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COMUNE DI CASTELLUCCIO SUPERIORE – LETTURA E PROGETTO DEL CENTRO STORICO

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video del convegno: http://www.lecodelsud.info

COME INTERVENIRE NEI CENTRI STORICI “MINORI” ?
Giuseppe Strappa

Il problema della conservazione dei preziosi centri storici sparsi nel territorio italiano, come Castelluccio Superiore,  può essere considerato sotto diversi punti di vista. L’idea più diffusa è che essi costituiscano un bene da tutelare allo stesso modo con cui si conserva qualsiasi parte del nostro patrimonio culturale, sia esso costituito da opere di pittura, scultura o da monumenti. Il risultato è che le regole che governano l’amministrazione di un piccolo centro storico sono essenzialmente vincolistiche ed il loro scopo è la tutela del costruito, da conservare, per quanto possibile, allo stato originale.
Il metodo di intervento che proponiamo è basato, invece, sull’idea che il bene da conservare sia soprattutto l’identità del costruito storico inteso come organismo vitale in continua, inevitabile trasformazione. Il fatto che il problema dell’ identità di un insediamento sia oggi ritenuto, invece, di secondaria importanza è testimoniato dal modo in cui la politica affronta il problema, eliminando il governo locale dei piccoli centri come una spesa inutile.
La conseguenza di porre al centro degli interventi nei centri storici l’identità è che la conservazione non deve è più l’opera di  preservare il bene passivamente come in un museo, ma diviene operazione attiva, che preveda, dove strettamente necessario,  anche trasformazioni congruenti con l’eredità storica.
Il metodo che si propone è basato su due principi:
1.    Che il centro storico venga considerato un organismo vivente composto di parti (percorsi, abitazioni, servizi, monumenti) che collaborano tra loro in modo unitario;
2.    Che il processo di trasformazione di questo organismo, con le sue leggi e regole, debba essere compreso in profondità, in modo tale che quello che si costruisce o modifica oggi sia una continuazione e un aggiornamento, con mezzi contemporanei, di quanto ereditato.
Gli strumenti della trasformazione sono quindi
–    la lettura di questo processo, condotta non con lo spirito documentario dello storico, ma con quello operante di chi deve continuare un processo in atto;
–    il progetto, inteso come “traduzione” della lettura in interventi edilizi.
Riteniamo che questo metodo fornisca due soluzioni ad alcune delle attuali contraddizioni degli interventi nei centri storici.
La prima è quella di eliminare la trasformazione insensata e strisciante del patrimonio edilizio attraverso quegli interventi illegali che vengono eseguiti in tutti i centri storici italiani, proponendo trasformazioni che continuano processi storicamente in atto.
La seconda è quella di costituire un’alternativa alla recente idea di introdurre l’architettura internazionale più spettacolare nei centri storici come strumento salvifico di modernizzazione, con effetti traumatici sull’identità del costruito.

lettura e progetto di via della lungara

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Direttore
Giuseppe Strappa (presidente del C.d.L. SAC)

Tutors
Alessandro Camiz
Paolo Carlotti
Giancarlo Galassi

Visiting critique

Tom Rankin (coordinatore California Polytechnic State Institute, Rome Program in Architecture)
Marco Maretto (Università degli Studi di Parma)

Sopralluogo
sabato 18 giugno 2011 h 11.00 – via della Lungara, davanti a S. Giacomo alla Lungara

Lavoro in aula
lunedì 20 – mercoledi 22 giugno 2011
h 9.00-19.30 Aula 7
Facoltà di Architettura, sede di Valle Giulia
via A. Gramsci 53, Roma

Coordinamento
Alessandro Camiz

Segreteria
Endriol Doko, Federico Zini, Marta Zappalà

Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e della Città – SAC

Laboratorio di Lettura e Progetto dell’Architettura – LPA

Laboratorio di progettazione 2A, AA 2010/2011, Prof. G. Strappa

LA COLATA

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LA COLATA
Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro

Presentazione del volume di Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiuloa cura di Ferruccio Sanza, Chiarelettere editore.

lunedì 23 maggio, 10.30
Facoltà di Architettura
sede di Valle Giulia
via A. Gramsci 53, Roma
Aula Fiorentino

intervengono
Paolo Berdini – urbanista
Paolo Conti – giornalista
Andrea Garibaldi – giornalista e coautore

presenta
Piero Ostilio Rossi – direttore del Dipartimento DiAP

introducono
Giuseppe Strappa – presidente del C.d.L. SAC
Stefano Catucci – docente di estetica

partecipano
Alfonso Giancotti, Luca Reale, Alessandro D’Onofrio
direttori dei laboratori di progettazione 1

organizzazione
Alessandro Camiz

 

RISCOPRIRE DEL DEBBIO

 

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Foresteria sud al Foro Mussolini, 1927-33

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Ampliamento della Facoltà di Architettura, 1963

