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UTILITA’ DEI DISEGNI URBANI DI SAVERIO MURATORI

di Giuseppe Strappa

presentazione del libro

Marco Maretto, SAVERIO MURATORI. IL DISEGNO DELLA CITTA’, Francoangeli, Milano 2012

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Il primo dato che emerge con chiarezza dallo studio di Marco Maretto sui progetti urbani di Saverio Muratori è che, contro il luogo comune di un suo aristocratico distacco rispetto all’ambiante culturale e professionale in cui opera, l’architetto modenese appare profondamente immerso nello spirito del tempo, partecipa con passione ad esperienze dell’architettura italiana che, per molti versi, concorrono a formare un patrimonio collettivo.
I progetti eseguiti prima della guerra, come i piani per Aprilia o Cortoghiana, costituiscono la versione di matrice “nordeuropea” di una comune sperimentazione sull’architettura razionale. L’esperienza dell’INA-Casa nel dopoguerra segna una fase di incertezza e traumatiche interruzioni delle ricerche precedenti comune alla maggior parte degli architetti del contesto romano (si veda il caso esemplare di De Renzi, col quale Muratori ha condiviso molte delle esperienze di questo periodo). Esperienza che, negli anni  della Ricostruzione, è tanto pienamente inserita, peraltro, nel quadro delle diffuse indagini sul quartiere inteso come unità urbana conclusa, che proprio la constatazione del loro fallimento aprirà la strada alle riflessioni sulla nozione di organismo urbano, la quale troverà un primo esito nella proposta per le Barene di San Giuliano in aperta, dialettica opposizione con le convinzioni del nuovo internazionalismo avanzante.
Anche gli studi sulla tipologia edilizia e la morfologia urbana, ai quali Muratori ha dato un’originale indirizzo “operante”, si svolgono in un clima di condivisa attenzione per temi che, nel corso di tutti gli anni ’60’ e oltre, hanno un ruolo centrale nella ricerca italiana, da Aldo Rossi a Giorgio Grassi a Carlo Aymonino.
Lo stesso tema del disegno urbano testimonia, infine, un’istanza al rinnovamento comune alla ricerca romana e milanese.
Quello che invece caratterizza Muratori e fa, della sua, un’avventura intellettuale isolata ed unica, è il modo di vedere l’oggetto stesso del progettare, la convinzione, progressivamente conquistata,  profonda e praticata fino alle estreme conseguenze, che l’architettura sia soprattutto un processo di conoscenza da mettere in atto attraverso la coincidenza di lettura e progetto (punto di arrivo di assoluta novità) dove non è il secondo a derivare per deduzione logica dal primo, ma è la lettura stessa a costituire opera di “riprogettazione”. Un progetto che è, dunque, non semplice soluzione di problemi posti dalla realtà, ma soprattutto costruzione critica che dà senso universale al particolare e unifica il molteplice, in questo simile, per certi versi, all’indagine fenomenologica husserliana: cogitationes che non derivano direttamente dal reale ma sembrano completarlo.
Quello che distingue Muratori dal clima culturale che lo circonda, il quale sembra progressivamente orientarsi verso una visione centrifuga del mondo costruito dove tutto diviene relativo e discontinuo, è la sua proposta di un centro unificante, frutto di un pensiero organico nel quale ogni parte della realtà  trova il suo posto all’interno di un sistema di rapporti necessari. Deve trovare il suo posto: l’organicità che Muratori individua nella storia e nel territorio, il processo che riconosce nella trasformazione della città e del costruito, costituiscono, in realtà, un solo, grande progetto.
Per questo lo studio che Maretto presenta in queste pagine sulla dimensione, non solo scalare ma teorica, del disegno urbano, getta luce su uno dei gradi necessari di un processo fondamentalmente conoscitivo,  un passaggio chiave, che i disegni per le Barene segnano con chiarezza, nel processo di progressiva estensione degli ambiti muratoriani di comprensione del reale. Fino al territorio, fino ai temi poderosi che coinvolgono nel disegno intere ecumeni civili.
