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Viaggio a Sabaudia alla ricerca delle radici

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di Giuseppe Strappa

in «La Repubblica» del 15/8/1995.

Sommerso sotto il cielo d’agosto da un turismo che ormai, dietro una stessa cortina di umani arrostiti dal sole e  boutique balneari, unifica il villaggio delle Cicladi, la cittadina della Costa Brava, il porto delle Eolie, si stenta a riconoscere il carattere straordinario di Sabaudia, città silenziosa per vocazione.
Occorre fare qualche sforzo di concentrazione per riconoscere la memoria delle origini, pure ancora evidente, di questa città singolare, amatissima da Pasolini.  Origini che la nostra corta memoria storica associa al volto migliore del ventennio fascista, quello della “redenzione delle terre”, delle città di fondazione, delle bonifiche, ma che in realtà appartengono, se viste nei tempi lunghi delle grandi trasformazioni territoriali, allo stesso ciclo storico che ha portato, agli inizi del nostro secolo, come avverte Braudel, alla bonifica delle grandi pianure del bacino del Mediterraneo, dalla piana di Salonicco, alle aree del Basso Rodano, fino alla Mitidja algerina.
Di questo epocale processo di addomesticazione idraulica delle paludi, Sabaudia, sorta nel ’34 tra due bracci del lago di Paola, sembra coagulare l’immagine più moderna: volumi ostinatamente puri, artificiali, costruiti come per esorcizzare l’antica natura ostile del luogo. Edifici che appaiono nelle foto d’epoca, visti dal mare o dalla maglia regolare dei campi coltivati a grano, come la semplificazione, estrema e trasognata, della città italiana, il trionfo della civiltà sulla natura selvaggia: evocano le architetture che si incontrano nei dipinti di Giotto, Ambrogio Lorenzetti o Taddeo Gaddi.
Gli architetti che la idearono, Cancellotti, Montuori, Piccinato, Scalpelli, non disegnarono un semplice piano urbanistico, ma progettarono per intero la città, la forma nuda degli edifici, il sereno dispiegarsi dei viali. Le abitazioni, tutte a due piani, dovevano essere più dense, ad appartamenti, lungo le strade centrali; quelle più periferiche, per famiglie singole, più rade, a schiera; le altre erano case isolate, a carattere rurale. Il degradare della densità edilizia dal centro verso la campagna esprimeva uno dei caratteri di Sabaudia, città senza mura dove manca il confine netto col territorio retrostante, al quale la lega la rigida geometria viaria dell’Agro bonificato. E l’asse viario sul quale si imposta la città, corso Vittorio Emanuele II, infatti non è altro che la continuazione di una delle direttrici che partono dall’Appia in direzione della costa, la Migliara 53, il cui nome deriva dalle “fosse milliarie” fatte scavare da Pio VI per la sfortunata bonifica iniziata alla fine del ‘700 .
E proprio la Migliara 53, traversate le quinte di verde del parco del Circeo,  incontra la torre in travertino del Palazzo Comunale, con la sua campana di due tonnellate, cuore del sistema di piazze ed edifici pubblici: la piazza  del Comune, circondata dall’albergo, dal cinema teatro, dai negozi; la piazza Circe, destinata in origine alle adunate ed oggi sistemata a parco; l’edificio dell’Associazione Combattenti (oggi Istituto Galileo Galilei).
Architetture non a caso ammirate da Le Corbusier nel suo viaggio in Italia del ’34, che riconducono al centro stesso della modernità apparentandosi, è stato fin troppo spesso notato, al clima mitteleuropeo dei Dudok, degli Oud, dei Gropius. Ma che qui assumono un senso inedito: prive dell’ingegnosità dei modelli nordici (distanti dalle loro macchinose trovate), acquistano l’aria serenamente solare, fragile e incorruttibile allo stesso tempo, delle forme necessarie: non possono esistere, in realtà, che associate al luogo dove sorgono. E così, a differenza di molte città di quegli anni, la presenza dell’antico compare a Sabaudia in forma discreta, antiretorica, celata sotto molti strati di modernità.
Ma per avere un’idea dell’originale organicità di Sabaudia bisogna rintracciare anche altri frammenti, alcuni dei quali autentici capolavori di architettura moderna: la gelida Chiesa dell’Annunziata, posta a fondale di piazza Regina Margherita, col grande mosaico di Ferrazzi incastonato nella facciata di travertino;  le famose poste progettate da Angiolo Mazzoni, in corso Vittorio Emanuele III, lodate da Marinetti per la “policromia di forza e di entusiasmo che invita al colore gli altri edifici di Sabaudia”; gli edifici per l’Azienda Agraria e l’antistante Opera Balilla (oggi Centro Forestale) costruiti da Angelo Vicario in viale Carlo Alberto; l’Ospedale (ora U.S.L.) e  la scuola disegnati da Oriolo Frezzotti in viale Conte Verde.  Per terminare col bel ponte sul lago di Paola   costruito da Riccardo Morandi nel 1962, ultima delle opere notevoli di Sabaudia prima della catastrofe edilizia.
Ma in fondo la nuova città sorta intorno a quella originaria, proprio perché cinica e volgare come ogni periferia del dopoguerra, ha in un certo senso rispettato il nucleo “storico” lasciandolo riconoscibile: a Sabaudia ogni muro, come è giusto che sia, mostra al giudizio del visitatore la sua data.