  • RISCOPRIRE DEL DEBBIO

di Giuseppe Strappa

in “Industria delle Costruzioni” n° 394, 2007

Finalmente una grande mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, promossa in collaborazione con la DARC, ha reso giustizia all’opera di Enrico Del Debbio, figura centrale quanto problematica della fase di passaggio al moderno nella cultura architettonica romana.
La mostra propone, con i materiali straordinari dell’archivio Del Debbio, di guardare da vicino, attraverso i dati reali, un periodo della storia dell’architettura in cui l’ordine accademico sembra disgregarsi sotto l’aggressione di nuove istanze e nel quale la storiografia ha cominciato a riconoscere i rivoli dei molteplici esiti che questa rottura ha prodotto, tra accettazioni, resistenze, adeguamenti.
Se letta attraverso le opere tangibili dei protagonisti, la cultura romana di quel periodo si mostra aperta al cambiamento e, insieme, legata ai suoi processi formativi, alla consuetudine col paesaggio costruito ereditato.
In realtà proprio la secolare stratificazione di caratteri plastici e murari depositati nel corso della formazione dell’architettura romana, permettono ancora di riconoscerne gli aspetti specifici nella complessa fase di transizione del ‘900, quando alla permanenza dell’eredità organica si contrappongono le laceranti istanze di un mondo in rapida trasformazione ed il contatto col moderno nordeuropeo.
Condizioni delle quali i protagonisti sono perfettamente coscienti, come testimoniano le riflessioni di Giovannoni sulle nuove incertezze del progetto di architettura: sull’interruzione dell’evoluzione “logica” nella leggibilità degli organismi architettonici, in una fase di perdita di unità della costruzione, quando sembra affievolita quella capacità di sintesi che permetteva all’architettura del passato di essere universalmente compresa, sostituita da tentativi personali, “talvolta immeschiniti in mode mutevoli ed arbitrari individualismi”. Personalismi, dato di fatto rilevante, meno accentuati tra gli architetti romani rispetto a quanto avveniva nell’aree culturali mitteleuropee, come dimostra l’elevato livello di persistenza di caratteri condivisi. Questa continuità ha, a volte, indubbiamente presentato il volto di uno storicismo compiaciuto e pittoresco, riscontrabile anche nelle opere che Del Debbio realizza negli anni ’20:si veda il piccolo quartiere per artisti della Cooperativa Ars o le case Berring Nicoli, Villani, Selva, Tonnini. Ma che è anche all’origine di una ricerca inquieta e complessa, con esiti meno spettacolari dei manifesti del moderno nordeuropeo e che, proprio per questo, avrebbero bisogno di un’indagine più attenta.
Del Debbio è, nel quadro del contesto romano, una delle figure che interpreta in maniera più contraddittoria, e quindi fertile, l’eredità dell’impiego di strutture continue, organiche, plastiche, portanti e contemporaneamente chiudenti, che storicamente avevano avuto esito nell’unità tra struttura statico-costruttiva, distribuzione, spazi e leggibilità. Si veda l’esempio dell’Accademia di Educazione Fisica, apparentemente riconducibile alla tradizione dell’edilizia specialistica romana, dalla quale tuttavia, per molti versi, non potrebbe essere più lontana: la canonica ripartizione verticale (basamento, elevazione, unificazione, conclusione) viene sovvertita dalla inedita gerarchizzazione dei piani mentre è del tutto assente il legame con la nozione di tessuto espressa dai percorsi e dall’aggregazione dei vani. E mentre un complesso, innovativo  meccanismo aeroilluminante della grande aula magna sostituisce il consueto claristorio, l’innovazione della struttura a telaio in calcestruzzo armato, al contrario, viene assorbita, addomesticata nel gioco delle specchiature.
Le splendide prospettive a tempera del progetto dell’Accademia, nella loro apparente serenità, esibiscono, inoltre, il conflitto tra simmetria e moderna ratio compositiva, come pure ostentano l’ opposizione tra elemento e struttura delle quinte di facciata dove il travagliato impiego dei nodi tettonici sembra alludere ad una lingua consolidata che in realtà nega.
Siamo alla fine degli anni ’20, gli anni del sanatorio di Paimio, del padiglione di Mies a Barcellona, della fabbrica Van Nelle a Rotterdam. Del Debbio, architetto informatissimo, conosce bene il panorama del moderno internazionale.  Ha piena coscienza, dunque, di come la differenza tra l’architettura romana e quella nordeuropea non sia dovuta solo a manifesti, slogan, teorie,  intuizioni, ma a condizioni culturali di ben più lungo respiro. E come le specificità del moderno dei “pionieri” abbiano radici in un processo formativo, tipico delle aree del gotico, nel quale continua, anche con l’impiego dei nuovi materiali, l’uso di quelle strutture discrete, seriali, elastiche, portanti e non chiudenti che sono uno dei presupposti delle ricerche del movimento moderno. Caratteri dei quali Le Corbusier ha dato un’accezione estrema e spettacolare nei principi della pianta e della facciata libere.