Credo che la grandezza della figura di Muratori, architetto fino in fondo, anche nel considerare il divenire delle cose e della vita, consista proprio in questa sua straordinaria volontà di sintesi, nell’unità epica in cui riesce a raccogliere il molteplice. Un paesaggio ideale, espresso da inflessibili griglie e visionari “tabelloni”, nel quale non c’è posto per il banale quotidiano e anche la semplice casa a schiera acquista senso e grandezza nel contributo che fornisce alla costruzione dell’intero organismo urbano.
Questa volontà di sintesi assoluta gli permette di “riprogettare” l’organicità della città e del territorio, ma anche riconoscere, per differenza, le concrete frantumazioni prodotte dalla crisi in atto. E anche l’individualismo di una cultura architettonica sostanzialmente ancora impregnata di romanticismo: come per il neoclassico Schiller, opportunamente citato in queste pagine, per Muratori  la grande arte non è quella attraverso cui l’individuo si esprime con forza titanica, ma quella che sa raccogliere e dare forma alla condivisione, ai gesti tipici nei quali un intorno civile si riconosce.
Con lo iato del periodo della Ricostruzione, quando i suoi progetti sembrano “avvalersi di un morfema astratto costituito da un accostamento di volumi ed elementi geometrici”, come scrive Gianfranco Caniggia, il classicismo che pervade per intero e in profondità il pensiero di Muratori sembra porsi, fin dalle prime esperienze, nel solco della proposta di Pagano di non imitare l’antico, ma di creare un’arte nuova da porre accanto all’antico che si traduce nella nozione di “durata” dove tutto ha senso in quanto esiste un precedente che lo spiega e ne indica il futuro. Per questa ragione, quando la modernità sembra leggere la città come luogo dove tutto è provvisorio, casuale e rapidamente consumato, Muratori introduce l’idea di crisi, di discontinuità tutt’altro che fortuite, unificate come sono in un più vasto disegno dal grande piano della storia, da una struttura ciclica che da architettura alla successione degli eventi.
La sua figura profondamente classicista è, dunque, tutt’altro che anacronistica. Essa svolge, piuttosto, il ruolo che hanno avuto i grandi pensatori in radicale disaccordo con i valori del proprio tempo proprio perché, vivendoli, ne hanno compreso a fondo significato e limiti. Solo una lettura superficiale della loro opera li collocherebbe “in discordanza di fase” col contesto in cui hanno operato. E anche se la lezione di Muratori, esploratore di nuovi territori, è rimasta inascoltata, senza di lui il tempo e le condizioni in cui ha operato non avrebbero, oggi, lo stesso significato.
Ogni società dovrebbe custodire gelosamente questi focolai di critica alle proprie convenzioni invalse come fonte preziosa di un possibile rinnovamento. O, almeno, riflettere sulla loro eredità.
La generosità del suo impegno intellettuale ha invece condotto Muratori in rotta di collisione con un establishment accademico e a pagare la propria intransigente passione civile con le vicende drammatiche che hanno concluso nell’emarginazione la sua storia intellettuale e umana. Alla quale è succeduta una lunga damnatio memoriae  da cui stiamo uscendo solo in questi ultimi anni.
Marco Maretto è uno dei non molti studiosi delle nuove generazioni che ha colto, in chiave contemporanea, il valore operante dell’eredità muratoriana, le fertili possibilità che la sua critica ancora offre alle condizioni stagnanti dell’attuale pensiero sull’architettura.
Per questo lo dobbiamo ringraziare per il prezioso lavoro documentato in queste pagine, che si inserisce in un coerente quadro di studi attraverso i quali, della lezione muratoriana, egli fa riemergere proposte attualissime. Proposte che riguardano la sostenibilità delle trasformazioni che operiamo sul mondo costruito e l’uso organico dei mezzi che abbiamo a disposizione,  in una condizione, come quella contemporanea, segnata da un’ inedita dilapidazione di risorse alla quale l’architettura fornisce spettacolarizzazione e consenso.