SALVIAMO LA DIGA DI CASTEL GIUBILEO

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del  7.06.2003

Se si alzavano gli occhi verso monte, sull’abbagliante specchio d’acqua dove saltavano i cavedani apparivano,  fantastiche, le torri di cemento e acciaio dello sbarramento di Castel Giubileo.
Come una misteriosa macchina futurista arenata sul greto del Tevere, la centrale elettrica sembrava, a noi ragazzi, il limite del mondo selvaggio del fiume, la geometria esatta della diga contrapposta all’anarchia del ponte crollato tra le cui rovine vorticavano i magnifici mulinelli della pesca alle rovelle.
Per le generazioni dei romani delle Topolino e delle Seicento, la centrale di Castel Giubileo ha rappresentato uno dei segni ottimisti della ricostruzione, illustrato con chiarezza dal carattere dei nuovi materiali: dalla leggerezza dell’acciaio delle cabine di comando e delle passerelle aeree, dalla trasparenza delle pareti in vetrocemento che contenevano i gruppi di turbine Kaplan, dal vigore del calcestruzzo armato dei piloni e dell’impalcato stradale. E per molto tempo è rimasta il nodo macchinista che legava, alle soglie di Roma, il flusso dell’Anulare allo scorrere antico del Tevere.
Ma per la storia dell’architettura contemporanea la diga, progettata nel ’48 e terminata nel ’53, non è solo una perfetta opera d’ingegneria civile: insieme alle altre centrali costruite da Gaetano Minnucci per la Società Idroelettrica Tevere (quella di Nazzano del ’54, quella di Ponte Felice del ’59), è il manifesto di un modo di concepire le grandi infrastrutture territoriali come opere d’arte. Opere di un’arte dell’esattezza tessuta, aveva scritto Minnucci stesso, ” su di una trama esclusivamente tecnica, basata sulla scienza delle costruzioni e sulla conoscenza delle infinite materie che la natura e l’industria offrono”. Molte opere di questo grande ingegnere, fondatore del Movimento Italiano per l’Architettura Razionale, hanno avuto un destino sfortunato, deturpate da dissennate trasformazioni, come il Dopolavoro della Città universitaria o, peggio, la GIL di Montesacro. Il complesso di Castel Giubileo sembra invece, per ora, in buone condizioni. Ma l’ipotesi di dismissione dell’impianto idroelettrico, ormai antieconomico, insieme al progetto per la terza corsia dell’Anulare ne rendono oscuro il futuro.
Mi sembra che un buon suggerimento al problema della sua conservazione venga dal consulto sul Tevere promosso dalla Facoltà d’Architettura di Valle Giulia e dall’Acer, con la proposta degli architetti Petrachi e Montuori di tutelare le strutture disegnate da Minnucci riutilizzandole come polo di un sistema d’uso del bacino fluviale che preveda l’attracco di barche e la possibilità di risalire il fiume fino all’oasi naturalistica di Farfa, mentre le sale macchine potrebbero ospitare ambienti di ristoro e spazi didattici. Un progetto che, condiviso o meno, ha comunque posto il problema: occorre prevedere per tempo nuove destinazioni a questa testimonianza preziosa del nostro passato recente, per non rischiare che, per incuria o distrazione, venga riassorbita come rovina dalla vita distruttrice del fiume.

