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CASERME, UN PROGETTO O SI SVENDONO I GIOIELLI

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“CORRIERE DELLA SERA” del 23 marzo 2012

di Giuseppe Strappa
Segregate al centro della vita brulicante della città, minacciate di prossima rovina, le grandi caserme mostrano ormai tutta la loro inattualità.
Nelle aree dismesse di molte metropoli europee (ad Amsterdam, Londra, Barcellona) strutture di questo tipo, disgregandosi, si sono ricomposte in nuovi nodi urbani, hanno creato inattese identità. Da noi gli interventi effettuati testimoniano, piuttosto, un consolidato intreccio di affari e insipienza. Come nel famoso pasticcio della Caserma Miale, edificio tra i più cospicui di Foggia: svenduto alla Paribas e poi ripreso in affitto, verrà forse riacquistato come sede universitaria con una perdita secca di 12 milioni di euro.
Anche a Roma si pone, in questi giorni, il problema. Enorme. La delibera del 2010 sembra elencare 15 “caserme” da alienare. Ma bisogna guardare oltre le parole: la Caserma Ulivelli è, di fatto, il Forte Trionfale, 11 ettari tra le aree naturalistiche dell’Insugherata e del Pineto; La Caserma Ruffo è il Forte Tiburtino, 14 ettari strategici nella periferia est; la Caserma Gandin è il Forte di Pietralata, 25 ettari nell’area protetta della Valle dell’Aniene. E poi Forte Boccea, ex conventi in pieno centro storico insieme a complessi giganteschi e quasi dimenticati, sepolti nel cuore stesso di Roma, come la Caserma Medici presso via Cavour o lo Stabilimento Militare, 220.000 mc in via Guido Reni. Un intero pezzo di futuro da affidare a imprenditori privati, con destinazioni in deroga agli strumenti urbanistici, come consente la legge 133 del 2008, e metà della superficie utile a destinazione “flessibile” (!) oltre a possibili aumenti di cubatura del 30%.
Quello che sembra soprattutto un problema di cassa e liquidità, da risolvere attraverso tavoli tecnici tra Governo e Comune, è in realtà uno dei nodi cruciali della città contemporanea.
Occorrerebbe un disegno unitario capace di raccogliere in unità i frammenti sparsi delle strutture dimesse (non solo caserme, ma anche fabbriche, carceri, parchi ferroviari). O almeno, nelle condizioni attuali, dare loro il senso di una nuova architettura, legarli ai tessuti vitali dei quartieri in trasformazione attraverso un progetto che l’Amministrazione dovrebbe individuare e proporre insieme alla vendita. Un progetto, economicamente vantaggioso, certo, ma anche parte solidale del più generale organismo urbano.  Perché l’Amministrazione romana, pure stretta tra continue emergenze, non può comportarsi come una vecchia signora che, rovinata dai debiti, è costretta a svendere i beni di famiglia.

incontro pubblico
AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’
LA VENDITA AI PRIVATI DELLE CASERME ROMANE

 

