FORMATIVITÀ DELL’ARCHITETTURA

 

 

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G. Strappa, interno  della torre/ossario del cimitero di Terni, 2015 (foto A.Bravini).

 

FORMATIVITÀ DELL’ARCHITETTURA

di Giuseppe Strappa

Intervento al convegno Nuovo realismo/Postmodernismo. Dibattito aperto fra architettura e filosofia
Facoltà di Architettura, Sapienza Università di Roma
Aula magna di Fontanella Borghese (Piazza Borghese 9)
28-29 ottobre 2014

 

Intervengo in questo dibattito come architetto e docente di progettazione. Mi guardo bene, quindi, dall’entrare nel merito di considerazioni che riguardano una disciplina, come quella filosofica, complessa e molto diversa dalla mia. Ho preso però qualche appunto sulle cose dette e vorrei fare alcune considerazioni che possono esporre il punto di vista, certamente di parte, di un progettista.
Dirò subito che ho sempre un po’ diffidato dal recente entusiasmo, spesso dimostrato dagli architetti, per le discipline filosofiche. Non che la filosofia non abbia a che fare con l’architettura, ci mancherebbe. Una vasta letteratura lo dimostra, dalle riflessioni di Ludwig Wittgenstein a quelle di Martin Heidegger a Jaques Derrida, al lavoro di alcuni colleghi, come Paola Gregory, che si sono dedicati con grande competenza all’argomento. Certamente anche la filosofia entra di diritto nel grande crogiolo dei materiali che gli architetti impiegano, più o meno disinvoltamente, per costruire il proprio corpus disciplinare. Il quale sembra oggi, tuttavia, un bizzarro collage di disparati saperi.
Nel mondo in cui viviamo, a ben vedere, nulla è estraneo all’architettura, la quale possiede una propria natura appassionata ed empatica, indagatrice, formatasi attraverso una consuetudine con la sintesi delle cose e delle idee che forse è il carattere specifico del nostro mestiere (mestiere!). Per questa ragione la vera questione epistemologica in architettura oggi, ritengo, non è tanto la ricerca ansiosa dello scambio tra discipline, da sempre per noi necessario e inevitabile, quanto una perimetrazione, il riconoscimento logico e metodologico del centro scientifico della ricerca e della pratica progettuale.
Per questo credo che il tema affrontato in questo incontro, il rapporto con la realtà della quale l’architettura non può essere un semplice rispecchiamento, si collochi in una zona storicamente certa e investa direttamente il nostro lavoro. Esso riguarda, a mio avviso, le condizioni in cui operiamo quotidianamente e sulle quali occorre fare una seria riflessione.
Qualche giorno fa Salvatore Settis, in occasione dell’apertura dell’anno accademico alla Normale di Pisa , poneva il problema delle forme di comunicazione, reali o virtuali, a proposito degli oggetti esposti nei musei. Citando il libro dello storico Steven Conn intitolato, addirittura, “Do museums still need objects?”  Settis annotava, laicamente, la crescente sfiducia nella capacità dell’oggetto di trasmettere conoscenza: le tecnologie informatiche possiedono una verità che non vuole essere equivalente a quella della cosa reale; pretendono di porsi come realtà di grado superiore (l’oggetto diviene monotono, nel senso letterale del termine, di fronte al turbine di informazioni che un semplice computer può fornire).
Probabilmente é vero e, come è noto, considerazioni come queste sembrano aver aperto, per estensione, nuovi orizzonti alle ricerche degli architetti. Ricerche che si concludono, invariabilmente, in esiti analogici, non investendo l’essenza del problema.
Se questa strada sia opportuna o meno, dipende dalla definizione che diamo di architettura. Renato Capozzi ha affermato, nel suo intervento, che dobbiamo avere il coraggio di esprimere la nostra definizione di architettura, altrimenti non ci capiamo. Cercherò di farlo.
So che la mia opinione in proposito non è condivisa da alcuni colleghi, ma credo che la difficoltà di questo dibattito sia contenuta proprio nella spiegazione del ruolo disciplinare dell’architettura la quale, per statuto, non può che essere strettamente legata anche alla materialità (nozione complementare a quella di processualità) del nostro mestiere, al valore dell’atto giudicato in quanto compiuto, indipendentemente da propositi e congiunture che lo determinano.
Possiamo discutere di come questo legame si possa o meno chiamare realismo, e come si collochi tra i tanti “realismi”. Però credo che il processo di evidente astrazione del nostro operare dai dati concreti non costituisca una nuova strada, ma uno dei problemi, ancora urgenti, dell’architettura contemporanea.
L’architettura è certamente anche comunicazione, arte, mercato, ma, per definizione non rappresenta, comunica o rispecchia la realtà: è la realtà. Architetture sono gli spazi e i paesaggi dentro i quali noi viviamo, sono le costruzioni, le strade, le piazze che noi abitiamo. Anche il disegno più astratto ha senso architettonico se si rapporta a un progetto di trasformazione, a un’idea di futuro. Il valore che possiede in sé è un’altra cosa.
Credo che, per quanto fluido possa essere oggi il centro delle discipline, per quanto incerti i loro confini, l’architettura, più di altri saperi, deve ridefinire il proprio statuto e le proprie specificità.
Noi dobbiamo, per poter coltivare nuove forme di sovrapposizione fra saperi diversi, riflettere sulle specificità, sui caratteri distintivi del nostro lavoro. Proprio perché la sua natura sincretica rischia di disperdersi sotto l’aggressione dei tanti specialismi con i quali tende a identificarsi. Il fascino che questi esercitano sugli architetti è un altro dei nostri problemi.
Dentro questa concreta specificità dell’architettura, naturalmente, sta anche il progetto. Il progetto fa parte della realtà dell’architettura.
Vorrei tentare a questo proposito, me lo consentano per una volta i filosofi, di interpretare il ruolo del progetto alla luce di quanto è stato qui detto da Maurizio Ferraris sulla nozione di documentalità . Il progetto è, sotto questo punto di vista, un oggetto sociale, ma è tale in quanto prodotto, come osservava Franco Purini, non solo del lavoro dell’architetto. Come pratica di negoziazione e mediazione intervengono nella sua definizione diversi attori: la finanza, la committenza, la normativa, secondo un procedimento che ha le proprie consuetudini, regole, rituali (l’architettura non è solo processo, ma anche procedura che s’iscrive in una sequenza di norme e formalità). A volte intervengono gli utenti e, alla fine, anche l’architetto. La conclusione è un contratto. Questa è, se vogliamo, la parte immateriale, e non per questo meno concreta, della realtà dell’architettura, che è infine tradotta e criticamente registrata dal progetto nella sua redazione grafica.
Tale graficizzazione è una registrazione che ha diverse forme di circolazione. Quella amministrativo/burocratica è una delle possibili forme di comunicazione e scambio. Si danno poi altre forme di circolazione, come quella tecnico/amministrativa, ad esempio, o quella estetico/artistica che possiede un proprio circuito (quello della critica, delle pubblicazioni, ecc). Sono tutte, certo, forme di registrazione. Ma per l’architetto l’artefatto è un’altra cosa: è il modo attraverso il quale l’immaterialità del contratto diventa concretamente materia alla quale dare forma.
E siamo arrivati al centro del problema.
Noi ci occupiamo di forma.
Sotto due aspetti apparentemente divergenti.
Quello della percezione, della αἴσθησις, è oggi il più coltivato dagli architetti nelle sue mode legate, di volta in volta all’arte o alla scienza (si veda la recente deriva verso le neuroscienze).
Quello, ben più complesso e meno accattivante, della morfologia, del λόγος, dello studio della forma come aspetto visibile di una struttura e delle scelte che ne derivano: la forma come formazione che presuppone un processo formativo conoscibile e razionalmente, indagabile .
A dimostrazione di come questa suddivisione sia riduttiva ed esprima, in realtà, i poli di una diade di termini opposti e complementari, una delle definizioni di forma più pertinente agli studi di morfologia è stata proposta proprio uno studioso d’estetica, Luigi Pareyson.
La forma è un organismo, ci insegna Pareyson, e in quanto tale è formata e formante, con proprie leggi interne che legano le parti in unità. Per noi questa definizione è di grande interesse e tutt’altro che neutrale.
Significa leggere il territorio come organismo territoriale, come architettura in cui ogni elemento si annoda all’altro in un rapporto di necessità, legato all’orografia e all’uso del suolo. Anche se le sue condizioni sono apparentemente frammentate e disperse, significa riconoscere nel territorio proprie capacità formative, l’attitudine a ricostruire una nuova, pur instabile, organicità. Considerando il paesaggio non solo nei suoi aspetti legati alla percezione, ma come aspetto visibile di strutture territoriali in trasformazione.
E lo stesso vale, a scale diverse, per l’organismo urbano, per i tessuti, per gli edifici: la forma della città come processo in atto e in continuo divenire. Gli stessi edifici possono essere riguardati come organismi edilizi, dove la forma è l’esito di un permanente processo di trasformazione dalla materia al materiale, agli elementi, alle strutture, ai sistemi collaboranti tra loro a formare, dare forma alla realtà costruita.
L’aspetto dell’architettura che percepiamo può essere, dunque, considerato uno stato di provvisorio equilibrio all’interno di uno svolgimento continuo, di un inarrestabile processo di trasformazioni. E l’opera architettonica è il processo stesso della sua formazione, che non s’interrompe ma trova una sua temporanea unità e compiutezza, il momento di equilibrio in cui “la forma si placa e insieme si raccoglie”.
Questa nozione di forma-formazione ha conseguenze dirette sul progetto e sulla didattica di progettazione. Cercherò di esporre il problema proprio dal punto di vista didattico, aspetto particolare che spiega bene, a mio avviso, le condizioni generali in cui operiamo.
I nostri libri di architettura moderna e contemporanea, che dovrebbero esporre agli studenti come si siano formati gli attuali modi di produzione e quali siano i loro problemi, costituiscono, in realtà, interpretazioni di interpretazioni staccate dai dati concreti. Al centro di questi libri raramente incontriamo la fisicità delle architetture, costruzioni inserite nel grande flusso delle trasformazioni in atto, ma figure esemplari di architetti, il loro modo personale ed eroico di produrre idee e intuizioni, il concept che altri tradurranno in costruzione. E’ ancora la storia consolatrice, la “storia monumentale” di cui parlava Nietzsche, del passato esemplare, anche se recente, e dei modelli da imitare. Sarebbe utile, invece, la conoscenza della realtà costruita nel suo divenire concreto che serve all’operare, riflettendo sulla quale è possibile, come cercherò di spiegare, la costruzione della teoria.