Roma, luglio 2012

L’ EPOPEA BORGHESE DI SANTA MARINELLA

di Giuseppe Strappa

In “La Repubblica”, 1 agosto 1991

ARCHITETTURE DI MARE E DI COSTA
La storia delle architetture moderne delle coste e delle isole del Tirreno (le avventure dei luoghi, le vicende degli insediamenti) giace sepolta nelle viscere delle conurbazioni per le vacanze, come un resto antico e prezioso sotto una colata lavica : frammenti ormai smarriti tra orde di villette kitsch , modernissime  tracce che  appaiono  tra distese di ruderi edilizi vecchi di  soli trent’anni.  Sogni, anche,  rimasti sulla carta, disegni mai realizzati. Documenti  di una vocazione moderna tradita. Storie sommerse  e, a volte , ancora miracolosamente  vitali ed attive.

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“Non amavano il mare, ne parlavano quasi con soggezione; dicevano libeccio sottovoce, temendo di provocarne le furie.” I pastori di rado si affacciavano, all’inizio del secolo, alla costa sotto Capo Linaro. Si accostavano timidi e taciturni  all’osteria a ridosso del castello degli Odescalchi “vestiti di pelo come fauni”, osservavano sospettosi il litorale, ma pensavano ai pascoli sicuri, alle terre d’origine sulle montagne.
Come i pastori descritti da Marinella Lodi, lo sperone di capo Linaro, unico rilievo della costa a partire da Roma, sembra essersi spinto fino al mare per un puro accidente orografico. Sembra appartenere piuttosto all’entroterra, ai Monti della Tolfa, ai Sabatini: un lembo di costa di sicura vocazione terrestre, il cui  continuo rapporto di diffidenza col mare si è rafforzato nei tentativi frustrati di stabilire un legame con le imbarcazioni che, in ogni epoca, si scorgevano in lento movimento al largo, dirette verso il porto vicino  che nei secoli cambiava nome (Centumcellae, Civitas Vetula, Civitavecchia).  Quando, a metà del ‘600, si costruì finalmente  un porto, papa Innocenzo X  ne dispose l’immediato interramento, come un’anatema per aver rotto  l’isolamento marino del luogo  .
A partire dagli insediamenti più antichi destinati all’ otium dell’ aristocrazia  romana, questi piccoli rilievi sembrano propizi, invece, a quella  “civiltà di villa” che percorre gran parte della storia del paesaggio italiano.
Il principe Baldassarre Odescalchi deve aver compreso bene questa lezione quando, nel 1887, acquistò all’asta dall’ Ospedale Santo Spirito la tenuta di Santa  Marinella e il castello quattrocentesco che nel tempo i Barberini avevano trasformato in palazzo fortificato. Il principe dispose immediatamente i piani per una lottizzazione e ne favorì la crescita  utilizzando scaltramente lo strumento della pubblicità: la stampa divulgava l’inaugurazione di ville dove si svolgevano feste memorabili,  residenze lussuose  frequentate dal bel mondo, abitate da soubrette famose. La prima villa fu costruita per sé  dall’ingegner Raffaello Ojetti, che in quegli anni stava ampliando per il principe palazzo Odescalchi in via del Corso a Roma.  Ne seguirono presto altre.  In realtà, tuttavia,  le foto di fine ‘800 mostrano il luogo occupato da costruzioni rade, sperdute tra le sabbie e la macchia mediterranea selvaggia, con  capanne di legno avventurate sull’arenile quasi a sperimentare la rudezza del mare, a rassicurare le sortite sulla spiaggia  di timorose  famiglie borghesi . Costruzioni aggrappate alla ferrovia per Roma come ad un cordone ombelicale, dove non si riesce ad immaginare   il passeggio, le orchestrine, i sorbetti ,i piccoli agi, insomma,  di una   stazione balneare credibile. Capisaldi di una conquista ancora precaria, queste ville adottavano le piante semplicissime, i volumi pragmatici  e un po’ spogli della colonizzazione al primo impatto con un territorio non ancora domato. E’ solo molto più tardi, col  nuovo secolo, che si apre , sotto la regia dell’ammiraglio Astuto, presidente della Cooperativa “Pirgus”, la fiera delle vanità della borghesia romana. Vengono edificate  le prime  residenze  nelle quali l’architettura, come in una vetrina, mostra le condizioni sociali, le aspirazioni, il censo del proprietario.  