Le ricerche che Del Debbio svolge del decennio successivo (si vedano i disegni per la case del balilla di Avellino, di Pagani, di Modena) possono non solo essere lette all’interno di quel processo di semplificazione dei volumi che sembra uno dei caratteri comuni del moderno europeo, ma come chiara indicazione della difficile strada di una modernità originale ed organica capace di fondere in unità muraria ed organica (contro la frammentazione del moderno internazionale) costruzione, pareti dell’involucro e spazi degli edifici.
In assenza di un quadro critico basato sulla concretezza delle opere e delle condizioni conflittuali in cui si è svolta la sua vicenda architettonica, la fortuna critica di Del Debbio ha subito fasi alterne, condizionata dal momento politico, dal gusto, perfino dalle mode. Nell’immediato dopoguerra, per ragioni peraltro evidenti, la critica ha costruito una cortina di ostili pregiudizi (con poche eccezioni) nei confronti dell’architettura tra le due guerre, identificata come uno dei simboli più evidenti del drammatico periodo storico appena concluso. E in questo panorama la vicenda di Del Debbio è stata considerata una sorta di espressione distillata della retorica di regime, secondo valutazioni che ben poco avevano a che fare con la realtà delle opere. All’estero, invece, ci si accorgeva immediatamente delle qualità di queste architetture. Nikolaus Pevsner, tra i primi, parlerà del Foro Mussolini come del prodotto di una tradizione dell’antichità ancora vitale ritenendo, già nel 1945, che “molti di questi edifici verranno un tempo giudicati con maggiore obiettività”.
Nell’intero corso degli anni ’50 si parla pochissimo dell’opera di Del Debbio: quasi solo nelle monografie sulle vicende dell’architettura moderna romana di Marcello Piacentini (1952) e di Francesco Sapori (1953). E’ l’inizio di una lunga fase di rimozione nel corso della quale pochi cenni sono dedicati dalla letteratura specializzata all’opera dell’architetto di Carrara, mentre i quotidiani, in ripetute occasioni, ne divulgano con colpevole superficialità un supposto ruolo di architetto di regime e retroguardia culturale. Rare le eccezioni come le poche righe di apprezzamento scritte da Ludovico Quaroni e da Accasto, Fraticelli e  Nicolini nel loro libro sull’architettura moderna romana del ’71.
Una piccola monografia pubblicata nel ’76 da Enrico Valeriani propone alcune rapide coordinate interpretative definendo Del Debbio non architetto di regime, ma frutto diretto “di quel tipo di cultura che dalle esperienze del romanticismo post-risorgimentale, attraverso le innocue sovversioni futuriste, le suggestioni floreali e i lieviti razionalisti, finì oper consumarsi nella Seconda Guerra mondiale”. Della continuazione di questa ostinata damnatio memoriae negli anni successivi posso riportare molte esperienze dirette, come la diffidente accoglienza, nel 1989, del primo regesto delle opere di Del Debbio in Tradizione e Innovazione nell’architettura di Roma capitale  da me curato (pericoloso perché “può capitare in mano agli studenti” si disse) e la valanga di proteste che accolse, l’anno successivo, un articolo su La Repubblica in cui mettevo in evidenza le qualità del Foro Italico compromesse dai lavori per i Mondiali di calcio.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno di generale, progressiva “rivalutazione” dell’architettura tra le due guerre. Sull’onda della riscoperta dell’architettura “accademica” (vera o presunta) tutte, indistintamente, le opere di quel periodo sembrano così divenire, quasi per una bizzarra nemesi, improvvisamente straordinarie.
Il catalogo della mostra romana sulla figura di Del Debbio, curato da Maria Luisa Neri costituisce, purtroppo, un’espressione tarda di questa moda storiografica dove tutto è creativo, elegante, solare. Un’agiografia che non fornisce alcun reale contributo critico.
Ne è un esempio il capitolo  “Un poema pieno di spazio e di sogno: il Foro Mussolini”  dedicato ad uno dei temi nodali nell’ interpretazione dell’opera di Del Debbio e particolarmente attuale considerati gli urgenti problemi di tutela dell’ opera, come rileva in una nota contenuta nel catalogo stesso, Margherita Guccione. Nel testo della Neri ricorrono infinite osservazioni sul “rigore compositivo” dell’opera “esito della più autentica tradizione costruttiva italiana” dove “tutto è perfettamente calibrato” con una “perfetta simbiosi tra architettura e natura”. Ma, sul piano critico, non una sola aggiunta a quel poco che è stato già detto.
Una mostra straordinaria per la quantità e qualità del materiale esposto, dunque, ma anche un’occasione mancata per contribuire a fare luce su una delle figure più problematiche del passaggio al moderno dell’architettura romana.