In questo la nostra Facoltà ha una grande tradizione ormai, nei fatti, abbandonata.
La “critica operativa” di Bruno Zevi, la “ storia operante “ di Saverio Muratori sono aspetti diversi del comune problema di leggere la storia, che è anche storia dello spirito ma rivolta al mondo materiale delle azioni umane: accumuli di esperienze, esplorazioni, esperimenti sul modo di edificare e abitare lo spazio.
In realtà da qualche tempo anche l’architettura, come gli oggetti dei musei discussi da Settis, è sede di un processo di progressiva separazione: noi ci stacchiamo gradualmente dalle cose che dovrebbero essere la materia stessa dell’interpretazione.
Questo fenomeno non accade da oggi. E’ scomparsa l’esegesi del testo. Mai che compaia, con poche eccezioni, lo studio del costruito reale, dell’edificio, l’analisi del formarsi del suo significato che contiene, spesso, anche la spiegazione della sua poesia. Operazione, in teoria, delegata ad altre discipline “complementari” al progetto.
Eppure, anche se l’architettura è per sua natura sincretica, la sua scienza non è la somma di altre scienze. Per questo l’architetto dovrebbe ricavare dall’esegesi del testo (che per noi è il mondo costruito nel suo divenire, le città, il territorio visti nel loro contesto storico e sociale) un proprio sistema di conoscenza. Servirebbe a tornare all’origine delle cose, ai problemi concreti e veri della nostra attività, perché la teoria per gli architetti – forse i nostri amici filosofi inorridiranno – non è una serie di principi generali, razionali e rigidamente coerenti tra loro dai quali derivare, per via logica, indicazioni per operare. E’ una cosa molto meno cristallina, è stratificazione di esperienze, generalizzazione di quello che si fa, che serve in un certo momento dell’attività positiva del progettare: è utile a riflettere sul proprio agire, a dare coerenza e anche a spiegare quello che si sta producendo.
Per un architetto la teoria è ancora, in definitiva, il tentativo di sistematizzazione dell’esperienza che tenta faticosamente di riportare l’aspetto frammentato e particolare di ogni gesto alla totalità della conoscenza, per quanto questa possa essere, nella condizione contemporanea, mutevole e contraddittoria.
Non a caso nel passato ogni teoria conteneva sempre la riflessione pratica, ogni trattato una parte di manualistica.
Certo, lo sforzo di trasformare in cosmos ordinato il caos indomabile delle cose, che non si lasciano ingabbiare in alcuna tassonomia o legge, è destinato al fallimento ( lo é sempre stato, non solo nella condizione contemporanea). Ma il desiderio di quell’ordine, che comunque finisce per incidere sulla realtà e dal quale ci si aspetta una qualche forma di felicità, è l’essenza struggente e irrinunciabile del progetto, senza la quale ogni sforzo è destinato a disperdersi, ogni scrittura a non lasciare tracce.
I molti modi di vedere le cose che la teoria raccoglie ed esprime, quindi, con tutte le incoerenze che può comportare, sono, in qualche modo, tutti veri, sono una constatazione. E l’attuale rinuncia alla generalità capace di produrre generi e generare il particolare, in nome dell’impossibilità, nel mondo contemporaneo, di ogni sistema unificante, è, ritengo, una dolorosa perdita per la nostra disciplina.
A sostegno di quest’affermazione porterò, in termini concreti, un esempio che riguarda i materiali e le tecniche di architettura.
Proprio il processo di crescente astrazione del modo con cui è comunicata l’architettura, insieme alla progressiva specializzazione delle discipline che concorrono al progetto, ha indotto a considerare i materiali, gli elementi, le strutture che danno forma all’architettura come mera traduzione di un processo ideativo: esecuzione, realizzazione. La conseguenza è che gli studenti, in mancanza di una visione generale del problema, “subiscono” oggi la tecnica come un pesante compromesso, una sofferta dicotomia tra la soggettività dell’ideazione e l’oggettività della realtà materiale.
Il riconoscimento di un’ineliminabile materialità dell’architettura dovrebbe riportarci, invece, alla realtà concreta del nostro mestiere dalla quale occorre, oggi, ripartire. Perché credo che noi siamo di fronte a una potenziale rigenerazione dell’architettura di cui non sempre abbiamo piena coscienza. Oggi l’industria produce una sorta di seconda natura: non materiali, ma materia in parte sconosciuta nella quale la nostra coscienza dovrebbe riconoscere l’attitudine a far parte del ciclo dell’architettura. Siamo di fronte alle condizioni dell’uomo primitivo al cospetto dell’ambiente ignoto che lo circonda: può riconoscere nell’argilla l’attitudine a divenire mattone, alla pietra la disposizione a farsi parete, origine di una cultura plastico-muraria, distinguere nell’albero possibili piedritti e travi che propiziano il formarsi di un mondo elastico-legneo. E’ la coscienza dell’uomo che dovrebbe decidere oggi, ancora una volta, che quella materia diventerà “materia segnata”, materiale finalizzato dall’uso, designato da un progetto. Che non è semplicemente di trasformazione fisica! I materiali moderni lasceranno tracce se sapremo inserirli criticamente nel grande, vitale, continuo processo delle trasformazioni artificiali della natura, riconoscendone il profondo valore culturale.
Anche nella storia dell’architettura moderna, è il caso del calcestruzzo, i grandi mutamenti sono avvenuti attraverso un processo culturale, non semplicemente attraverso scoperte e invenzioni.
Non è un caso che la ricerca di François Hennebique, padre riconosciuto del cemento armato, sia iniziata dal lavoro di restauratore di cattedrali medievali, nel cuore stesso di un contesto pertinente al mondo gotico e all’area culturale elastico-lignea. Hennebique impiegava i primi elementi in calcestruzzo prefabbricati per sostituire travi di legno all’interno di sistemi discreti e seriali. Attraverso il rapporto diretto con i materiali, ha quindi progressivamente preso coscienza di come la nuova materia, una pietra artificiale, potesse dare origine, nell’unione col ferro, a un materiale differente e nuovo: di come tra i diversi elementi si potesse stabilire un rapporto di collaborazione e solidarietà. E di come la nuova solidarietà tra le parti desse origine alla trasmissione di nuove, più complesse sollecitazioni chiedendo che ogni elemento fosse maggiormente congruente e proporzionato al proprio ruolo, osservazione che ha permesso la soluzione dei nuovi sistemi iperstatici.
Congruenza e proporzione: gli stessi termini e criteri che l’architetto-artista dell’epoca, meno interessato ai problemi strutturali, impiegava nella composizione di facciate e piante, stavano per essere usati anche dagli ingegneri per il dimensionamento delle membrature, a dimostrazione della sostanziale unità dell’operazione progettuale. Le stesse definizioni potevano essere impiegate per leggere il graduale predisporsi alla collaborazione degli elementi dell’architettura e la loro progressione di organicità.
Io credo che la cultura architettonica abbia perso, allora, un’occasione di riconciliazione tra le sue due anime, tra la materialità della costruzione e l’astrazione del disegno artistico.
Alla fine dell’Ottocento, quando si sviluppavano gli studi sull’elasticità dei materiali sulla scia dell’interpretazione “architettonica” del problema proposta da Claude-Louis Navier, architetti e ingegneri non hanno saputo (o potuto) comprendere come il loro lavoro non potesse essere solo complementare, ma sostanzialmente identico.
Il termine fisico di “congruenza”, che gli ingegneri cominciavano a impiegare nella soluzione di problemi scientifici, legava insieme analisi del comportamento dei materiali e forma architettonica, sollecitazioni e deformazioni al disegno dell’opera. E altri aspetti della conoscenza scientifica sembravano propiziare una nuova unità di saperi che, sotto la spinta della specializzazione, percorrevano in realtà strade parallele e rigorosamente autonome. Come, ad esempio, la nozione di vincolo, che contribuiva a spiegare in termini razionali uno degli aspetti dell’idea di nodo che gli architetti avevano sempre percepito e definito in termini di linguaggio e codici.
Molte delle considerazioni sulla conformità e misura tra le parti di una costruzione elaborate per secoli dai trattatisti, trovavano, peraltro, un primo legame, seppure parziale, con la fisica e la matematica, dimostrando come intuizione e scienza potevano divenire due aspetti di uno stesso processo di conoscenza: espressione, appunto, dell’“arte della costruzione”.
L’inadeguatezza a comprendere questo momento di potenziale sintesi era, in realtà, conseguenza di una trasmissione dei saperi fondata su una scissione funzionale ai nuovi equilibri sociali ed economici, come Schopenhauer rilevava con profetica chiarezza .
Se volessimo davvero rinnovare le scuole di architettura, il loro studio dovrebbe indicare il ritorno alla realtà, dimostrare come la materia sia parte costituente dell’invenzione stessa. Il progetto come espressione artistica: non solo manifestazione romantica dell’io individuale, ma arte della sintesi, della capacità operante, insieme, di conoscere e interpretare.
Eppure, oggi, perfino negli studi specialistici sulla costruzione i termini fisici del problema direttamente legati alla forma sono sempre più mediati e nascosti dall’aspetto matematico. Vorrei concludere ricordando una conferenza al Politecnico di Milano di Edoardo Benvenuto, teologo e studioso di strutture, autore di singolari opere di filosofia della scienza nelle quali affermava che “… l’integrazione tra architettura e razionalità scientifica supera il momento strumentale e mira al significato stesso dell’opera architettonica.”
Sosteneva , Benvenuto, che l’architetto deve ritornare, richiamandosi a una sorta di nuova fisica aristotelica, al contatto diretto con le cose più elementari; che c’è un mondo vasto e nuovo da scoprire negli elementi semplici dell’architettura, nella trave e nel pilastro, nel loro senso costruttivo e simbolico, anche se sulla trave e sul pilastro da parte di fisici e ingegneri è stato ormai scritto tutto.