Facoltà di Architettura
Sede di Piazza Borghese,9
Venerdì 30 marzo, ore 16

L’ ARTE DI LEGGERE I TRACCIATI

di Giuseppe Strappa

Prefazione a: Lina Malfona, Il tracciato urbano, Melfi 2012

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In sanscrito mandala, manda-la, significa “racchiudere l’essenza”.
Il mandala è, nella sua sostanza, regola d’orientamento che, tradotta in geometrie, individua lo spazio sacro al centro del mondo. Il suo fondamento sono le connessioni tra le figure che formano, tutte insieme, un disegno coerente. Questo disegno non è, tuttavia, il semplice risultato dello spazio vuoto tra le forme: è l’essenza stessa della composizione, la struttura latente che ne precede la formazione. Senza la coerenza indiscutibile del tracciato, il mandala non sarebbe che un insieme sparso di figure, disseminazione di segni privi di  rito e liturgia. Allo stesso modo, senza il succedersi sinuoso o labirintico dei suoi elementi, privato dell’ordine circolare che ne regola i ritorni o della freccia del tempo che da agli eventi indirizzo e concatenazione, ogni racconto si ridurrebbe a una serie fortuita di accadimenti.
Tracciato non è il disegno di una cosa, ma il disegno tra le cose che consente di trascendere il contingente e il particolare legandoli ad una più generale scrittura.
Possiede, quindi, un indubbio ruolo didattico e sintetico costituendo, per noi, una scelta senza la quale ogni architettura sarebbe inverificabile, ogni costruzione potrebbe assumere qualsiasi forma.
Per questo indicarne oggi il significato fondante nella composizione dello spazio abitato alle diverse scale rappresenta, ritengo, anche una non equivoca scelta di campo, il tentativo di superare la seduzione di un’adesione estetica alla casualità del mondo costruito, cogliendone fascino e suggestioni, per riaffermare il compito ineludibile del nostro mestiere che è legato alla responsabilità delle scelte, alla formazione di una particolare, e per noi indispensabile, forma di conoscenza capace di dare unità all’operare. Argomento oggi tutt’altro che scontato, che richiede qualche spiegazione.
Poiché il mondo in cui opera è poliedrico e in permanente mutamento, è evidente che l’architetto non possa che impiegare oggi, nel progetto, materiali delle più diverse provenienze. Lo richiede la stessa condizione contemporanea nella quale soluzioni contraddittorie convivono e vengono ugualmente accettate, le storie divengono tutte sincroniche e figure un tempo lontane partecipano di uno stesso svolgimento costruttivo. Definire il proprio ambito di ricerca, ma anche la poetica ad essa inevitabilmente legata, diviene comprensibilmente difficile. E tuttavia, anche in questo contesto, ogni gesto di architettura è chiamato a fissare i propri limiti, a riconoscersi all’interno di un perimetro, di un ambito di scelte. Per l’architetto, infatti, la teoria è θεωρέω nel senso letterale del termine: consiste soprattutto nell’“osservare”, riguardare secondo il proprio punto di vista il mondo costruito sulla base di ipotesi che non sono solo scientifiche, ma contengono molte cose: soprattutto la propria scala di valori e il flusso di esperienze che l’ha formata. La sostanza della teoria di architettura, come dimostrano tutti i trattati che percorrono la sua storia, è fondamentalmente critica.
Se da una parte il mondo virtuale, per propria natura ubiquo, sembra indicarci, sulla scia di una fascinazione peraltro antica, che di ogni verità è vero anche il contrario, la dinamica concretezza del tracciato sembra affermare che nel magma del reale ogni cosa ha un verso e tutto è orientato, che, rispetto a quella del passato, la città contemporanea possiede la stessa necessità di direzione e orientamento avendo, di sostanzialmente diverso, soprattutto una grande instabilità, la propensione ad un più rapido mutamento.
E’ in questo senso che il ruolo del tracciato, nell’ accezione attribuitagli in queste pagine, trascende il significato di strumento e diviene ermeneutica del progetto: lettura, interpretazione, disegno. Vedendo le cose in questo modo, il tracciato acquista il significato di struttura profonda della forma, il suo riconoscimento e ridisegno diviene un’arte interpretativa e generatrice che riattualizza strumenti antichissimi, dal piano gerarchicamente regolato allo schizzo che individua, nel molteplice, l’insieme delle trasformazioni possibili, l’ordine nascosto nel disordine.
Argomenti dei quali compare in filigrana, in queste pagine, il chiaro fondamento storico, ma ai quali viene anche attribuita una valenza, complementare e meno indagata, che si potrebbe definire logico-geometrica.