Il tipo edilizio é  quello del “villino di città”, con  una torretta o un’altana che ne segnala l’individualità.  Sono costruzioni  informate ad un eclettismo prudente, secondo la tradizione romana, dove però non mancano  invenzioni discrete,  alimentate da una balneare levitas.  (come nella villa Zamboni-Bertagnolio in via Aurelia , nella  villa Soria a lungomare Marconi  o nel vicino villino Zocchi) e dove non mancano   echi  modernisti  che increspano, ad esempio,  i volumi dell’ eccentrica villa Bettina costruita dall’architetto Gilardoni. E tuttavia, come nota  Marta Francocci in un prezioso libretto che può servire da guida a queste architetture (La stazione balneare di Santa Marinella, 1887-1940 , edizioni Carte Segrete) non è un caso che l’unico esempio di adesione totale alle esperienze moderniste sia costituito da quel   villino Cerrano che Gino Smorti disegna in stile liberty per un direttore del vicino cementificio, per un  ceto imprenditoriale,cioè , dallo spirito innovativo assai raro nell’ambiente romano.
Negli anni ’20 si diffonde l’uso del  terrazzo, sostituito al tetto, mentre si vanno scoprendo, forse con  ottimismo eccessivo, i poteri taumaturgici  delle  radiazioni solari che , sosteneva una rivista dell’epoca “ti scovano il bacillo in mezzo alle viscere e lo annientano inesorabilmente.” Negli anni ’30 si costruiscono anche le prime ville “razionaliste” i cui  volumi elementari   parlano ancora  una lingua comprensibile  , dividono  un codice comune con le costruzioni precedenti, come villa Genesi in via Capo Linaro, che conserva i motivi tradizionali della torretta e del bow-window.
E’ il periodo di maggiore splendore della piccola epopea borghese di una  cittadina divenuta esclusiva ed elegante, dal lusso  non importuno, serena  nonostante la presenza di qualche gerarca.
Una stagione di pienezza  che prelude, tuttavia, alla decadenza.  Le cui  cui prime, lontane avvisaglie  si intravedono   già   negli anni ’20   con la lottizazione dell’area di Caccia Riserva,  dove i “villini” ad alta densità per il ceto medio anticipano  il modello delle palazzine , protagoniste dello sfascio edilizio del dopoguerra. Prima  della distruzione sistematica  del litorale laziale, tuttavia, Santa Marinella  vive ,negli anni ’50,una breve, estrema stagione di fasti. Si costruiscono ancora ville raffinate  che dialogano con la tradizione, come quella disegnata dall’architetto Luigi Racheli in via Ulpiano per l’industriale della birra Franco Peroni, mentre anche  le  palazzine sono costruite con cura, come quelle  sulla via Aurelia ,rivestite di maioliche blu , progettate da Monaco e Luccichenti.
Poi, nel ’54,  Luigi Moretti costruisce in via Capo Linaro  per la principessa  Pignatelli una villa dalle forme assolute, chiare come un gesto  simbolico.  E’ l’immagine  di  una svolta epocale nel destino di Santa Marinella. La “Saracena” (questo è il nome della villa, alla quale seguirà, postuma,  “La Califfa”)  parla un linguaggio nuovo, che rompe col passato. Un linguaggio  presto imitato a sproposito e volgarizzato su tutta la costa laziale . Rivolta al  mare , la costruzione è  protetta  verso la strada da volumi ciechi, rifiniti in intonaco grezzo, respingenti e inaccessibili come bunker. Perduta la cordialità dei “villini signorili”,  la nuova, famosa  villa    volge aristocraticamente (gelosamente, commenta l’architetto) le spalle alla cittadina  dove ancora passeggiano re Farouk e Ingrid Bergman. Quasi un presentimento,un ultimo tentativo di  sdegnosa difesa   dal turismo di massa .
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L’ INVENZIONE DEL PASSATO

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L’ARCHEOPARK DI CASTEL MADAMA