Call for paper CAUMME_PAUMME III

Caumme Paumme_poster_2016 copy

Authors are cordially invited to submit papers to the next Caumme III/PAUMME I symposium “Migration and the Built Environment in the Mediterranean and the Middle East”.

The symposium will take place in Naples, DiARC (Dipartimento di Architettura, Federico II University, Napoli, ITALY) on the 24th-26th of November 2016.
Abstract deadline: May 30th  2016

Info:

http://www.diarc.unina.it/index.php/12-iniziative/seminari-e-convegni/1124-call-for-papers-caumme-paumme-2016

LA METROPOLI FRUGALE

geronimo

di Giuseppe Strappa
in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2010

Un’intera letteratura, dai libri di fantascienza ai testi di design, aveva predetto che l’abitazione del domani avrebbe diffuso un lusso tecnologico con al centro l’uomo-consumatore. E invece si è capito anche da noi, come da tempo in altri paesi, che il futuro consisterà nel risparmio, in un riciclaggio totale, dai rifiuti al patrimonio edilizio. Nell’architettura di una metropoli «frugale».

Pensavamo che la casa del 2000 sarebbe stata governata da computer e pulsanti. E invece la nostra odissea comincia nello spazio della cucina invaso dalle buste: per la plastica e il vetro, per la carta, per l’«umido».

Guardo desolato la mia spazzatura e penso che non ci sono robot, che siamo tornati a consegnare i rifiuti a mano secondo i giorni e le ore dettati dalla raccolta differenziata: una busta a via delle Zoccolette, una a piazza Farnese, una davanti al Monte di Pietà.

Eppure questi sono i primi segnali, nella vita di tutti i giorni, di un fenomeno epocale che cambierà, nei prossimi anni, il nostro modo di abitare non solo la cucina ma tutta la casa, la città, la stessa terra.

Forse si sta per realizzare, in forme inattese, il sogno degli utopisti che immaginavano un mondo nuovo ed estremo fondato sul saggio impiego delle proprie risorse.

Come Paolo Soleri, il novantenne architetto visionario dell’«evoluzione cosmogenica» che ha costruito Arcosanti, piccola città iniziatica nel deserto dell’Arizona dove vive in organico equilibrio con l’ambiente. O Hassan Fathy, i cui magici villaggi, captando i venti e impiegando sistemi tradizionali di risparmio energetico, resistono alla perfezione, da oltre mezzo secolo, al torrido caldo egiziano.

È anche per merito di questi solitari profeti che tutto sta cambiando.

Così quei secchi di spazzatura in cucina potrebbero diventare perfino il seme di una nuova idea di bellezza: non quella delle cattedrali dello spreco, delle architetture tanto inutili nelle forme quanto spettacolari nei costi, ma quella dell’uso sapiente della natura e delle cose, della casa sobria, monade immersa armonicamente nel flusso delle energie universali. E forse capiremo di nuovo la poesia che contengono le cose essenziali e necessarie: la bellezza della frugalità.

CARATTERI DELL’ OPERA ARCHITETTONICA DI GIULIO MAGNI

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di Giuseppe Strappa

in AA.VV., Il Palazzo della Marina, Roma 1995

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La vasta opera dell’architetto Giulio Magni, uno dei contributi più significativi alla costruzione e al dibattito architettonico della Capitale alla fine del XIX ed agli inizi del XX secolo, può, a ragione, essere ritenuta esemplare del complesso passaggio dell’architettura romana alla prima fase della modernità, quando alla nozione tradizionale ed accademica di organismo architettonico (degli elementi, delle strutture, degli impianti architettonici derivati da un metastorico quanto inevitabile Museo della Storia) si va sostituendo una diversa, attuale ed originalissima, concezione critica dei caratteri degli edifici come portato di un processo in atto, che accoglie la trasformazione indotta dal mutare dei tempi come “incremento”, non sostituzione, di un patrimonio di conoscenze tecniche ancora operanti.

Lo stesso ambiente familiare, di cultura profondamente radicata nella tradizione romana, ha lasciato un segno importante nella formazione del giovane architetto, nato a Velletri il 1° novembre del 1859 da uno storico dell’arte, Basilio (1831-1925) autore, tra l’altro, di una Storia dell’Arte italiana dalle origini al secolo XX (Roma 1900, 1902) e di un saggio Sopra l’Architettura (Roma, 1876) e da Margherita Targhini, figlia di Pietro, alto funzionario della Segreteria di Stato e di Caterina Valadier, figlia dell’architetto Giuseppe Valadier e della marchesa Laura Campana.