Almeno un secolo di analisi della città basate sulla pura constatazione della sua forma, su diadi astratte come isolato-viabilità, pieno–vuoto,  costruito-inedificato, hanno fatto dimenticare il valore, temporalmente anteriore e spazialmente accentrate rispetto all’edificato, del percorso e del suo tracciamento.
Ancora una volta è il processo che spiega lo spazio che oggi abitiamo. L’uomo conosce il suolo che abita percorrendolo; non diversamente da qualsiasi animale se ne appropria lasciando tracce. Sono questi, del camminare e del segnare un percorso, i primi gesti che fondano la struttura del territorio: aree insediative e produttive, case e terreni coltivati verranno dopo e la loro forma seguirà il rapporto segnato dalla solidarietà tra “supporto orografico”, per usare un termine impiegato da Lina Malfona, e la vita che vi scorre. I crinali percorsi dalle popolazioni che si sono insediate sulle due sponde del Tevere in prossimità dell’Isola Tiberina, costituiscono ancora una traccia indelebile sulla quale è sorta la struttura (non solo viaria, si badi, ma architettonica)della Roma moderna. La quale conserva il sostrato dell’antica, quando sono scomparsi gli edifici, soprattutto attraverso la durata dei suoi percorsi.
Ebbene la fase iniziale dell’edificato, all’origine della città (di qualsiasi città) si addensa attorno ad un percorso, il quale diviene lo spazio accentrante che informa il costruito. L’isolato è, in questa fase, puro disegno geometrico, conseguenza di fasi costruttive che completano un’area definita. Esso verrà identificato molto dopo, nella città alienata del XIX secolo che si va trasformando in metropoli, e non indicherà mai un’appartenenza. Ancora oggi, nei tessuti che hanno conservato le proprie matrici, la contrada, lo spazio tracciato dal primo percorso che preesiste all’edificazione, è il luogo in cui l’abitante si riconosce, lo spazio condiviso dell’empatia e della socialità, monade della polis e della vita politica, infine, per usare le categorie di Hannah Arendt, luogo del discorso.
A questo dato, alla funzione centripeta del tracciato geometrico inteso come geometrizzazione di un percorso, occorre oggi guardare, come ha iniziato a fare l’autore di questo studio, con la freddezza del geologo che esamina un fenomeno tettonico per cercare, sotto lo strato superficiale, i sedimenti e le tracce di moti profondi che spiegano l’attuale forma del suolo.
Senza nostalgie, dunque, né pregiudizi.
Si scoprirà allora che lo spazio contemporaneo è specularmente opposto a quello aristotelico, al “limite immobile” che avvolge i corpi, che non solo i tessuti delle città, ma tutti gli spazi architettonici, a qualsiasi scala, trovano la loro struttura profonda nel moto e nella vita di cui i tracciati/percorsi sono la traduzione architettonica, sia che individuino l’asse orizzontale che il fedele percorre dal portale all’altare in una chiesa, sia che indichino il viaggio verticale dell’ascensore in una torre per uffici o il cammino meccanizzato in un aeroporto.

Vorrei concludere queste brevi note segnalando come la lezione più fertile, in questo senso, derivi dai processi di trasformazione della città italiana, dove l’edilizia abitativa e seriale composta lungo un tracciato stradale si “annoda” progressivamente, il tessuto si trasforma in edificio attraverso la mutazione dei percorsi formando nuovi organismi che potrebbero indicare, oggi,  una possibile, originale strada di sperimentazione per il progetto.
Il senso e l’utilità didattica, per noi, di questi nuovi organismi, che il palazzo romano sintetizza in modo esemplare, risiede nel fatto che essi non costituiscono l’esito di invenzioni individuali, come vorrebbe un’interpretazione tardoromantica ancora largamente diffusa, ma rappresentano il prodotto vivo e necessario della trasformazione di tracciati nella città. Il palazzo romano è il risultato, infatti, della singolare collaborazione tra metamorfosi di parti di tessuto e durata del sostrato geometrico antico. La solidarietà tra elementi (le unità di schiera, diffuse in tutta la città fin dal XIII secolo) dovuta a nuovi regimi di proprietà si traduce nell’unificazione delle facciate, nella formazione parete ritmica, ma soprattutto nell’introiezione dei tracciati dei percorsi esterni polarizzati e continuati in verticale delle scale. Come in un tessuto urbano rovesciato, i nuovi percorsi hanno la funzione, di volta in volta, di percorso matrice, di impianto, di collegamento. L’edificio diviene così, allo stesso tempo, la rappresentazione di una piccola città compiuta e l’espressione di un rapporto genetico di solidarietà e congruenza con il tessuto abitativo. Quando si spingono a grandi dimensioni e sono totalmente progettati, questi edifici/tessuto sembrano ancora ereditare i caratteri del loro ambiente costruito, condividerne geometria e misura formativa, collaborare con l’intorno a formare un solo disegno: come per il mandala, i tracciati regolatori sono la loro essenza.
L’ architetto/artista è,  insieme, l’interprete e l’innovatore di questi principi che, a saperli riconoscere, sono leggibili anche ai nostri giorni. Non solo attraverso edifici come il Palazzo dell’Industria disegnato da Marcello Piacentini e Giuseppe Vaccaro, dove il lascito è evidente, ma anche in opere insospettate, come la sede della  Deutsche Bank a Berlino di Gehry che lette sotto quest’aspetto, finiscono per avere l’interesse di un tessuto dai tracciati rovesciati, dove lo spazio centrale è annodato dalla copertura trasparente, in modo non diverso da tanti altri episodi che hanno segnato la vera storia del passaggio alla modernità, dalla formazione delle galeries e dei grandi magazzini del XIX secolo, a partire dai passages, ai tanti palazzi i cui cortili, coperti, hanno segnato la formazione di un nodo spaziale e l’origine di nuovi organismi moderni.
Un modo, dunque, quello di leggere e progettare per tracciati, che permette di interpretare l’intera storia della città moderna alla luce di un’ attendibile teoria che ripropone la priorità dei fenomeni generali e profondi sugli esiti frammentati della città contemporanea.
Mi sembra che questa sia la strada fertile intrapresa da Lina Malfona con questo lavoro che, indicando una via poco battuta, costituisce una scelta tra le più impegnative, implicando non solo la necessità delle basi teoriche del mestiere di architetto ma anche, indispensabile corollario,  l’urgenza del metodo per applicarle.