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 30 ottobre 2012

Risalendo la valle dell’Empiglione sotto Castel Madama, se appena ci si allontana dalla provinciale, appaiono, poderose e solitarie, le rovine dell’Anio Novus.  Non un turista turba la quiete delle arcate abbandonate.  In questa forma, silenziosi e divorati dalla vegetazione, dovevano comparire gli acquedotti romani ai viaggiatori del Grand Tour: a Goethe, a Schinkel, a de Brosses. Ma il fascino romantico dell’architettura che lentamente ridiventa natura è pagato a caro prezzo. Ogni anno si perde un po’ di questo patrimonio, ogni anno qualche piccolo crollo ne riduce la consistenza.
Se si prosegue lungo l’Empolitana, s’incontrano i resti abbandonati di antiche ville rustiche terrazzate, cisterne, fabbriche di mattoni, rovine di insediamenti misteriosi come Saxula, fino ad arrivare a Trebula Saffenas, di cui racconta Plinio.
In questi luoghi, tra tante vere testimonianze del passato in abbandono, la proposta di costruirne di false sembra surreale. Eppure ai bordi della strada, all’altezza di Colle Passero, è in progetto un nuovissimo villaggio neolitico con tanto di laghetto artificiale.
Il fenomeno potrebbe avere aspetti interessanti.  Sull’invenzione del passato ogni epoca si è esercitata a suo modo e le nuove costruzioni potrebbero scatenare inedite interpretazioni sociologiche sul rapporto contemporaneo tra mercato, memoria, luogo… Del resto la stessa Stonehenge è, in gran parte, la creazione appassionata del colonnello William Hawley che all’inizio del ‘900 risistemò le enormi pietre secondo un disegno che, oggi, di fronte al business che il sito rappresenta, nessuno si sogna di contestare.
Ma il progetto nostrano, che mostra bambini spensierati tra cottage preistorici in stile Tudor, ricorda piuttosto la bizzarra proposta del sindaco di Pompei di costruire terme e domus finte accanto a quelle vere che cadono a pezzi.  Eppure il programma va avanti: il TAR ha respinto lo scorso aprile il ricorso di un gruppo di cittadini e la Regione Lazio ha appena approvato la variante al PRG che potrebbe consentire l’intervento.
Certo, la società Archeopark che lo propone, nascente Ikea dell’archeologia, fa il suo mestiere. Ha già realizzato con successo, peraltro, un villaggio neolitico vicino a Brescia dove è possibile “rivivere la preistoria alla scoperta degli antichi Camuni e delle genti padane”. Quello che sembra inaccettabile è, invece, l’incapacità politica di coordinare investimenti privati e pubblici in operazioni che non siano solo una perdita per l’ambiente.
Gli acquedotti e le ville romane sono tra le immagini di maggiore attrazione nella divulgazione globale dell’antico. Non potrebbe il loro restauro essere la nuova risorsa economica dell’area? Un grande parco archeologico vero, unico e irripetibile, con percorsi tematici, strutture museali, ricettive, di accoglienza che creino nuovi posti di lavoro e forniscano un’alternativa al turismo della Capitale, quello rapido che in tre giorni riempie i visitatori di troppe immagini per la memoria e le strade di un fiume di torpedoni.