I primi disegni di scuola mostrano la prematura vocazione dell’architetto romano alla deroga sottile, alla deformazione appena accennata dei canoni classici, insieme all’uso coerente della decorazione come strumento retorico teso a favorire la leggibilità dell’edificio. Si vedano gli elaborati a penna e acquarello per il concorso Poletti bandito dall’Accademia di san Luca nel 1881 (anno del diploma di Magni all’Accademia di Belle Arti) sul tema di “un battistero isolato da collocarsi di fronte ad una cattedrale del XV secolo”[1] : se paragonato ai disegni del vincitore Giovanni Busatti (col quale collaborerà agli esordi dell’attività professionale) autore di un progetto di stretta osservanza storicista, il disegno di Magni introduce nell’organismo ottagonale­­ della tradizione quattrocentesca varianti strutturali (come l’audace rapporto proporzionale tra la struttura portata della cupola e le strutture collaboranti dei portici) e decorative (come la disinvolta­­ collocazione delle statue di angeli in chiave agli archi di coronamento del tamburo) che dovevano sembrare sorprendenti nel quadro di una cultura accademica concentrata sulla rivisitazione filologica dell’antico. Autonomia intellettuale che si rilegge, ancora più marcata, nei rapidi disegni a matita e acquarello della prova ex tempore, seconda fase del concorso Poletti, che richiedeva lo studio di “una torre campanaria da collocarsi di fianco ad una cattedrale del sec XV e XVI”.

A soli vent’anni Magni compie le prime esperienze di cantiere con la sopraelevazione del convento all’angolo tra via Cicerone, via Belli e via Visconti, sovrapponendo all’organismo esistente, fortemente plastico-murario, portante e massivo, una semplice conclusione, portata e leggera, su due piani. La nuova struttura risulta virtualmente trilitica al piano più basso, con colonne binate alternate a pilastri tra i quali le finestre occupano l’intero specchio libero fornendo l’indicazione dello spazio vuoto, mentre al piano alto viene conclusa da archi ribassati che sostengono la copertura. La costruzione, appena increspata da un’astratta decorazione vegetale, è conclusa dalle falde nude della copertura a tetto priva di cornicione, mentre la vera fascia di unificazione è costituita dalla trabeazione continua al piano sottostante: un’architettura poco romana che, pur rispondendo ai criteri di relazione “necessaria” tra le parti dell’organismo, appare già sensibile alle innovazioni favorite dal clima eclettico postunitario e sembra anticipare quel modernismo discretamente cosmopolita che verrà introdotto a Roma a distanza di pochi anni (si vedano gli esempi di fine secolo come I’altana del villino Aletti di Giuseppe Sommaruga o la copertura del convento di Notre Dame des Oiseaux a piazza Galeno di Carlo Busiri Vici)[2].

Se Magni fornisce presto il proprio contributo al problema dei grandi lavori che si vanno eseguendo alla fine del secolo nella Capitale collaborando al lavoro di Giuseppe Sacconi per la costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II e partecipando, insieme a Camillo Pistrucci, con un discusso progetto al concorso per il Palazzo di Giustizia, è dal 1886 e, soprattutto, dal 1887 che inizia un intenso, concreto tirocinio progettuale segnato dall’apertura dello studio professionale in via Cernaia 51 e dalla presentazione al Ministero della Pubblica Istruzione i titoli accademici per l’iscrizione all’Albo degli Architetti di Roma.

In questi anni esegue un notevole numero di progetti per case di abitazione plurifamiliari che individuano un tipo edilizio di casa in linea a corpo doppio strutturale e triplo distributivo che si va consolidando nell’edilizia romana di fine secolo come conclusione di un lungo processo di trasformazione che parte dalla rifusione dei tipi unifamiliari di origine tre-quattrocentesca. Solo in questo periodo, del resto, quello della casa a in linea sul perimetro dell’isolato comincia ad essere un tema consueto per gli architetti romani: nei tre secoli che hanno preceduto l’unità d’Italia (dai tempi delle espansioni di Campo Marzio e Borgo Nuovo) il tessuto residenziale si era strutturato per trasformazione dell’edilizia preesistente, attraverso un processo di plurifamiliarizzazione, per molti versi spontaneo, dei tipi a schiera che spesso richiedeva più l’intervento del capomastro che dell’architetto. Se questo processo, ancora in atto alla fine del secolo, porterà il suo contributo leggibile alla formazione della casa in linea romana, manca ancora, nella città dei monumenti, una tradizione consolidata di tipologie abitative complesse di notevole mole intenzionalmente progettate.

Magni, come gli altri architetti romani incalzati dall’urgenza del problema della costruzione del nuovo tessuto della Capitale, affronta il tema dell’edilizia abitativa con lo spirito di chi progetta monumenti, secondo il ruolo tradizionale dell’architetto che disegna episodi urbani irripetibili. L’architetto romano di fine secolo ha, in realtà, ancora una stretta consuetudine con il disegno delle emergenze; quando questo ruolo si trasforma egli “… appropriandosi del problema del tessuto – come scrive Caniggia – del connettivo edilizio, delle case, pare che non muti affatto l’immagine che ha di sé. Può affermarsi che, paradossalmente quando progetta case tenda a produrre “altro”: altro e più sublimato prodotto, analogo a ciò che i suoi predecessori avevano per secoli ideato” [3]. Anche Magni tende a sovrapporre alla struttura rigidamente seriale (se si eccettua il frequente decremento dell’altezza del mezzanino) delle abitazioni plurifamiliari che gli vengono commissionate, la leggibilità gerarchizzata in fasce di stratificazione architettonica degli edifici specialistici, segnatamente del palazzo. Si veda ad esempio il disegno della facciata del fabbricato commissionato da Gregorio Spositi in Via Principe Umberto (1886), dove ad una pianta sostanzialmente razionale ed aggiornata, processualmente ricollegabile ai tipi in linea ottenuti nell’edilizia di base per rifusione di unità di schiera incrementate del vano scala, corrisponde una facciata che gerarchizza criticamente l’organismo edilizio suddividendo artificialmente i piani in basamento a bugnato che comprende il mezzanino, elevazione con due ordini di finestre (uno ad ordine completo ed uno ad asola, ad indicare l’unità della quinta “portata” dal basamento “portante”), serie di finestre alludenti ad una fascia di unificazione, sebbene inserite all’interno delle paraste, cornicione e conclusione ad attico che riprende l’ordine dei piani dell’elevazione. Da notare, in questo primo esperimento, come l’unione di due corpiscala, come in tutte le rifusioni spontanee o comunque tradizionali, comporti l’uso di interasse pari, con la formazione di una linea di specularità centrale che non consente l’allusione all’ asse accentrante tipico dell’edilizia specialistica, specie monumentale. Ma presto, per altri edifici per abitazione, viene introdotta una simmetria imperniata sull’ asse centrale: si vedano a questo proposito,la casa d’affitto Baldini e Battistelli a San Lorenzo, tra via degli Equi, via dei Rutili e via dei Volsci, le officine ed abitazioni per Ferdinando Pesler in lungotevere degli Artigiani, il fabbricato Fiorentini, fuori Porta Portese, il fabbricato Bellentani, poi demolito, in via Plinio, ai Prati di Castello, la facciata dei quali è organizzata intorno all’asse del portale d’accesso. Il primo di questi progetti affronta il difficile tema, che diverrà una costante della casa in linea romana, dell’edificio su corpo triplo rigirante, risolto qui ancora con una lieve gerarchizzazione dei vani angolari, leggibile sui prospetti laterali ma non nelle bucature, ad interasse unificato, del prospetto principale, e la formazione di spazi aperti interni intasati da due piccoli appartamenti.

A giudicare dai documenti rimasti, il periodo successivo al 1887, gli anni della grande crisi edilizia, sembra segnato da una drastica riduzione degli incarichi: nel 1889 una costruzione ai Parioli (fabbricato Bendio) e una casa al Vomero, a Napoli; negli anni successivi progetta Casa Fellini, tra via Salaria ed il prolungamento di corso Italia, e una casa d’affitto, molto celebrata dai pochi storiografi che si sono occupati dell’opera di Magni, in via S. Martino della Battaglia. Negli anni di crisi produttiva Magni comincia a guardare all’estero: risalgono al 1893 alcuni disegni conservati nella Biblioteca Comunale di Velletri per una chiesa e per l’Archivio di Stato a Bucarest.

Nel 1894 Magni si trasferisce a Bucarest con il compito di architetto capo del Municipio, incarico affidatogli in seguito al successo ottenuto nei concorsi intenazionali per il Parlamento e la Stazione Centrale della capitale rumena. A Bucarest Magni soggiorna per oltre dieci anni progettando una grande quantità di edifici, tra i quali il Palazzo Comunale, I’Archivio di Stato, i Magazzini Comunali, la Borsa di Commercio, la Scuola Cattolica, il Seminario Centrale Ortodosso, oltre alle abitazioni di importanti esponenti della vita amministrativa rumena, delle gerarchie militari, del mondo professionale [4].

