostrare come la materia sia parte costituente dell’invenzione stessa. Il progetto come espressione artistica: non solo manifestazione romantica dell’io individuale, ma arte della sintesi, della capacità operante, insieme, di conoscere e interpretare.
Eppure, oggi, perfino negli studi specialistici sulla costruzione i termini fisici del problema direttamente legati alla forma sono sempre più mediati e nascosti dall’aspetto matematico.
Vorrei concludere ricordando una conferenza al Politecnico di Milano di Edoardo Benvenuto, teologo e studioso di strutture, autore di singolari opere di filosofia della scienza7 nelle quali affermava che «[…] l’integrazione tra architettura e razionalità scientifica supera il momento strumentale e mira al significato stesso dell’opera architettonica».
Sosteneva, Benvenuto, che l’architetto deve ritornare, richiamandosi a una sorta di nuova fisica aristotelica, al contatto diretto con le cose più elementari; che c’è un mondo vasto e nuovo da scoprire negli elementi semplici dell’architettura, nella trave e nel pilastro, nel loro senso costruttivo e simbolico, anche se sulla trave e sul pilastro da parte di fisici e ingegneri è stato ormai scritto tutto.

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Note
1  S. Settis, Reale o virtuale?, https://www.youtube.com/watch? v=LpBXuyJXYWY.
2  S. Conn, Do Museums Still Need Objects? The Arts and Intellectual Life in Modern America, University of Pennsylvania 2010.
3  Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma–Bari 2009.
4  Cfr. G. Strappa, L’architettura come processo. Il mondo plastico murario in divenire,
Milano 2014.
5  L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Firenze 1974.

6  A. Schopenhauer, Ueber die Universitäts-Philosophie, Berlin 1851 (trad. it. La filosofia delle università, Milano 1992).
7  E. Benvenuto, Materialismo e pensiero scientifico, Milano 1974; Id., La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Firenze 1981.

LECTURE 6 – SPECIAL NODAL BUILDING AND KNOTTING PROCESS

GIUSEPPE STRAPPA

SPECIAL NODAL BUILDING AND KNOTTING PROCESS

 

 

 

 

 

 

 

LECT. 7 B SPECIAL nodal and knotting – pres. person.

The nodal special building is the part of the urban fabric characterized by a central structure  organically hierarchized in relation to the others

This central structures are, from the point of view:

STATIC              brought, compared to other load bearing (collaborating)

DISTRIBUTIVE   served, compared to other serving

SPATIAL               nodal, compared to other serial

Contemporary architectural publishing

G. STRAPPA

Contemporary architectural publishing

U + D  Editorial N.1

In order to understand the state of contemporary architectural publishing, I believe we should re-read the articles that launched new phases in the great journals of the past. Take, for example, the courageous editorial published in 1941 in «Costruzioni-Casabella», issue n. 157, where Giuseppe Pagano attacked mannerist traditionalism and monumental obsessions, initiating a discussion on the formalism of Fascist architecture which was to influence the architectural debate right up to the present day. Or take that of Ernesto Nathan Rogers, published in 1954 in «Casabella-Continuità», issue n. 199, where the famous quote by Marcus Aurelius “He who sees present things sees all that has been since the dawn of time and what will come about for all eternity because they are all of the same nature and species”, posed dynamic and highly topical questions concerning the relationship with history, the design merits of existing buildings and conservation as a creative act. Or take George Howe’s academic discourse, published as an editorial in the first issue of «Perspecta» in 1952, on training architects to be creators of a synthesis that draws together different disciplines, on architecture as the art of feeling, doing and thinking which influenced the future characteristics of Yale School of Architecture and had enormous influence on the Italian field as well.

It was a time when the choice of what topic and text should be published was made by editors who were often architects, just as the authors of the articles were often active draughtsmen who, as well as being interested in maintaining the high quality of the journal and taking pride in it, all had a common concept of architecture that was generally shared, though expressed in a multitude of different results. What is worth noting is that in re-reading these texts and comparing them with the rest of the pages in those magazines, we cannot detect any similarity, even fleeting, with the state of contemporary architectural publishing; compared to the selfless commitment that those editorials expressed, today’s situation stands out in all its distressing, novel triviality. Of course, the entertainment architecture churned out by top professional practices and designers riding on the crest of a wave cannot help but spill over onto the glossy pages of the most popular magazines, thronging articles and reviews. It is the market itself that dictates this, the strong link between a product that suits sales conditions and suitable advertising, in line with the needs of distribution. In contrast, what leaves us aghast is this form of publishing’s total, meek adherence to its role as a large or small hub serving a sector that specialises in communication, the Internet’s addiction to neutrality, with the result that it goes from being a potential instrument of freedom to one of approval and, at the same time, escapism.