RESTAURI DELLE MURA AURELIANE

di Giuseppe Strappa
in «Corriere della Sera» del  24.08.2002

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Bisogna soffrire il sole d’agosto per apprezzare il fascino solenne delle mura imperiali di Roma: liberate dal traffico, esse riconquistano la loro legittima continuità, la scala piranesiana che il fiume sempre in piena delle automobili impedisce di cogliere negli altri mesi dell’anno. E una vasta letteratura è a disposizione, peraltro, del volenteroso che volesse ripercorrere il perimetro di questo monumento unico al mondo. In particolare Ian A. Richmond ha dedicato loro, nel 1930, un volume appassionato e puntiglioso, vera miniera di informazioni alla quale hanno attinto generazioni di studiosi. Ma sulle infinite trasformazioni successive, che costituiscono la parte più enigmatica delle mura, non esisteva ancora uno studio specifico. Un bel libro da poco pubblicato da Rossana Mancini (Le mura aureliane di Roma. Atlante di un palinsesto murario, ed. Quasar) copre ora questa lacuna. Mostrando, implicitamente, come le mura imperiali, costruite precipitosamente in soli quattro anni per far fronte alla critica situazione militare della fine del III secolo, costituiscano, in un certo senso, la prima opera di architettura moderna, testimonianza di una condizione di crisi nella quale l’unità della costruzione e l’impianto regolatore classici non reggono più di fronte alla molteplicità degli eventi, non riescono a impartire ordine alla quantità di edifici che le mura riutilizzano, dall’Anfiteatro Castrense alla Piramide Cestia alla Mostra dell’Acqua Claudia.
E tuttavia le mura sembrano contenere, anche, i germi di un possibile superamento della modernità: il collage di frammenti che oggi si mostra dietro la moltitudine apparentemente eterogenea di rifacimenti e stratificazioni, rivela la continuità epica della costruzione che risorge da qualunque catastrofe ricercando, ogni volta, una nuova, provvisoria organicità.
Esse racchiudono, in questo senso, l’essenza della nozione, tutta romana, di durata: l’insegnamento dell’antico che riunisce, in un unico flusso vitale, una generazione di costruttori all’altra attraverso il lascito trasmesso da saperi e tecniche murarie, perfino quando i laterizi ricavati dallo spoglio di anfiteatri e terme non erano più reperibili e, dal XII secolo, come rileva Giovanni Carbonara nell’introduzione all’Atlante, i metodi si adeguano all’impiego di materiali poveri: selce, tufo, peperino, frammenti di marmo e di travertino. Non è un caso che le mura siano state abbandonate solo nel periodo di maggiore decadenza civile di Roma, nell’età del Medioevo selvaggio e feudale che aveva diviso la città in fazioni familiari arroccate nelle proprie abitazioni fortificate.
Irrappresentabili, per complessità e dimensioni, con un’immagine “mediatica” rapidamente comunicabile, le Mura Aureliane mal si prestano, per nostra fortuna, a divenire oggetto del turismo frettoloso che ha invaso gli altri monumenti di Roma antica. Forse per questo sono state trascurate per decenni.
Eppure esse costituiscono un’eredità fondamentale, il confine capace di restituire, ancora ai nostri giorni, identità e forma finita alla città storica. Proprio per questa loro singolarità le mura dovrebbero essere visitate, soprattutto, attraverso il camminamento di ronda che permetterebbe di coglierne il senso e la continuità. I dodici interventi di restauro finanziati con i fondi del Giubileo, peraltro eseguiti a regola d’arte, avrebbero dovuto in parte consentirlo. Invece, ironia della sorte, anche l’unico tratto percorribile, tra Porta S. Sebastiano e i fornici sulla via Colombo, è stato interrotto, ormai da molti mesi, da un rovinoso crollo e forse dovremo aspettare il prossimo Giubileo per vederlo ripristinato.

