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convegno morfologia urbana e progetto – 6 novembre

Bassa definiz. poster UM 6 novembre

link alla locandina del convegno di fondazione dell’ Isuf Italy  : 2007 ISUF ITALY fondazione

La morfologia è lo studio della forma come aspetto visibile di una struttura. Forma come formazione che presuppone un processo formativo conoscibile e razionalmente indagabile come strumento di progetto. La stessa forma può essere riguardata, sotto questo aspetto, come organismo, e come tale considerata formata e formante, con proprie leggi interne che legano le parti in unità. Per l’architetto l’uso della morfologia, ritengo, è molto importante: significa leggere il territorio come architettura, studiarne la forma come organismo territoriale dove le parti si legano in rapporto di necessità. Considerare il paesaggio non solo nei suoi aspetti legati alla percezione, ma come aspetto visibile delle strutture territoriali. Lo stesso vale per l’organismo urbano e i tessuti: la città come processo di trasformazione, forma in continuo divenire. E gli stessi edifici possono essere considerati come organismi edilizi, dove la forma attuale deriva da un processo di trasformazione dalla materia al materiale, agli elementi, alle strutture,  all’organismo. La forma dell’architettura che percepiamo è, dunque, solo un provvisorio momento di equilibrio all’interno di questo flusso continuo di trasformazioni.

NUOVE CITTÀ MEDITERRANEE


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Segezia

di Giuseppe Strappa

in AA.VV. Metafisica costruita, Roma 2002.