Attraverso la cultura architettonica balcanica, periferica ma ag­giornata, Magni entra in contatto con la ricerca mitteleuropea, con i nuovi linguaggi che si vanno sperimentando attraverso le diverse versioni nazionali del modernismo: la secessione, lo jugendstil, il liberty. Nella Romania di fine secolo appare evidente l’influenza esercitata dai legami culturali e politici con la Francia, testimoniata dalla presenza di numerosi architetti francesi e dal favore incontrato dall’art nouveau. All’arrivo di Magni a Bucarest uno dei più importanti edifici in costruzione, la Banca Nazionale, era stata progettata dal francese Bernard Cassien, mentre alcuni architetti romeni si erano formati presso scuole francesi (Mincu, Adronescu ecc.). L’amicizia con Raimondo D’Aronco, altro inquieto “architetto di ventura” che percorre l’Europa e la Turchia alla ricerca di lavoro, lo conferma nella necessità di sperimentare nuove strade.

E infatti la ricerca dell’architetto romano oscilla in questo periodo tra lo storicismo delle opere pubbliche maggiori ed il modernismo delle occasioni professionali private, le abitazioni per i burocrati, militari, borghesi dell’establishment rumeno. Nel progetto per il Palazzo Comunale di Bucarest, ad esempio, si fa esplicito riferimento al gotico veneziano più noto ed esportabile, quello della Ca’ d’Oro o del Palazzo Ducale, con una ricerca inedita, tuttavia, nei monumentali spazi interni; nel mercato coperto Hala Traian vengono adottate le coperture metalliche degli edifici utilitari sperimentate nei paesi europei più industrializzati, raccordate ad un involucro murario imponente e razionale; nella casa in Calei Victorei impiega la grande finestra circolare del liberty internazionale, dimostrando tuttavia un’adesione al modernismo “assai condizionata e parziale”, come rileva Portoghesi.

Mentre in Italia gli viene riconosciuta, secondo le nuove leggi sulI’esercizio della professione, la laurea in Architettura per equipollenza di titoli ed è nominato accademico di San Luca, non deve mancare al nostro una certa nostalgia di casa, se a Bucarest fonda e dirige, in quegli anni, la Fondazione Dante Alighieri rumena.

Va notato, per inciso, come lo stato attuale degli edifici costruiti nel periodo rumeno di Giulio Magni non sembri dei migliori: alcune opere sono andate distrutte, altre, come l’edificio della Vecchia Dogana, riferibile a quel clima di costruttivismo storicista che darà con Villa Marignoli l’esito più maturo, è stato parzialmente distrutto da un incendio nell’estate del 1990 ed era, fino al marzo del ’92, in condizioni di totale abbandono; il palazzo del nunzio papale in via Pictor Stahi è stato oggetto di estese modernizzazioni, a partire dal 1991, con sostituzione di alcuni elementi architettonici.[5]

Nel 1904 prende di nuovo “stabile dimora a Roma” come testimonia una lettera del marzo al direttore dell’Accademia di San Luca.

Nel biennio 1906-7 diviene presidente, e in quello seguente vicepresidente, dell’Associazione Artistica tra i Cultori di Architettura , della quale era stato, prima della partenza per la Romania, tra i fondatori insieme a Basile, Koch, Ojetti, Piacentini, Pistucci, Sacconi[6].

In questo ambito Magni si batte per la libera concorrenza delle idee, contro la pratica dell’incarico diretto da parte delle amministrazioni pubbliche e il 28 aprile 1906 chiede, senza esito, che venga bandito un concorso pubblico per l’assegnazione dell’incarico di progettazione del nuovo Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio in via XX Settembre. Interverrà in seguito, nella polemica sorta sull’architettura definitiva della facciata dell’edificio, quando al progetto di Odoardo Cavagnari, ingegnere del Genio Civile, sarà opposta l’alternativa della proposta di Giuseppe Castellucci, architetto fiorentino esperto soprattutto in restauri. La commissione incaricata di prendere una decisione in merito (alla quale partecipano, insiema a Magni, Giuseppe Marmiroli, Corrado Ricci e Pio Piacentini), opterà per il secondo progetto, ritenuto “più rispondente allo stile classico”, come si legge nella relazione presentata nel febbraio del 19O9 al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.

Le opere che vengono commissionate a Magni negli anni immediatamente successive al rientro in Italia sono quasi unicamente ville per l’alta borghesia romana.

In questa fertile stagione progetta alcune delle sue opere più significative, dove la memoria degli esperimenti modernisti, ancora viva, si confronta col conservatorismo endemico del clima romano. Del quale però coglie gli aspetti meno scontati, quelli turbati dal contatto con le vicende internazionali, come nel villino Boni (poi De Robertis, poi Istituto Galileo Ferraris) nel quale, alla prima stesura del pittoresco progetto intrisa di reminiscenze mitteleuropee, succede una variante, realizzata, dove compaiono due grandi, stralunate volute barocche sui lati della facciata principale, quasi un ironico ripensamento sugli obblighi imposti dalla condizioni al contorno. O nella villa Marignoli in Via Po, all’angolo con corso d’Italia, del 1907, dove sono evidenti non solo gli echi del costruttivismo storicista di stampo mitteleuropeo sperimentato attraverso le declinazioni rumene, ma anche del lascito dimenticato delle opere romane di Edmund Street.

Nel 1908 Magni progetta, insieme a Giulio Podesti, il mai realizzato Stadio Nazionale nell’area del Circo Massimo, testimonianza di un’accezione retorica e mitizzata della romanità che, ancora agli albori agli inizi del secolo, troverà presto ispirati cantori. I due architetti ripropongono, in forma di libera ricostruzione archeologica, l’antico tracciato del complesso romano, con la sostituzione di un ingresso monumentale ai carceres del circo, l’eliminazione dell’arco trionfale sul lato curvo, e l’imposizione di un immenso colonnato emergente sul perimetro, nella parte più alta delle gradinate. Ma pochi anni dopo riemerge, prepotente, l’amore di Magni per la Roma del XVII e XVIII secolo, quella degli stucchi, delle deroghe eretiche ai canoni classici, delle infinite variazioni del linguaggio sovrapposte alla durevole struttura del tipo edilizio: a partire dal 1911 viene pubblicato a Torino Il Barocco a Roma nell’architettura e nella scultura decorativa, testo fondamentale per la diffusione di esempi architettonici sei-settecenteschi negli studi degli architetti romani.

Il 13 febbraio 1912 Magni accetta l’incarico di progettare la nuova sede del Ministero della Marina, opera che, conclusa nel 1928, costituirà il suo testamento architettonico. Non sono molte le opere importanti delle quali si occuperà in futuro: il grande Ministero lo assorbirà in modo prevalente per il resto della vita.

Nel gruppo di edifici del Testaccio I°, inaugurati nel giugno 1913 e per molto tempo ritenuti sua opera esclusiva, Magni sembra sia intervenuto su planimetrie elaborate dagli uffici tecnici dell’Istituto Case Popolari [7] ed il suo contributo sembra limitato alla composizione delle facciate, di singolare semplicità ed eleganza.

Negli anni successivi Magni si dedica alla progettazione di lottizzazioni e quartieri residenziali (via Paisiello, via S. Nicola da Tolentino ecc.).

Legato alla ricca famiglia Almagià, progetta per loro il villino Saul Almagià all’angolo tra via Romagnosi e via Mancini (dove ricompaiono, forse propiziati dalla vicinanza del grande edificio in costruzione, echi di alcuni temi del Ministero), il completamento della villa Almagià – Bondi in via degli Scialoja (iniziata nel 1910) ed il sepolcro Almagià Bondi. Indubbiamente la tensione, l’ansia di ricerca degli anni iniziali ha ceduto ad un professionismo composto ma tuttaltro che banale, dove la memoria, ormai lontana, delI’esperienza modernista viene riassorbita in composizioni consuete che non si distaccano se non per la cura del dettaglio, l’equilibrio raffinato delle proporzioni, dal coro delle costruzioni della Roma agli inizi del secolo, con l’eccezione della Facoltà Teologica Valdese in via Luigi da Palestrina, angolo via Cossa a Roma, dove l’impegno a differenziare il carattere dell’edificio dai temi degli edifici religiosi cattolici produce esiti inediti.