Giuseppe Strappa
Roma, novembre 2011

IL PROCESSO DI RIFUSIONE E LA FORMAZIONE DELLA CASA IN LINEA

di Giuseppe Strappa

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Due case a schiera rifuse in via del Babuino a Roma

Nel corso del processo di trasformazione del tessuto si formano le abitazioni plurifamiliari, dove due o più famiglie occupano una costruzione servita da un unico vano scale,  a partire dalla trasformazione di unità unifamiliari esistenti, spesso a schiera.
Le prime forme di plurifamiliarizzazione avvengono per semplice utilizzo del costruito esistente, in condizioni di emergenza dovute alla rapida crescita demografica, dove ogni singolo piano viene occupato da una sola famiglia. E’ evidente il disagio, impensabile ai nostri giorni, di una distribuzione che non permetteva l’isolamento del singolo nucleo familiare.
Presto si sviluppano, tuttavia, nuovi tipi edilizi basati sulla formazione di un vano specializzato adibito ad ospitare la scala comune (vano scala) che distribuisce un appartamento bicellulare per piano. Il vano scale si pone, in questo caso, parallelamente al percorso esteno, addossato al muro centrale “di spina”. E’ evidente come anche questa soluzione presenti un basso rendimento, con una diminuzione della superficie di ciascuna unità abitativa, che risulta meno che dimezzata rispetto allo standard quadricellulare raggiunto dalla casa a schiera matura.
Ma la forma di trasformazione determinante nella formazione della città moderna è quella basata sull’unione di due o più elementi di schiera che vengono uniti (rifuse) a costituire unità di scala superiore.
Se nei tipi più maturi il vano scale occupa parte (o per intero) un vano posteriore delle abitazioni originali, non è raro che, soprattutto nella fase iniziale delle trasformazioni, questo si ponga nell’area di pertinenza, come avviene con grande frequenza in area romana.

E’ evidente come l’innovazione, la formazione di un vano scala comune di distribuzione agli alloggi, contenga il germe di un profondo cambiamento nel tessuto edilizio permettendo che più abitazioni occupino un solo piano.
L’esperienza acquisita attraverso rifusioni operate direttamente sul costruito viene poi riutilizzata anche negli edifici costruiti ex novo attraverso l’acquisizione di nuovi tipi edilizi che verrano impiegati anche quando, a partire soprattutto dal XIX secolo, l’architetto si interesserà al progetto di grandi interventi di edilizia di base (1). La prima e più semplice forma di unione di abitazioni à costituita dalla rifusione dalla semplice acquisizione di superficie abitabile ottenuta annettendo i vani di un’abitazione adiacente.