Tra le molte letture delle città di fondazione costruite in Italia tra le due guerre, una delle più fertili, ritengo, possa essere quella di interpretarle non solo come risultato di contingenze politiche, ma come esito di un processo che opera, nel fluire della storia, su tempi lunghi e, anche, prodotto di una forma di rinuncia all’individualismo, a quella volontà di “distinguersi ad ogni costo” nella quale Giuseppe Pagano aveva colto uno dei più insidiosi pericoli dell’architettura moderna. Interpretarle, in altri termini,  come adesione, seppure non priva di ambiguità e contraddizioni, a una più generale langue comune che la cultura architettonica italiana del ‘900 tenta di elaborare. O meglio, stenta a riconoscere nelle condizioni di crisi generate dalla contrapposta interferenza degli echi rivoluzionari che arrivano dalle aree nordeuropee, del dettato storicista trasmesso dalle accademie, dell’interpretazione romantica che non pochi architetti coinvolti nel dibattito sull’architettura nazionale fornivano della tradizione di edilizia minore.
Riconoscibile attraverso un insieme di caratteri condivisi, la radice di questa lingua, spesso indicata come specificamente nazionale dalla pubblicistica della fine degli anni ’20 e degli anni ’30, appartiene, in realtà,  ad una vasta koinè architettonica che apparenta contesti civili, per altri versi diversissimi tra loro, formatisi intorno al bacino del Mediterraneo.
Una vasta area culturale della cui specificità si comincia a prendere coscienza a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella cultura europea: il problema di un’identità mediterranea è un portato della modernità, delle trasformazioni culturali e politiche che hanno spostato verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Se quella antica, infatti, era la storia del mondo vista con gli occhi del Mediterraneo, è anche vero che si trattava della storia dei greci o dei romani, essendo il Mediterraneo soprattutto luogo di conflitti tra culture diverse. Solo per un breve periodo l’uomo mediterraneo aveva sentito come patria condivisa le terre romanizzate che andavano dalla penisola anatolica alla Spagna e all’Algeria: dopo il declino della grande unificazione romana le unificazioni parziali bizantine, arabe, ottomane, sotto la spinta dell’intolleranza e del proselitismo imposti dalle nuove religioni monoteistiche,  non avevano fatto che acuire divisioni tra culture diverse.
In architettura, in particolare, la coscienza di una specificità mediterranea si forma con l’insorgere del Movimento moderno: come ogni identità essa nasce da una contrapposizione, dal riconoscimento, a volte contraddittorio e non sempre lucidamente cosciente negli scritti dei protagonisti, di istanze antagoniste operanti nella storia, identificabili attraverso la polarizzazione, nell’Europa del nord, delle ricerche per un’architettura caratterizzata dalla serialità legata al mondo delle macchine ed alla produzione industriale. Queste ricerche, coerenti con il processo formativo di aree culturali che coincidono per larga parte con le regioni storicamente segnate dal gotico, si traducono in forme opposte a quella nozione di organicità  che era stata per secoli il vero carattere specifico del mondo mediterraneo, con il programmatico distacco tra le componenti dell’organismo edilizio: l’indipendenza della distribuzione dal sistema statico-costruttivo, della quale la “pianta libera” era il portato più evidente, l’indipendenza della leggibilità esterna dalla costruzione, testimoniata in forma di manifesto dalla “facciata libera”.
Si fa quindi strada, in modo complesso ma sinteticamente evidente, l’idea di un’ architettura moderna  basata su ideali umanistici, un mondo di forme “necessarie”, per molti versi divergenti da quelle del Movimento moderno anche se non prive di superficiali assonanze, derivate dal processo formativo dell’edilizia a matrice muraria, che lega organicamente, attraverso la funzione portante e chiudente della parete, distribuzione, struttura, leggibilità.
Il riconoscimento di questa diade di polarizzazioni riscontrabili nell’architettura moderna tra le due guerre va operato superando la confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti. Caso esemplare è quello dei ponderosi volumi che Alberto Sartoris dedica alla nuova architettura, dove la distinzione tra climat mediterranéens e climat nordiques viene dedotta esclusivamente attraverso le aree geografiche di appartenenza, indipendentemente dal carattere degli edifici selezionati e non tenendo conto della complessità del problema, della nostalgia delle origini che il mondo mediterraneo, ad esempio, ha sempre suscitato negli architetti nordici, da Asplund a Markelius ad Aalto ,
E sull’idea di “mediterraneità” si scrive molto, anche in Italia, tra le due guerre, senza dedurne, tuttavia, nozioni trasmissibili che superino un generico riferimento alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi finendo per rendere incerta o ambigua ogni definizione . Soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1934 la polemica sui caratteri dell’architettura nazionale che ha diviso gli architetti italiani coincide spesso con quello sull’architettura mediterranea. L’idea che si vuole avallare è quella di una tradizione antica della quale si propone un aggiornamento: la ripresa della semplicità dei volumi, la lezione della varietà di forme nella spontanea composizione delle abitazioni isolane. Se si fa eccezione delle note posizioni critiche  di Persico e Pagano, di alcune riflessioni interne al gruppo che si forma intorno alla rivista «Quadrante» e di isolate osservazioni (come quelle di Giuseppe Capponi, che riconosce nelle forme della casa mediterranea, che “stranamente esprimono quell’idea che è così propria della più moderna concezione dell’architettura”, non il generico fascino del primitivismo, ma il risultato di un processo ), il dibattito è informato a generici richiami al pittoresco e alle qualità “spirituali” della tradizione mediterranea da contrapporre al “materialismo” dell’internazionalismo nordeuropeo.