SEGMENTI E BASTONCINI La deriva empirica dell’architettura

Presentazione a

Progettare il tessuto urbano di Alessandro Franchetti Pardo, Roma 2012

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di Giuseppe Strappa

Non è facile, ai nostri giorni, convincere i giovani della necessità della teoria, del pensiero unificante che da senso al molteplice, che riporta il particolare alla visone sintetica delle cose.
I motivi sono molti e riguardano tutte le età dell’educazione e della formazione dei nostri studenti.
Un ruolo certamente importante è svolto dall’insegnamento nelle scuole medie dove la constatazione dei fatti ha sostituito la loro dimostrazione e  l’esperienza pratica la conoscenza generale della quale ogni caso specifico costituisce un’applicazione. Gli studenti che frequentano i nostri corsi universitari sono figli di questo insegnamento che, negli studi di architettura, sembra trovare conferma da quello che vedono intorno a loro, dalla deriva, spesso estetizzante e indimostrabile, di molte ricerche contemporanee.
Lucio Russo ha espresso questo dato con un’ osservazione fulminante, che vale la pena di riportare. Egli parla della disastrosa diffusione della “matematica pratica” e riporta l’opinione di uno studente della “Sapienza” di Roma che ritiene falsa la geometria, astratta e generica,  derivando la sua deduzione dal fatto che non esistono nella realtà segmenti, che ha valore solo quello che è concreto, ha uno spessore ed è verificabile con l’esperienza: i bastoncini. “L’argomento – scrive Russo – non mi è giunto nuovo: l’avevo già letto nelle opere di Sesto Empirico; allora la razionalità scientifica stava per essere abbandonata per una quindicina di secoli.”
Abbiamo spesso riflettuto con Alessandro Franchetti Pardo, autore di questo prezioso libretto sulla didattica di architettura, su come l’osservazione trovi una puntuale corrispondenza nella predisposizione dei nostri studenti dei corsi di progettazione alle scorciatoie che evitano il confronto con la conoscenza generale dei problemi, la quale, per noi, consiste soprattutto nella lettura critica della realtà costruita, nell’interpretazione metodica e finalizzata dei fenomeni urbani che, sola, dà senso generale alla proposta progettuale particolare.
Questo problema dell’approccio diretto ed empirico al progetto è particolarmente sentito, peraltro, in un settore dell’insegnamento di architettura come il nostro, nel quale la componente pratica ha un ruolo importante e rischia di essere indirizzata all’imitazione della produzione più nota e diffusa dai media. Produzione nella quale il progetto, per larga parte, avendo smarrito il suo fondamentale carattere di costruzione, continuazione di un processo formativo in atto della città e del paesaggio, rischia di perdere il proprio senso civile per  divenire altro dall’architettura: comunicazione, arte visiva, comunque espressione individuale e soggettiva.
Franchetti Pardo è uno dei non molti insegnanti di progettazione che io conosca a porsi, controcorrente, con originalità e grande competenza, il problema di informare il proprio insegnamento non solo a principi generali legati alle incertezze della mutevole condizione contemporanea, ma anche ad un metodo rigoroso di comprensione dei luoghi e dei loro processi formativi, propiziando una ricerca, da parte degli studenti, i cui notevoli esiti sono in piccola parte dimostrati dalle pagine che seguono.
Leggere e progettare, oggi, la nobile area di via Giulia, con i suoi tessuti  ed i suoi palazzi disegnati da grandi architetti del passato e confrontarla con quella periferica e dimenticata di Casal Monastero, come fa qui Franchetti Pardo, è, a mio avviso, una scelta importante e coraggiosa. Significa affermare che i principi che determinano il formarsi e trasformarsi dello spazio abitato dall’uomo hanno una matrice comune, che quello che produciamo oggi è una continuazione e un aggiornamento di un processo lungo e continuo nel tempo che va riconosciuto superando gli stereotipi e le ideologie di superficiali rivoluzioni.
Attraverso i corsi di Franchetti Pardo lo studente ha individuato, credo, non solo la forma della città antica e le trasformazioni operate dall’intelligenza di costruttori-architetti la cui opera è tramandata dalla Storia, ma anche la permanenza di questa capacità di comprensione delle cose in progettisti contemporanei che hanno interpretato, pur nelle difficili condizioni della periferia romana, il territorio marginale come città in divenire della quale vanno individuati forma e caratteri. In modo non molto diverso, in fondo, da come della città del passato è stata letta la  struttura sviluppatasi per gerarchie di percorsi, polarità, tipi di edifici congruenti con la propria fase storica.
In questo, mi sembra, il lavoro didattico di Alessandro Franchetti Pardo si collega con coerenza, per metodo e fini, all’attività di indagine innovativa che stiamo conducendo insieme, nel quadro delle ricerche  Prin, sulla progettazione nei piccoli centri storici del Lazio orientale,  e alla precedente indagine sulla periferia ad est di Roma, in corso di pubblicazione, a testimonianza di un fertile volano che sempre dovrebbe trasmettere alle giovani generazioni i risultati delle sperimentazioni in corso.

AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

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SA nuovo corso di laurea triennale in scienze dell’architettura
LPA laboratorio di lettura e progetto dell’architettura

AREE DISMESSE E FUTURO DELLA CITTA’: LA VENDITA DELLE CASERME ROMANE
INCONTRO PUBBLICO E TAVOLA ROTONDA

La vendita ai privati di 15 caserme romane, per un totale di un milione e mezzo di metri cubi edificati e più di 80 ettari di territorio, ha dimensioni tali da portare conseguenze enormi sul futuro della Capitale. L’iniziativa ha lo scopo di mettere a confronto idee, opinioni e progetti elaborati non solo in ambito amministrativo e universitario, ma soprattutto da parte di comitati e associazioni di cittadini.

venerdì 30 marzo, 2012, ore 16,00
Facoltà di Architettura
sede di Fontanella Borghese, aula magna
Piazza Borghese 9, Roma

presenta
GIUSEPPE STRAPPA (direttore del laboratorio Lpa)

interventi introduttivi di
CARLO RIPA DI MEANA (presidente Italia Nostra,Roma)
FRANCO PURINI (ordinario di progettazione architettonica)

scheda di
PAOLO CARLOTTI (dipartimento DIAP)

tavola rotonda. intervengono:
MAURIZIO GEUSA (dirigente U.O. pianificazione e
riqualificazione delle aree di interesse pubblico, Comune di Roma)
ELIO ROMANO (Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme)
DANIEL MODIGLIANI (urbanista)
MIRELLA BELVISI (Italia Nostra)
ANDREA BRUSCHI (dipartimento DIAP)
ROBERTO CREA (Cittadinanzattiva)
ALFONSO GIANCOTTI (Casa dell’Architettura, Roma)
LUIGI TAMBORRINO (Campo trincerato, Roma)
VINCENZO GIORGI (dipartimento DIAP)
ROBERTO TOMASSI (Coordinamento residenti
città storica)
SIMONE FERRETTI (Campo trincerato, Roma)
SONO INVITATI I RAPPRESENTANTI DEI COMITATI DI QUARTIERE, DELLE ASSOCIAZIONI E TUTTI I CITTADINI INTERESSATI.

Organizzazione
Alessandro Camiz
Segreteria 06 4991933
Alessandro Bruccoleri, Pina Ciotoli, Virginia Stampete