La chiesa Regina Pacis ad Ostia, inaugurata nel dicembre del ’28 poco più di un anno prima della morte di Magni, è un esempio estremo di questa prassi architettonica priva di slanci, rivolta verso una solennità non di maniera, dove la quinta della facciata conclude la scalinata monumentale di accesso con un grande arco vetrato, reminiscenza di quella finestra termale che sembra essere uno dei temi favoriti dei progetti per il Lido di Roma agli inizi del secolo. Portata ad esempio delle tendenze conservatrici di Magni, quest’opera, bisogna tener conto, era stata ideata, col sostegno appassionato del vescovo di Ostia Vannutelli, già durante la guerra mentre Magni aveva completato disegni esecutivi e computi metrici fin dal 1919.

L’opera di Giulio Magni non ha incontrato un particolare successo critico e non ha goduto, riteniamo, dell’attenzione che pure meriterebbe.

A partire dalle osservazioni rilevate nel pionieristico saggio di Paolo Portoghesi, La vicenda romana, nel 1959 [8], si sono succeduti nel tempo studi (mai peraltro numerosi né ampi) che hanno messo a fuoco il ruolo fondamentale di un corpus di opere, progetti, disegni singolare per continuità e qualità degli esiti. Nell’indagine di Portoghesi, puntualizzata nel 1968 nell’ambito più generale di uno studio sulla cultura romana dell’eclettismo [9], I’importanza di Magni è rimarcata dall’individuazione di alcuni momenti o fasi di sviluppo dell’attività dell’architetto, che rispecchiano in qualche modo le incertezze e gli esperimenti generosi dell’architettura romana a cavallo del secolo.

Secondo una tesi che fornirà le coordinate interpretative dell’opera dell’architetto in quasi tutti gli studi successivi, Portoghesi ha letto nella parabola professionale di Magni un primo momento di incertezza nel periodo formativo alimentato da un “un’inquietudine” compositiva che non raggiunge uno sviluppo formale coerente, cui succede la fase dell’attività internazionale, della maturazione avvenuta a contatto con la cultura mitteleuropea. Questo periodo di ricerca prelude alla stagione più fertile dell’attività romana dell’architetto che si conclude con il periodo accademico delle ultime opere.

Un “ripiegamento” sul quale, in realtà, il giudizio non può che restare aperto, investendo il senso stesso dell’interpretazione del ruolo della tradizione nella pratica di architettura dei protagonisti romani nella delicata fase di passaggio alla modernità.

Il lungo disinteresse per l’opera del Magni si è interrotto solo in tempi recenti, come testimonia lo stato di abbandono in cui ha versato per decenni l’archivio di disegni, appunti, lettere depositato nei magazzini della biblioteca comunale di Velletri, del quale solo nel 1976 fu deciso un radicale riordino. Si deve al lavoro di appassionati cultori e all’opera di sistemazione di Sandra De Puppi se i circa 3000 disegni hanno trovato una catalogazione adeguata all’importanza delle testimonianze conservate. Gettando nuova luce e ponendo nuovi problemi sulla magmatica attività di un personaggio complesso e contraddittorio.

L’interesse per la figura di Giulio Magni é stato ripreso soprattutto dalle note di Giuseppe Miano [10] e di Accasto, Fraticelli, Nicolini. I quali ultimi, nel capitolo dedicato al ” liberty ufficiale” del loro volume su Roma capitale [11] mettono in rilievo l’evidente transizione dal coraggioso progetto per il Parlamento del periodo di più intensa ansia di rinnovamento dell’architetto, alle tematiche ”moderate” tipiche dell’ambiente romano agli inizi del XX secolo.

Più recentemente l’enigma della lettura dell’opera di Magni e del ruolo che in essa ebbe la progettazione del Ministero della Marina é stato affrontato nelle riflessioni di Gabriele Morolli sulla linea interpretativa di un Magni protagonista della “Secessione Meridionale” dove il Classicismo Eclettico dell’ultima stagione dell’architetto viene visto come cosciente volontà di raccordare, all’interno di una sintassi consolidata, declinazioni degli elementi architettonici classici assolutamente inedite: “che si cerchi nel repertorio del Classicismo – osserva il Morolli – inteso anche nel senso del suo piú ampio spettro semantico e cronologico e topografico, una sola forma che risulti modello imitato in questo caso dalle invenzioni linguistiche del Magni… Non la si troverà” [12].

Un primo studio in grado di fornire un’idea della vastità dell’opera di Magni si trova nel volume da me curatoTradizione e innovazione nell’architettura di Roma Capitale. 1870-1930, Roma 1989.

Uno studio condotto su materiali in parte inediti è il mio Il Ministero della Marina e l’opera architettonica di Giulio Magni, in “Edilizia Militare” N° 29-31 1991.

Il regesto che segue, senza avere la pretesa della completezza, può costituire un utile orientamento nello studio dell’opera di Giulio Magni .

Regesto dei progetti e delle opere .

1880

Sopralevazione di un convento tra via Belli, via Cicerone e via Visconti.

1881

Concorso Poletti di Architettura; tema: “Battistero isolato da collocarsi di fronte ad una cattedrale del XV secolo”; prova ex tempore: “Torre campanaria da collocarsi di fianco ad una cattedrale del XV-XVI secolo” (secondo premio) .

1883-87

Concorso per il Palazzo di Giustizia di Roma (con C. Pistrucci), progetto premiato .

1888

Secondo concorso per il Palazzo del Parlamento a Magnanapoli, Roma (progetto menzionato) .

1886

Fabbricato Pietroni in corso d’Italia tra Porta Salaria e Porta Pia, Roma (in collaborazione con G. Bussatti).

Casa d’affitto Baldini e Battistelli tra via degli Equi, via dei Rutuli e via dei Volsci, Roma .

Fabbricato Spositi, isolato X, in via Principe Umberto, Roma.

1887

Fabbricato Bellentani, via Plinio, via Virgilio, Roma (demolito).

Officine Pesler con annesse abitazioni per operai in lungotevere degli Artigiani, Roma .

Fabbricato Fiorentini, fuori Porta Salaria, Roma.

Case Zappalà, fuori Porta Pia, Roma .

Proprietà Poggi in viale della Regina, Roma.

Proprietà Poggi in via Salaria, Roma.

1889

Casa al rione Vomero, Napoli.

Archivio di Stato, Bucarest .

Fabbricato Bendio in viale Parioli, Roma.

1890

Casa Fellini tra via Salaria e il prolungamento di corso d’ltalia, Roma .

1893

Chiesa a Bucarest .

Concorso per la stazione centrale di Bucarest (secondo premio) .

1894

Casa d’affitto in via S. Martino della Battaglia 6, Roma.

Ospedale Comunale, Bucarest.

1895

Municipio a Bucarest.

Villa Scolari-Trolli, Iassi (Moldavia).

Mercato coperto Hala Trajan a Bucarest.

Villino proprietà ing. Almagià alla Palombina, Ancona, (1895-1905).

1897

Casa per l’ing. Popovici in via Venerei, Bucarest .

1898

Casa per l’ispettore generale C. Mironescu, Bucarest.

Casa per l’ ispettore generale Elie Radu, Bucarest.

Seminario Centrale Ortodosso in viale Maria, via Viilor, Bucarest .

Casa per il generale Demosthen, via Victoriei, Bucarest.

Stazione “Curtea de Arges”.

1899

Casa del dott. Andronescu, Bucarest .

Villa Scolari-Trolli, Jassi (BSM-BCV).

Sepolocro della famiglia Camitz, Bucarest.

1900

Abitazione dell’arcivescovo Mons. De Hornstein (forse in collaborazione), Bucarest .

Proprietà Almagià alla Palombina, Ancona .

1902

Restauro della proprietà B. Musu in via Victoriei, Bucarest.

1904

Villino Boni (poi De Robertis poi Istituto Galileo Ferraris), via Po 8, attuale via Aniene, Roma .

Concorso per il Palazzo del Palarmento, Bucarest (terzo premio) .

Proposta per tre villini di proprietà Almagià sull’area di Villa Ludovisi, Roma .

Barriera di Porta Romana, Velletri.

Villino Volterra presso la via Appia, Albano.

1905

Proprietà Aboaf al Saltino, via Corradi, Firenze .

Edificio per abitazione in via Lepsius, Alessandria D’Egitto .

Proposta per il Palazzo del Parlamento a piazza Colonna, Roma .

1906

Concorso internazionale per il Palazzo della Pace, L’Aja.

Villa Pacelli in via Aurelia , Roma.

1907

Studio per una galleria a piazza Colonna per gli imprenditori ingg. R. Penso e A. Minozzi, Roma .

Fabbricato Ranieri in via Cavour, Roma .

Villa Marignoli, via Po angolo corso d’Italia , Roma .

Ristrutturazione interna del villino Radwill, via Boncompagnl 22, Roma .