E tuttavia un carattere distintivo può essere riconosciuto invece, al di là delle affermazioni dei protagonisti, nella nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, molti progetti e costruzioni degli architetti moderni che guardano al Mediterraneo. Continuità leggibile tanto nei tipi edilizi quanto nel linguaggio architettonico inteso, appunto, nel senso di declinazione individuale di una lingua condivisa. Si pensi ad esempio alle ricerche sulla casa a corte, vera matrice spaziale delle forme mediterranee, riproposta da Luigi Piccinato per la sua casa coloniale esposta alla V Triennale di Milano. “È invero interessante vedere – scrive in proposito Piccinato – come in fondo la storia ci offra un tipo di casa mediterranea comune a quasi tutti i popoli vissuti intorno al mare mediterraneo:un tipo in cui le differenziazioni tra nazione e nazione sono più superficiali che sostanziali” . E si pensi anche, contrapposta alla discontinuità dei sistemi elastici e discreti delle aree nordeuropee, alla continuità plastica della parete muraria e dei relativi nodi tettonici, spesso  impiegati spontaneamente, ma a volte criticamente anche indagati  da architetti come Giuseppe Pagano. Il quale in Architettura rurale in Italia  riconosceva nel marcadavanzale il segno della permanenza  di una lingua ancora operante, che Pagano stesso impiegava concretamente, peraltro, nelle facciate di palazzo Gualino.
Ma continuità, anche, con le strutture del territorio, che introduce una nozione di paesaggio che meriterebbe di essere indagata a fondo: contro la tradizione pittoresca anglosassone della landscape architecture e propiziata dal legame tra costruito e ambiente imposto dalle bonifiche, si forma un’idea di paesaggio inteso come aspetto visibile della struttura del territorio, espressione organica dei valori di un contesto civile del quale non solo e non tanto la natura incontaminata, ma le aree produttive, la natura addomesticata dal lavoro dell’uomo costituiscono gli elementi fondanti.
Di questa nozione organica e antimeccanica di paesaggio costruito le città di fondazione forniscono forse l’interpretazione più evidente attraverso il loro legame di necessità col territorio, l’unità dell’ impianto basato sulla gerarchia dei percorsi, la plasticità muraria degli edifici,.
Nel pieno della modernità Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia , sorte intorno a Roma tra il 1928 ed il 1936, rispondono ancora, in diverso grado, ai principi di organicità stabiliti dal rapporto di continuità col retroterra agricolo, dalla gerarchizzazione dei percorsi legati alla viabilità territoriale, dalla relativa collocazione e individuazione dei tipi  edilizi, dal carattere delle costruzioni coerente con la tradizione muraria nonostante gli aggiornamenti.. Organicità che ha inizio dal rapporto di congruenza con il processo storico di trasformazione del territorio: esse partecipano alla conclusione dell’ultima fase di un ciclo che, secondo un “tipo territoriale” piuttosto costante nell’Italia centrale, parte dal recupero della viabilità romana, continua con la ristrutturazione degli insediamenti di promontorio  dei monti Lepini e si conclude con la formazione di insediamenti rurali di fondovalle e pianura, di origine produttiva.  La fondazione delle città dell’Agro Pontino, per questa ragione, é da associare alla conclusione dei grandi cicli di antropizzazione del territorio del bacino del Mediterraneo che hanno portato, anche, alla bonifica della piana di Salonicco, delle aree del Basso Rodano, della Mitidja algerina.
Tra queste città sembra utile riproporre come esemplare il caso di Sabaudia, per essere stata considerata dalla storiografia ufficiale del dopoguerra la città di fondazione più innovativa, mentre, come cercheremo di dimostrare,  testimonia con concreta evidenza  la continuità con gli organismi urbani tradizionali
Nonostante sia stata interamente progettata nel 1933, e risulti quindi il prodotto di quel modo critico di pianificare gli interventi che nelle aree nordeuropee trovava esito nella contrapposizione tra città e contesto, Sabaudia presenta evidenti legami di continuità col suo territorio: una continuità storica in quanto ultima fase di un processo di antropizzazione che procede da monte verso valle, secondo cicli e fasi tipiche di ogni processo insediativo del territorio italiano; continuità spaziale dovuta alla maglia di percorsi e nodi territoriali gerarchizzata in fondovalle dalla pedemontana e dall’Appia, e strutturata attraverso il sistema delle miliare; continuità tipologico-processuale in quanto la forma della città è “pertinente” alla propria fase storica, che è quella di una progressiva riutilizzazione delle aree produttive di pianura e di fondovalle, quale recupero di aree anticamente civilizzate, entrate in crisi nel periodo tardo antico.
L’organismo urbano di Sabaudia, come gli altri centri rurali della bonifica, è quindi il portato di percorrenze territoriali. Tanto che Sabaudia può essere considerata un borgo agricolo fortemente gerarchizzato da una posizione (discontinuità orografica) e da una viabilità (raccordo con la viabilità costiera) singolari che le conferiscono il ruolo di nodo territoriale: “Essa non è una città -scriveva Piccinato- ma un centro comunale agricolo: indissolubilmente legato al suo territorio e alla terra che produce”.