PROCESSO FORMATIVO DEI MATERIALI MODERNI

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PROCESSO FORMATIVO DEI MATERIALI MODERNI

di Giuseppe Strappa

Le interpretazioni moderne della trasformazione della materia in materiale costituiscono, per molti versi, l’eredità delle aree culturali nelle quali si sono consolidati modi specifici di impiegare strutture a carattere elastico o plastico. L’innovazione non riguarda solo l’impiego di elementi e strutture derivate da nuovi materiali, ma anche la collaborazione, funzionale e costruttiva, tra materiali diversi.
All’inizio del XIX secolo la rivoluzione industriale ha messo a disposizione dell’architetto nuovi materiali dei quali egli deve riconoscere l’attitudine all’impiego in architettura. Si tratta di materiali la cui esistenza era nota da tempo e impiegati in modo limitato nelle costruzioni i quali, tuttavia, attraverso nuove lavorazioni e sistemi produttivi, assumono caratteri diversi ed inediti e, dato assai rilevante, sono disponibili in quantità tali da modificare sostanzialmente il carattere delle nuove fabbriche. L’incertezza nel loro impiego, la necessità del loro studio razionale e di nuove sperimentazioni contribuiscono ad una estesa condizione di crisi nello stesso ruolo dell’architetto. “Questa confusione – scrive in proposito Walter Benjamin –derivava in parte dalla sovrabbondanza di procedimenti e di nuovi materiali, improvvisamente a disposizione. Quanto più ci si sforzava di appropriarsene, tanto più si compivano passi falsi e si fallivano i tentativi.”
Nelle aree che corrispondono, di larga massima, ai centri di irradiazione della cultura gotica e di più radicate tradizioni lignee, l’uso del ferro (e in parte della ghisa) avviene in continuità con la tecnica delle costruzioni in legno.
L’innovazione negli elementi riguarda il diverso modulo di elasticità e maggiore inerzia, a parità di materiale usato, rispetto alle sezioni rettangolari in legno ottenuta con l’impiego di profilati soprattutto a doppio T . Le diverse parti della sezione si specializzano per assorbire le tensioni sui diversi piani; l’anima si configura per assorbire le tensioni tangenziali, le ali, compresse o tese, per assorbire le diverse tensioni normali.
Le strutture che non comportano il superamento di grandi luci, tuttavia, conservano il carattere mutuato da quelle lignee, con la sola differenza di una maggiore rigidità dei nodi. Non è un caso che molti architetti si rivolgano alle forme seriali, trasparenti, portanti e non chiudenti del passato. Karl Bötticher, ad esempio, riassumeva i suoi studi sulla continuità tra storia e innovazione indicando come i nuovi sistemi di strutture metalliche dovessero assumere “il principio formale del mondo ellenico“.
Ma, se una parte dell’architettura, ormai divisa dalle specializzazioni, entra a far parte delle arti figurative con l’Ècole des Beaux Arts, un’altra parte, con l’Ècole des Ponts et Chausses, entra a far parte del mondo della tecnica e della produzione. Gli ingegneri affrontano senza pregiudizi i grandi temi delle strutture richieste da nuovi tipi di impianti assiali o polari, come le stazioni ferroviarie o i palazzi per esposizioni, adottando inedite strutture organiche spazialmente legate ad organismi tradizionali con strutture innovative basate sull’iterazione di  elementi seriali.
La leggerezza è il principale carattere riconosciuto alle nuove strutture, insieme alla trasparenza che permette la permeabilità alla luce naturale, ma anche la visione spettacolare dall’esterno della luce artificiale proveniente dai grandi vani destinati al commercio, dalle galeries, dai passages illuminati a  gas, espressione del flusso della vita e della folla nella metropoli moderna. Il ferro si associa naturalmente al vetro secondo tecniche sempre più affinate e tipizzate che propizieranno il formarsi di alcuni tipi di copertura che costituiscono alcune delle immagini più consolidata dell’architettura del XIX secolo.
Le moderne strutture metalliche, sorte in area nordeuropea di tradizioni elastico lignee e ad elevato sviluppo tecnologico, raggiungono rapidamente una definizione stabile che mutua i propri caratteri dagli elementi in legno Le strutture in calcestruzzo armato, invece,  trovano una definizione più lenta
Il processo che ha portato all’impiego razionale del calcestruzzo (utilizzato in altre forme fin dall’antichità) può essere assimilato a quello del riconoscimento di una vera e propria materia, in questo caso artificiale, nella quale si individua la suscettibilità all’uso nelle costruzioni.
Il nuovo calcestruzzo è un conglomerato costituito da inerti (sabbia e ghiaia) uniti da un legante costituito dal cemento, che viene assimilato, in origine, ad una roccia artificiale. Il calcestruzzo può assumere qualsiasi forma grazie alla caratteristica di poter essere gettato in casseforme.
Il processo dimpiego si differenzia inizialmente arealmente in due filoni a partire dagli elementi su cui si basano:

–   elementi e strutture nati come rinforzo delle strutture murarie esistenti in area plastico muraria;
–    elementi e strutture nati come sostituzione di parti delle strutture elastiche esistenti, in area elastico lignea.