Villino De Orestis, Roma .

1908

Progetto per museo di Belle Arti, Roma.

Progetto per uno stadio nazionale sull’arena del Circo Massimo, Roma.

Ampliamento di Villa Pacelli (poi Gerini) in via Aurelia, Roma.

1909

Stazione doganale e di confine a Primolano.

.

1910

Villa Almagià (con annesse scuderie e autorimessa, demolita) sul lungotevere Flaminio, angolo via Fausta, attuale via Scialoja , Roma .

Abitazione del portiere della villa alla Palombina, Ancona.

Case popolari a Testaccio, Roma .

Sala ristorante annessa all’Eden Hotel, proprietà Almagià, in via Ludovisi, Roma.

1911

Villino Gizzi, Anzio .

Concorso per il Palazzo dell’Esposizione Internazionale di Belle Arti a Roma (progetto premiato).

Progetto di fabbricato per la Società Anonima “Old England”, Roma.

Domanda per un villino in via Mancini angolo via Romagnoli, Roma.

1912

Serra di Villa Almagià in via Scialoja (demolita), Roma .

Ministero della Marina, lungotevere Flaminio.

1913

Edificio (non identificato) a Velletri .

1914

Sitemazione dell’area di fronte al Teatro Argentina, Roma .

Sistemazione del Piazzale della Stazione Termini e zone adiacenti, Roma .

1915

Cinematografo per la Soc. Romana Cementi Armati (con l’ing. Provera), Frascati.

1916

Chiesa Regina Pacis, Ostia Lido .

1917

Padiglione ad uso magazzini, Fiuggi

1919

Proposta all’I.A.C.P. per un nucleo di case economiche presso Sant’Agnese, Roma.

1920

Fabbricati angolo in via G. d’Arezzo, via del Cavaliere, Roma.

Palazzina F.lli Sonnino in via Spontini, Roma .

Fabbricato S.A.I.E. in via S. Nicola da Tolentino, Roma .

Fabbricato S.A.I.E. in via Paisiello, Roma.

Palazzina S.A.I.E. in via Monteverdi, Roma.

Facoltà Teologica Valdese in via Cossa (progetto soluzione A e B), via Luigi da Palestrina, Roma.

1923

Villino Almagià in via Mancini, angolo via Romagnosi, Roma.

1924

Fabbricato Cesare Ratta in lungotevere degli Anguillara, Roma.

Villa Almagià-Bondi a via Scialoja in lungotevere Arnaldo da Brescia, Roma .

1925

Portineria e recinzione della proprietà Almagià-Bondi in via Scialoja, Roma.

Lottizzazione in corso Trieste, viale Gorizia, via Ajaccio, via Corsica, Roma .

Accademia Rumena a Valle Giulia, Roma .

Opere senza datazione

A Roma:

Fabbricato, via Nomentana 235 .

Convento Suore Carmelitane .

Convento, Ostia Lido .

Due villini, Ostia Lido .

Cappella Molinari, Campo Verano.

Altare, Chiesa di S. Patrizio .

Altare maggiore, Chiesa di S. Maria del Popolo

Sepolcro Angelici, Campo Verano

Sepolcro Almagià-Bondi .

Progetto per la nuova sede dell’Istituto

delle Belle Arti .

Progetto per la caserma del Corpo Reale Equipaggi annessa al Ministero della Marina.

Sistemazione dell’area Chigi.

Palazzo Pacelli.

Progetto per la Camera dei Deputati.

Fabbricato Lelli.

Fabbricato della S.A.C.I.R. in piazza Marmorata.

Fuori Roma:

Dogana Vecchia a Bucarest .

Hotel De Ville, Bucarest .

Proprietà Lahovaru, Bucarest .

Magazzini generali Entrepots, Bucarest.

Borsa di Commercio, Bucarest.

Scuola Cattolica di C. Calarasilor, Bucarest .

Scuola Mavrogheni pass. Kiseleff, Bucarest .

Casa Sternberg, boul. Elisabetta, Bucarest .

Progetto della “Scola Normalia de Istitutori” a Bucarest .

Ristrutturazione del Villino Gatteschi ad Alessandria d’Egitto .

Proprietà Vaccaro, Sofia .

Stazione ferroviaria centrale a Velletri

Monumento ai caduti, Velletri .

Sistemazione di piazza Romana, Frascati .

Sistemazione dell’area davanti a Villa Aldobrandini, Frascati.

Casinò e teatro, Fiuggi.

Sistemazione della zona termale, Fiuggi.

Ristorante, Fiuggi.

Villino Aboaf, Vallombrosa .

Chiesa cattolica S. Costanza.

Banca, S. Benedetto del Tronto .


[1] Magni ottiene il secondo premio ex aequo con Manfredo Manfredi . Cfr.Archivio storico dell’Accademia di San Luca, disegni nn. 1255-1261.

[2] V. Giuseppe Strappa, La continuità con la tradizione nell’edilizia romana del ‘900, in G.Strappa (a cura di) Tradizione e innovazione nell’architettura di Roma capitale. 1870-1930, Roma 1989.

[3] Gianfranco Caniggia, Permanenze e mutazioni nel tipo edilizio e nei tessuti di Roma (1880-1930), in Giuseppe Strappa (a cura di), Tradizione e innovazione …, cit., , pag. 19.

[4] Si veda in proposito Progetti e lavori eseguiti a Bucarest, Roma 1903, raccolta di foto delle opere rumene di Magni.

[5] Notizie gentilmente fornite dal prof. D. Derer, della Soprintendenza dei Monumenti Storici di Bucarest.

[6] Dal ’91 al ’93 ne era stato segretario.

[7] Cfr. Livio Toschi, Dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in AA.VV., IACP di Roma, tra cronaca e storia “, Roma 1986, pp. 134-135. Si noti, comunque, che presso la Biblioteca Comunale di Velletri sono conservati numerosi disegni e studi di piante con annotazioni di Magni (cod.1185-1223).

[8] Paolo Portoghesi, La vicenda romana, in “La Casa”, 1959.

[9] Paolo Portoghesi, L’Eclettismo a Roma, Roma, 1968.

[10] Di Giuseppe Miano si veda lavoce “Magni” nel terzo volume del “Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica” e la scheda relativa a Giulio Magni nel saggio Figure e voci per la città capitale, contenuto in: AA.VV., Catalogo della mostra Roma Capitale 1870-1911- Architettura e Urbanistica, Roma, 1984.

[11] Gianni Accasto, Vanna Fraticelli, Renato Nicolini, L ‘architettura di Roma Capitale 1870-1970, Roma, 1971.

[12] Gabriele Morolli, IlMinistero della Marina, in: Franco Borsi, Gabriele Morolli, I Palazzi della Difesa, Roma, 1985, pag. 165.

LA NOZIONE DI RECINTO NELLA LETTURA DEL PALAZZO ITALIANO

PROF. GIUSEPPE STRAPPA

Ca' Donà  Ca' Loredan  Palazzo Grimani - Giustinian

Ca’ Donà                                                                                    Ca’ Loredan                                    Palazzo Grimani-Giustinian

 

Le permanenze della nozione di recinto nel rapporto tra edilizia di base e specialistica sono a volte molto più diretti di quanto si potrebbe pensare dalla semplice analisi morfologica. Un esempio illuminante è costitutito dalla permanenza nei tipi specialistici dell’impianto a domus , le cui dimensioni tipiche legano il recinto edilizio al più generale sistema di partizione del suolo nel mondo romano, dimostrando la sostanziale continuità del processo di trasformazione del territorio dal Tardo Antico  al Medioevo.