Questo legame tra insediamento e territorio risulta evidente dalla gerarchizzazione degli assi urbani secondo un impianto polarizzato dagli edifici di servizio (specialistici) che costituiscono l’origine dei percorsi, mentre nella periferia viene dislocata, a somiglianza degli insediamenti tradizionali, l’edilizia specialistica  antipolare, raggruppata per affinità tipologica.
Si noti infatti come un ruolo centrale assuma il sistema delle percorrenze relativo alla piazza del Comune ed ai suoi edifici specialistici, il quale “annoda” gli assi accentranti di  corso Principe di Piemonte, corso V. Emanuele III e corso V. Emanuele II e come quest’ultimo risulti fondamentale per costituire la continuazione di una delle direttrici territoriali che partono dall’Appia in direzione della costa.  In opposizione all’ideologia dello zoning del moderno nordeuropeo, gli architetti che idearono Sabaudia non disegnarono un piano urbanistico: progettarono l’architettura della città avendo in mente un tessuto di edifici orientato da percorsi; pensarono unitariamente la forma delle costruzioni e l’impianto di di strade e viali.
E il nesso organico tra edificio e tessuto, tra distribuzione interna e percorsi esterni appare evidente nella scelta dei tipi edilizi impiegati, che costituiscono un aggiornamento processuale dei tipi tradizionali. Si veda il Palazzo del Comune, nel quale la struttura dei vani gerarchizzati è organizzata dai percorsi interni su cortile polarizzati dalle scale, o il complesso religioso in piazza Regina Margherita, dove il vano nodale della chiesa è accentrato dalla continuazione di un asse urbano che dal portale raggiunge l’altare, mentre  la “Casa delle suore” è organizzata, come negli impianti conventuali, su un percorso che si diparte dal presbiterio.
Il carattere degli elementi e delle strutture costruttive degli edifici di Sabaudia costituisce, infine, una declinazione moderna dei caratteri propri dell’area plastico-muraria romana. Gli edifici sono, per la gran parte, ottenuti dalla composizione di pareti murarie leggibili come portanti e chiudenti allo stesso tempo, organizzate secondo fasce di stratificazione architettonica tradizionale: basamento, portato spesso fino al marcadavanzale, elevazione e, infine, unificazione e conclusione  modernamente rifuse in unità. Questo dato é più evidente (maggiore massività e organicità) quando le costruzioni sono realmente eseguite in muratura portante, mentre, quando risultano costruite ad ossatura in cemento armato, la leggibilità del carattere degli edifici è resa complessa dalla parziale esposizione del telaio in c.a., rivestito o meno in mattoni, che conferisce agli organismi un certo grado di serialità (si veda, ad esempio l’impiego dei porticati-pilotis).
Se progetto di tessuto e progetto edilizio nascono, nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, contemporaneamente, portato di una stessa idea di aggiornamento della nozione ereditata di città, le stesse nozioni fondanti si riscontrano, seppure con qualche ritardo e declinate a volte in maniera più pragmatica, nei progetti per i nuovi insediamenti italiani in aree decentrate come quelli per Cortoghiana in Sardegna, primo banco di prova delle riflessioni progettuali di Saverio Muratori, o per i centri di Segezia, Incoronata e Daunilia  in Puglia, dove il tema della bonifica richiedeva, pur nella permanenza, anche amministrativa, della nozione di “opera pubblica” , la pianificazione di un legame organico col territorio.
Ma gli stessi principi  sono  riscontrabili nei nuovi insediamenti delle colonie italiane del Mediterraneo, sotto l’influenza, anche, di quella spinta all’assimilazione che negli ultimi anni del fascismo verrà sostituita dalla strategia del “diretto dominio”. Come ha notato Giorgio Ciucci in un acuto saggio sull’architettura delle colonie , prima della conquista dell’Etiopia non esisteva una sostanziale differenza tra i criteri di progettazione edilizia e urbanistica adottati per il territorio nazionale e quelli per le colonie e i possedimenti d’oltremare, specie mediterranei. L’impianto di Portolago, cittadina costruita sull’isola di Leros dagli architetti Rodolfo Petracco e Armando Barnabiti, presenta, a scala ridotta, caratteri affini a quelli dell’organismo urbano della contemporanea Sabaudia, con l’asse principale che raggiunge l’area degli edifici specialistici principali (il complesso dell’albergo-cinema-teatro; il municipio e la casa del fascio) e due percorsi a tenaglia che collegano poli secondari (le scuole, la casa del balilla, la dogana, il quartiere operaio). Nonostante l’abbandono e le trasformazioni subite, anche qui le pur modeste costruzioni, alle quali sembra aver giovato la scarsità delle risorse economiche, testimoniano lo sforzo di cogliere un processo di trasformazione in atto . E considerazioni analoghe possono essere fatte  per i tanti insediamenti rurali costruiti negli anni’30, come Campochiaro e Peveragno, costruiti a Rodi dal ’29 al ‘35, o per i villaggi Baracca, Bianchi, Breviglieri, D’Annunzio e i tanti altri costruiti per la colonizzazione della costa tra Derna e Bengasi.
Visti sotto questo pur parziale aspetto, non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo.
E dalla quale  traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, ad esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata dal Le Corbusier delle case Errazuris,  De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv, (città di fondazione dove l’idea howardiana che sta alla base del piano di Geddes   genera nel tempo un tessuto denso e mediterraneo, in analogia con alcuni casi italiani, e gli architetti formatisi nel Bauhaus finiscono per interpretare, sul piano dei risultati, una versione muraria della modernità internazionale); quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis o Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda  dell’architettura moderna.