In entrambi i casi, va notato, l’origine degli elementi in calcestruzzo è dovuta a problemi di restauro e trasformazione dell’esistente , per il quale il calcestruzzo armato, con la disponibilità intrinseca ad assumere qualsiasi forma, sembrava particolarmente adatto. Si tratta, quindi, di una formazione processuale basata su tecniche consolidate: l’incertezza di fronte al riconoscimento dei caratteri di una materia artificiale completamente nuova, la sua trasformazione in materiale attraverso l’individuazione delle possibili attitudini costruttive, viene risolta attraverso il riferimento a strutture e sistemi consolidati. Lo stesso François Hennebique, massimo innovatore nelle tecniche costruttive in calcestruzzo armato, aveva iniziato la propria attività di costruttore nei restauri delle coperture delle cattedrali gotiche, sviluppando una grande dimestichezza nella sostituzione di strutture a carattere seriale che lo porteranno ad elaborare le prime travi in calcestruzzo prefabbricate a piè d’opera ed armate con barre metalliche cilindriche (1879) per sostituire i travetti di legno nel solaio di un’edifico in costruzione per il quale si era deciso di utilizzare strutture a prova d’incendio (villa Madoux a Westende).
Tra le molte direzioni possibili nello sviluppo delle strutture in c.a. si intraprese dunque, nelle aree portanti nordeuropee, quella dell’adeguamento a sistemi elastici, con rapida diffusione nel resto d’Europa.
D’altra parte molte delle innovazioni pratiche ottenute per collaborazione tra due materiali avevano riguardato il problema fondamentale delle strutture elastiche: la formazione dell’elemento trave. Si vedano le combinazioni di elementi compressi in materiale resistente a compressione come la pietra, i mattoni o la ghisa, con un materiale resistente bene a trazione come il ferro. L’impiego murario, pure insito nel carattere stesso del materiale, del calcestruzzo in forme organiche, portanti e chiudenti allo stesso tempo, doveva avvenire molto tempo dopo, con l’impiego delle pareti armate, delle volte sottili, di elementi organici che seguono l’andamento più delle tensioni all’interno del corpo solido .  (Maillart, Nervi, Candela, Musmeci) ecc. Non a caso questo riconoscimento “tardivo” dei caratteri del calcestruzzo avverrà in aree di radicate tradizioni murarie.
Il passaggio fondamentale nel processo di riconoscimento del calcestruzzo come nuovo materiale è costituito dal modo di interpretare la collaborazione con l’armatura metallica. Nella prima fase, allo stesso modo nel quale si è “specializzata” la sezione metallica a doppio T rispetto a quella lignea, il calcestruzzo  si specializza per resistere alla sola sollecitazione di compressione, mentre al ferro viene affidata la resistenza a trazione. Solo successivamente si comprende la complessità dell’andamento delle tensioni su piani comunque inclinati all’interno del calcestruzzo e si introduce la staffa ed il ferro piegato, capaci di resistere alle tensioni di taglio.  Si scopre, in altri termini, il carattere potenzialmente organico del calcestruzzo, dove ogni parte collabora con l’altra trasmettendo con continuità le sollecitazioni. E si scopre come siano fondamentali nei sistemi in calcestruzzo armato, come in ogni sistema organico, la conguenza e proporzione tra le parti nel determinare il carattere dell’intero organismo. Quello che per gli sperimentatori dell’inizio del calcestruzzo armato era stato lo “spirito del carpentiere”, diviene lentamente lo spirito organico del muratore.


PROCESSO FORMATIVO DELLA COLLABORAZIONE TRA MATERIALI DI CARATTERISTICHE MECCANICHE COMPLEMENTARI : DALLA PIETRA ARMATA (FIG. IN ALTO) ALLA COLLABORAZIONE TRA LEGNO, GHISA E FERRO.

INTERPRETAZIONE ELASTICA DEL C.A. CON FORMAZIONE DEL TELAIO SERIALE E STRUTTURE A TRANSENNA (CHIUDENTI E NON PORTANTI)

INTERPRETAZIONE PLASTICA DEL C.A. CON FORMAZIONE DI STRUTTURE ORGANICHE COMPRESSE


TRANSENNA CONTEMPORANEA IN GKD

FACCIATE CONTEMPORANEE A CARATTERE PARZIALMENTE PLASTICO MURARIO