La misura base dell’heredium  (240X240 piedi romani), derivato per frazionamento decimale della centuriatio, origina l‘actus (120X120 piedi), la metà del cui lato (60 piedi = 17,70 metri ) costituisce la misura base del fronte del lotto sul quale viene impiantato il recinto della domus. Si noti come tanto l’etimologia del termine latino “heredium”, quanto quella del termine italiano “lotto” (derivato dal franco lôt ) indichino la nozione di eredità, di bene trasmesso con continuità. All’interno delle misure della partizione del terreno, nella trasformazione della domus  elementare ricorrono i principi di nodalità e assialità, margine e linea dividente associati alla nozione di recinto.
La domus da luogo, infatti, tanto a filoni tipologici specialistici quanto a plurifamiliarizzazioni dequantificandosi in unità di schiera monocellulari (pseudoschiere) mantenendo, tuttavia, i propri principi generatori legati all’uso dello spazio recintato. Caso esemplare è costituito dalla casa veneziana, le cui matrici tipologiche sono profondamente radicate nella Pianura Padana romanizzata.
Le dimensioni ricorrenti riscontrabili tanto nell’utilizzazione delle terre emerse quanto nella costruzione del suolo artificiale sul quale viene edificata la domus unifamiliare veneziana deriva   dalla dimensione canonica di metà actus, oppure (fronte di 40 pedes) , direttamente, dal frazionamento dell’heredium in tre parti secondo una direzione (due strigae  intervallate da spazio libero) e in sei secondo l’altra, che da origine all’aggregazione ricorrente a margini quadrati sullo spazio comune del “campo”.  Schematizzando un processo assai complesso, i lotti di dimensioni maggiori vengono disposti di preferenza col lato lungo a nord in modo da avere il passaggio acqua (rio) terraferma  parallelo al lato occupato dalla prima edificazione che si dispone secondo il tipico isorientamento rivolto a sud. Il percorso interno viene nel tempo coperto dando origine al “portego” (porticato) che geometrizza il percorso e da inizio alla formazione dell’asse, polarizzato ai due estremi dagli ingressi. La successiva edificazione avviene sul lato rivolto a sud, a partire dal percorso esterno a maggiore nodalità, secondo il processo tipico della tabernizzazione (Caniggia-Maffei 1976) con la formazione delle linee dividenti interne complementari all’asse accentrante. Questo spazio interno assume fondamentalmente due ruoli in funzione delle trasformazioni economiche e sociali, già avanzate nel XII secolo, che inducono alla differenziazione del tipo a domus  in residenza signorile o palazzo, da una parte, o alla sua suddivisione in abitazioni per le classi a basso reddito, dall’altra. Nel primo caso si forma lo spazio nodale dell’edifico specialistico, la “sala veneta” leggibile anche all’esterno, attraverso la polifora, come  spazio in origine aperto, trasparente; nel secondo si forma il percorso interno (calle), asse dell’aggregazione a schiera.

La leggibilità delle facciate che deriva da questo processo, tanto nella casa-fondaco bizantina, che gotica, che nei successivi tipi rinascimentali, rivela immediatamente margini, asse accentrante, spazio nodale, linee dividenti.  In particolare lo spazio b (v. disegno) individuato dalla polifora centrale (trasparente, con elementi portanti e non chiudenti) risulta processualmente derivato da uno spazio aperto, mentre il costruito individuato dalle pareti murarie a e c laterali (opache, portanti e allo stesso tempo chiudenti) sono derivate dalle prime fasi di edificazione. Si noti come le pareti a e c siano di dimensioni dissimmetriche nel caso di edifici direttamente derivati dall’impianto a domus, mentre queste dimensioni divengono simmetriche quando il tipo ereditato è individuato da edifici criticamente progettati in periodo  rinascimentale. Risultano spesso chiaramente leggibili, come eredità del carattere elastico ligneo dell’area veneta, i nodi tettonici verticali A e B (spesso paraste) od orizzontali D (marcapiani). L’intera polifora viene considerata come limite di uno spazio virtualmente aperto, per cui non deve sorprendere che (carattere comune, peraltro, all’area gotica) l’asse accentrante C possa incontrare, a volte, il pieno di un elemento verticale.

3.  Il recinto, in base a quanto detto, può essere definito non solo come risultato dell’atto di avvolgere con una struttura continua una porzione limitata di territorio, di terreno, di superficie muraria (come è evidente nella casa veneziana fondata su suolo artificiale che costituisce esso stesso recinto, o in filoni tipologici  come il castrum , il praetorium, il forum, che mostrano la presenza della nozione di recinto come spazio fisicamente concluso) , ma anche come forma simbolica, risultato dell’ atto di definire uno spazio convenzionale all’interno del quale insiemi di elementi, strutture, sistemi,  producono, in modo relativamente autonomo e leggibilmente isolabile, i meccanismi di centralità, perifericità, nodalità, antinodalità: esso può costituire lo strumento con il quale definire la scala della lettura in funzione della gerarchizzazione delle parti costituenti l’organismo.
La nozione di recinto, in altre parole, non è definibile semplicemente attraverso la presenza di margini ma implica, unitariamente, le nozioni complementari di  percorrenza e quelle, correlate, di nodalità e centralità. Possiamo allora stabilire che esistono caratteri comuni alla nozione di recinto alla scala edilizia (esemplificata dalla domus) ed alla nozione di recinto alla scala aggregativa (esemplificata dal percorso e dalla fascia di pertinenza ad esso associata nelle aggregazioni di schiere)
L’utilità di questa definizione è mostrata dalla lettura della formazione dell’isolato, la cui analisi spesso non può essere riferita allo spazio interno fisicamente perimetrato dai confini delle strade (se non nella fase di progetti intenzionali nei quali, spesso, l’isolato si identifica con l’edificio) ma ai percorsi. Lo studio della “contrada”, ad esempio, nel caso di tessuti di case a schiera o pseudoschiera (sul tipo derivato dal consumo della domus che abbiamo riscontrato a Venezia) formatisi processualmente, sostituisce quella di isolato, implicando strumenti di lettura molto diversi. La nozione di recinto può essere applicata all’insieme costituito dall’aggregazione sui due lati del percorso e dalle relative aree di pertinenza e dai percorsi che le limitano :
– percorso accentrante, costituito dallo spazio libero tra le aggregazioni, che diviene asse accentrante  in quanto geometrizzazione di un moto, sede di nodalità lineare, particolarmente evidente nel caso di percorsi pianificati e intenzionalmente progettati;
– margini dell’aggregato ,   non necessariamente rettilinei, costituiti dalle linee dividenti esterne alle due fasce di pertinenza, sede di antinodalità lineari (Caniggia 1979, p.171); tali linee dividenti sono costituite dai confini delle aree di pertinenza o dalle pareti di divisione tra due fasce di costruito pertinenti a percorsi diversi.

Margini dell’organismo aggregativo : P.M. Percorso matrice; P.I. Percorso d’impianto edilizio.
A -A- percorso sede di nodalità lineare; B – Linee dividenti;

Questa schematizzazione è valida per tessuti elementari assolutamente seriali nei quali non si è ancora sviluppata l’edilizia su percorso di impianto edilizio; in realtà le varianti di posizione generate nei nodi dei percorsi, formando processi di intasamento, rendono più complessa la lettura dei margini. Tuttavia essa ci è utile per comprendere l’analogia di comportamento tra edilizia di base ed edilizia specialistica, che dai tessuti mutua la gerarchia dei percorsi, le forme di aggregazione dei vani, le dimensioni  fondamentali della cellula elementare.

A- ribaltamento dei percorsi nel tipo di palazzo romano e fiorentino; B- esempio di processo di ribaltamento dei percorsi (Collegio della Sapienza a Roma): B1 formazione del percorso interno polarizzato dalle due scale; B2 formazione del recinto, raddoppio del percorso e formazione del percorso ortogonale; B3 conclusione e formazione della cappella nodale di S.Ivo.

I tipi specialistici seriali, in base alle considerazioni esposte, sono caratterizzati dalla ripetizione in serie dei vani  paritetici che li costituiscono o da una gerarchizzazione che segue leggi di specializzazione analoghe a quelle degli aggregati urbani: varianti della serie nei nodi, nodalità e antinodalità, derivanti dalla posizione reciproca dei vani aggregati e dalla posizione rispetto ad assi di percorrenza.

 

Note

1. L’aggregazione dei vani avviene infatti, nei tipi specialistici seriali, attraverso il ribaltamento all’interno dell’edificio di una struttura di percorsi analoga a quella dei tessuti.  Nella trasformazione dell’aggregato in edificio  si ribaltano, di conseguenza, anche i margini del nuovo recinto che da aggregativo diviene edilizio.
2, La comprensione del  processo formativo del tipo dovrebbe indurre ad alcune riserve verso progetti basati su affinità che riguardano solo l’aspetto dell’involucro murario. Si noti come l’intervento di Ignazio Gardella alle Zattere (1954-58), ad esempio, molto lodato per la sensibilità con la quale aveva inserito un opera moderna nel linguaggio veneziano, rivela, sotto l’aspetto della corrispondenza tra tipo, organismo e leggibilità, un atteggiamento essenzialmente imitativo, più che di reale continuità, nei confronti del costruito.
Riferimenti bibliogr. :
G. Strappa, The notion of enclosure in the formation of Special Building Type, in AA.VV., Typological Process and Design Theory, MIT, Cmbridge 1998.
G. Strappa, L’architettura come processo, Franco Angeli, Milano 2014