1. Cfr. A. Sartoris, Encyclopédie de l’architecture nouvelle, Milano ; nuova ed. 1954 sgg ; vol.I, Ordre et climat méditerranéens, 1948, vol.II, Ordre et climat nordiques, 1957.

2. Cfr.: S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in: Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di S.Danesi e L.Patetta, Venezia 1976; M. Fuller, Mediterraneanism,in: Amate Sponde… Presence of Italy in the Architecture of the Islamic Mediterranean, numero monografico di «Environmental Design» n.9-10,  Como 1992; G.Capponi, Motivi di architettura ischiana, in  «Architettura e arti decorative», a.IV, fasc.XI, luglio 1927.

LE POLEMICHE PER PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE

di Giuseppe Strappa

in «Corriere della Sera» del 04.08.2006

Dopo i problemi sollevati dalla distruzione del complesso dell’Ara Pacis, la proposta di demolire gli edifici “brutti” costruiti da Vittorio Ballio Morpurgo intorno al Mausoleo di Augusto potrebbe essere considerata una bizzarra esercitazione accademica se non fosse avanzata da due autorità dell’urbanistica e dell’archeologia romane con serie possibilità, quindi, di concreto seguito.
Certo, nel clima delle rivalutazioni, spesso indiscriminate, che hanno investito il dibattito romano degli ultimi vent’anni, la figura di Morpurgo ha la colpa di non essere stata oggetto di alcuna riscoperta, ultimo esempio di architetto dannato dagli errori della retorica fascista.
Ma non è possibile evitare di domandarsi cosa si ricostruirà sulle rovine degli edifici eretti alla fine degli anni ’30 a conclusione di studi che si erano estesi, almeno, dal piano del 1909 a quello del 1931. Un nuovo spazio aperto che lascerà in vista i disomogenei prospetti di via della Frezza, fuori scala, peraltro, rispetto all’immenso vuoto della nuova piazza? Oppure un’architettura di lacerazioni, alla Zaha Hadid, magari avallata da una commissione di concorso formata dai soliti esperti che guardano con ansia ritardataria alle mode internazionali?
Scenari che consigliano di riconsiderare meglio gli edifici esistenti, dimenticando i pregiudizi di una critica frettolosa: come se si osservassero per la prima volta (“il mondo comune osservato in modo non comune” come consigliava De Chirico). Forse, allora, si scoprirebbe il fascino severo che i vasti colonnati dalle ombre nette contengono, l’attenzione per le trasparenze e i raccordi con le strade sul perimetro, dei quali quello con largo dei Lombardi ha la forza autentica di una visione piranesiana. Una rilettura “del tipo medio delle case-palazzo che caratterizza le strade tradizionali”, come scriveva Morpurgo in una dimenticata relazione al progetto, che irrigidisce il mutevole mosaico dell’edilizia romana nella fissa, metafisica unità, depurata di ogni pulsione, delle superfici in travertino.
E poiché nessuno, oggi, avrebbe l’inattuale coraggio di costruire una simile quinta plastica e muraria, piena e pesante come nella consuetudine romana, mi permetto di consigliare di tenerci quella che abbiamo.
Ma una seconda domanda è inevitabile. L’intervento di demolizione e ricostruzione costerebbe centinaia di milioni, comporterebbe un gigantesco cantiere aperto nel cuore di Roma per molti anni. Perché?
Sia chiaro: l’atto della demolizione è parte legittima della storia di ogni città, il riconoscimento di una ferita grave alla sua forma per il cui risarcimento vale la pena di investire risorse. Ma, proprio per questo, non può che derivare da valori condivisi. C’è da chiedersi allora se, nella scala degli errori romani, non debbano avere la precedenza disastri reali, come il viadotto dello Scalo San Lorenzo, i “ponti” del Laurentino 38, qualcuno dei vergognosi formicai per abitazione costruiti negli anni ’70. E prima ancora i tanti abusi edilizi che hanno sfigurato la forma della città, molti dei quali in pieno centro storico.