We no longer even feel the need for a critique of the articles published nor for suggestions when we read these journals; instead, the reader comes across a series of perfect photographs taken by famous photographers, accompanied by a text that is purely meant to be decorative or, if you like, graphic: filling empty spaces, mimicking alignments. For some time now, articles that could cause irritation, stir up debate and controversy capable of generating real knowledge have not been published. What’s more, no one misses them either. After all, it is this very democracy of consumption, the choices induced by those who buy and leaf through these magazines, that is the naive pretext used to justify such a situation. Furthermore, it is a situation that corresponds to an architectural market where an immediately satisfying novelty, no matter how unrealistic or useless, is more important than corroborating a truth manifested by others or contributing to forming a shared heritage. It is a commercial circuit that generates legends and heroes, inexplicable masterpieces and truths that do not require any proof and are based only on the might of media approval. In such circumstances, it is clear that we are offered no real choice or alternative, the basic condition for all freedoms: every single new issue of such magazines, with the odd exception, reveals a world of opportunism, repudiation and manneristic revolutions that only help sustain a spectacle that is actually increasingly unpalatable, as proven by the unprecedented crisis the industry is currently experiencing. And yet it seems that some of these magazines have now been entrusted with the quasi-institutional role of establishing what is culture in architecture and what isn’t, who the authors with new messages worth heeding are and who are not.

It is a dumbing down in favour of the most common clichés and the trendiest research that, even in universities, recent evaluation organisations seem intent on encouraging, as recently occurred in an obtusely authoritarian way. Given such a state of affairs, «U+D urbanform and design» – loosely created with the patronage of the International Seminar on Urban Form’s Italian branch and the Lpa Laboratory, with support from the DiAP Department of Architecture and Design of “Sapienza” University, Rome – aims to put itself forward as an alternative space designed for the entire scientific community, open to discussing the research that is being carried out on Urban Morphology, understood in its widest sense as an instrument for interpreting and designing architecture at all its different levels: buildings, cities and regions. The field of Urban Morphology is the innovative continuation of a strong heritage of study that developed in many European research centres, particularly after the Second World War. However, in the sense of the term as we understand it, it is not a neutral discipline. We believe that it contains in its very DNA a realistic and clear proposal for interpreting and designing architecture that defies the current drift of architecture understood as the art of producing the original and ending up with the superfluous.

The basic theory implicit in this project, as well as the reason for putting forward a new magazine, is indeed the firm belief that what we as architects need to produce in a tangible way today is the continuation of an ongoing process, a process that we need to understand and study, that we need to be aware of in order to legitimately tackle changed design conditions and unprecedented forms of private and collective life that generate previously unknown spaces and brand new symbolic references. This clearly involves a decision that also defies what is, to all intents and purposes, a kind of ‘fragment art’ that has evolved over the past decade in Italian culture and that seems to interpret the urban landscape as a combination of separate phenomena and makes no attempt to grasp the shared and universal elements that render each particular phenomenon meaningful. This is why, rather than focusing on Urban Morphology in the strict sense of the term, this magazine will concentrate on issues and knowledge concerning the constructed world as it develops, the needs of a sustainable environment, the product of an intelligent and balanced use of resources, the prospect of resilient, flexible cities that can transform change into a resource. These are all issues that, if we are capable of looking beyond the cultural fashions that have stifled them, still possess an inherent aspiration to consider architecture as a tangible place where life is lived and pulsates, rather than simply considering its aesthetic merits. There are also notions such as “organismo urbano”, “tessuto” and “processo formativo” that permeate forms and cultures of contemporary life, present in an infinite number of different versions due to vastly different geographic, historical and political conditions, studied and employed with optimism, with a look to the future. If we briefly review the great processes of transformation underway, the current one appears to be, in actual fact, the crisis period that comes with every change at the end of a historical era, the extreme consequence of a sequence of events that regularly crosses the entire history of culture, though in ever-changing forms and terms.

This magazine will support such a stance with the conviction that is characteristic of its editorial team, as well as the openness and willingness to discuss that is the spice of every scientific initiative. Articles will be chosen on the basis of a peer review system and though there will be a printed version of the journal, it will mostly be available in online form. Indeed, the Internet is a new, free territory that has only been partly explored: it features peaks that anyone can climb, communication hubs that can be accessed from several different quarters, centres attracting common interests. It is a territory that is open to the future and that is pensioning off an architectural publishing industry that has become stagnant and has jealously barricaded itself behind monopolies and financial rewards derived from advantageous positions. In line with its editorial strategy, the expectation is that the magazine will change and improve over time in response to readers’ suggestions and criticism, elements that the editorial team, the management and the scientific committee declare themselves to be entirely open to as of now, in the hope that their efforts could prove to be a small contribution towards paving the way for better times.