Questa forma di aggregazione derivata dalla rifusione di elementi di schiera  costituisce la casa in linea, che da origine a tessuti di case in linea, spesso sul perimetro dell’isolato, caratterizzati dall’associazione seriale di elementi plurifamiliari (corpiscala) costituiti dal vano scala e dagli appartamenti che vi fanno distributivamente capo. Si noti, come rientrino nella definizione processuale del tipo anche abitazioni plurifamiliari costituite da un solo corposcala, considerandole case in linea non aggregate.

La nozione di casa in linea deriva dunque da un processo, dall’esperienza abitativa della casa unifamiliare. Questo legame con la consuetudine edilizia, con l’uso e la trasformazione della realtà costruita, costituisce il raccordo con l’innovazione del tipo edilizio successivo: quando la casa in linea viene intenzionalmente progettata e costruita,  si conserva ancora l’eredità della casa in linea ottenuta per rifusione. Ne sono evidente testimonianza i grandi quartieri della Roma postunitaria, criticamente progettati da architetti, dove il tipo vigente (a doppio corpo  di fabbrica strutturale) mantiene il muro di spina centrale derivato, come abbiamo visto, dalla struttura statica della casa a schiera romana. Studi recenti hanno dimostrato

come esistessero, nell’edificazione dei quartieri di edilizia economica tra le due guerre, soprattutto negli anni ’20, tipi in linea consolidati che gli uffici tecnici impiegavano estesamente condizionando anche l’intervento degli architetti più noti. Si veda ad esempio l’attività dell’ICP romano, nel cui sviluppo è ancora leggibile  la nozione di trasformazione processuale dove l’apporto corale dei tecnici e della tradizione costruttiva ha un ruolo più rilevante dell’innovazione criticamente apportata dai singoli progettisti.

La rifusione  delle abitazioni in aggregati plurifamiliari è immediatamente leggibile, anche attraverso la permanenza delle dimensioni delle cellule elementari che determinano la partizione delle facciate e  dimensione dei corpi di fabbrica (2),  esprimendo la vocazione dei tipi più semplici alla convivenza organica, alla formazione di unità a scala maggiore. Vocazione che, progressivamente acquisita e intenzionalizzata, diviene linguaggio cosciente, in un passaggio assimilabile alla transizione dalla lingua solo parlata alla lingua scritta,  permettendo, anche, di acquisire intenzionalmente caratteri imitativi dell’edilizia specialistica.

Come per la linguistica, inoltre, anche in architettura l’osservazione del linguaggio spontaneo originato dalle rifusioni fa nascere l’ovvia constatazione che esso sia originato dalla tendenza naturale dell’uomo ad associarsi in comunità, a comunicare; e tuttavia, come per la linguistica, questo dato, pur evidentissimo, non aiuta che in piccola parte a ricostruire il processo di trasformazione degli edifici e la sua strettissima relazione con le mutazioni processuali del tipo: la ricostruzione deve essere necessariamente  eseguita in modo unitario partendo non solo dalla leggibilità esterna, ma da tutte le componenti che determinano le forme più semplici e spontanee di aggregazione, individuando  tipi matrice,  tipi base e varianti, tessuti  ecc.

NOTE

1.    Si vedano in proposito le osservazioni contenute in : Gianfranco Caniggia, Permanenze e mutazioni nel tipo edilizio e nei tessuti di Roma (1880-1930), in «Tradizione e innovazione nell’architettura di Roma capitale ; 1870-1930)» a  cura di Giuseppe Strappa, Roma 1989.

2.    Corpo di fabbrica é  la porzione di spazio compresa tra due assi longitudinali individuanti la struttura statica a pilastri o murature (corpo di fabbrica strutturale) o le pareti principali che determinano la distribuzione, spesso includenti (ed a volte coincidenti con ) gli elementi statici (corpo di fabbrica distributivo).

Bibliografia specifica sulla casa in linea a Roma:

L. Bascià, P.Carlotti, G.L.Maffei, La casa romana, Firenze 2000, pag. 201 e segg.

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ESEMPI DI AREE NORDEUROPEE

 

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Oud, case in linea a Spangen

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Sharoun, case in linea a Siemensstadt