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NUOVE CITTÀ MEDITERRANEE


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Segezia

di Giuseppe Strappa

in AA.VV. Metafisica costruita, Roma 2002.

Tra le molte letture delle città di fondazione costruite in Italia tra le due guerre, una delle più fertili, ritengo, possa essere quella di interpretarle non solo come risultato di contingenze politiche, ma come esito di un processo che opera, nel fluire della storia, su tempi lunghi e, anche, prodotto di una forma di rinuncia all’individualismo, a quella volontà di “distinguersi ad ogni costo” nella quale Giuseppe Pagano aveva colto uno dei più insidiosi pericoli dell’architettura moderna. Interpretarle, in altri termini,  come adesione, seppure non priva di ambiguità e contraddizioni, a una più generale langue comune che la cultura architettonica italiana del ‘900 tenta di elaborare. O meglio, stenta a riconoscere nelle condizioni di crisi generate dalla contrapposta interferenza degli echi rivoluzionari che arrivano dalle aree nordeuropee, del dettato storicista trasmesso dalle accademie, dell’interpretazione romantica che non pochi architetti coinvolti nel dibattito sull’architettura nazionale fornivano della tradizione di edilizia minore.
Riconoscibile attraverso un insieme di caratteri condivisi, la radice di questa lingua, spesso indicata come specificamente nazionale dalla pubblicistica della fine degli anni ’20 e degli anni ’30, appartiene, in realtà,  ad una vasta koinè architettonica che apparenta contesti civili, per altri versi diversissimi tra loro, formatisi intorno al bacino del Mediterraneo.
Una vasta area culturale della cui specificità si comincia a prendere coscienza a partire dagli anni ’20 del XX secolo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella cultura europea: il problema di un’identità mediterranea è un portato della modernità, delle trasformazioni culturali e politiche che hanno spostato verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Se quella antica, infatti, era la storia del mondo vista con gli occhi del Mediterraneo, è anche vero che si trattava della storia dei greci o dei romani, essendo il Mediterraneo soprattutto luogo di conflitti tra culture diverse. Solo per un breve periodo l’uomo mediterraneo aveva sentito come patria condivisa le terre romanizzate che andavano dalla penisola anatolica alla Spagna e all’Algeria: dopo il declino della grande unificazione romana le unificazioni parziali bizantine, arabe, ottomane, sotto la spinta dell’intolleranza e del proselitismo imposti dalle nuove religioni monoteistiche,  non avevano fatto che acuire divisioni tra culture diverse.
In architettura, in particolare, la coscienza di una specificità mediterranea si forma con l’insorgere del Movimento moderno: come ogni identità essa nasce da una contrapposizione, dal riconoscimento, a volte contraddittorio e non sempre lucidamente cosciente negli scritti dei protagonisti, di istanze antagoniste operanti nella storia, identificabili attraverso la polarizzazione, nell’Europa del nord, delle ricerche per un’architettura caratterizzata dalla serialità legata al mondo delle macchine ed alla produzione industriale. Queste ricerche, coerenti con il processo formativo di aree culturali che coincidono per larga parte con le regioni storicamente segnate dal gotico, si traducono in forme opposte a quella nozione di organicità  che era stata per secoli il vero carattere specifico del mondo mediterraneo, con il programmatico distacco tra le componenti dell’organismo edilizio: l’indipendenza della distribuzione dal sistema statico-costruttivo, della quale la “pianta libera” era il portato più evidente, l’indipendenza della leggibilità esterna dalla costruzione, testimoniata in forma di manifesto dalla “facciata libera”.
Si fa quindi strada, in modo complesso ma sinteticamente evidente, l’idea di un’ architettura moderna  basata su ideali umanistici, un mondo di forme “necessarie”, per molti versi divergenti da quelle del Movimento moderno anche se non prive di superficiali assonanze, derivate dal processo formativo dell’edilizia a matrice muraria, che lega organicamente, attraverso la funzione portante e chiudente della parete, distribuzione, struttura, leggibilità.
Il riconoscimento di questa diade di polarizzazioni riscontrabili nell’architettura moderna tra le due guerre va operato superando la confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti. Caso esemplare è quello dei ponderosi volumi che Alberto Sartoris dedica alla nuova architettura, dove la distinzione tra climat mediterranéens e climat nordiques viene dedotta esclusivamente attraverso le aree geografiche di appartenenza, indipendentemente dal carattere degli edifici selezionati e non tenendo conto della complessità del problema, della nostalgia delle origini che il mondo mediterraneo, ad esempio, ha sempre suscitato negli architetti nordici, da Asplund a Markelius ad Aalto ,
E sull’idea di “mediterraneità” si scrive molto, anche in Italia, tra le due guerre, senza dedurne, tuttavia, nozioni trasmissibili che superino un generico riferimento alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi finendo per rendere incerta o ambigua ogni definizione . Soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1934 la polemica sui caratteri dell’architettura nazionale che ha diviso gli architetti italiani coincide spesso con quello sull’architettura mediterranea. L’idea che si vuole avallare è quella di una tradizione antica della quale si propone un aggiornamento: la ripresa della semplicità dei volumi, la lezione della varietà di forme nella spontanea composizione delle abitazioni isolane. Se si fa eccezione delle note posizioni critiche  di Persico e Pagano, di alcune riflessioni interne al gruppo che si forma intorno alla rivista «Quadrante» e di isolate osservazioni (come quelle di Giuseppe Capponi, che riconosce nelle forme della casa mediterranea, che “stranamente esprimono quell’idea che è così propria della più moderna concezione dell’architettura”, non il generico fascino del primitivismo, ma il risultato di un processo ), il dibattito è informato a generici richiami al pittoresco e alle qualità “spirituali” della tradizione mediterranea da contrapporre al “materialismo” dell’internazionalismo nordeuropeo.
E tuttavia un carattere distintivo può essere riconosciuto invece, al di là delle affermazioni dei protagonisti, nella nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, molti progetti e costruzioni degli architetti moderni che guardano al Mediterraneo. Continuità leggibile tanto nei tipi edilizi quanto nel linguaggio architettonico inteso, appunto, nel senso di declinazione individuale di una lingua condivisa. Si pensi ad esempio alle ricerche sulla casa a corte, vera matrice spaziale delle forme mediterranee, riproposta da Luigi Piccinato per la sua casa coloniale esposta alla V Triennale di Milano. “È invero interessante vedere – scrive in proposito Piccinato – come in fondo la storia ci offra un tipo di casa mediterranea comune a quasi tutti i popoli vissuti intorno al mare mediterraneo:un tipo in cui le differenziazioni tra nazione e nazione sono più superficiali che sostanziali” . E si pensi anche, contrapposta alla discontinuità dei sistemi elastici e discreti delle aree nordeuropee, alla continuità plastica della parete muraria e dei relativi nodi tettonici, spesso  impiegati spontaneamente, ma a volte criticamente anche indagati  da architetti come Giuseppe Pagano. Il quale in Architettura rurale in Italia  riconosceva nel marcadavanzale il segno della permanenza  di una lingua ancora operante, che Pagano stesso impiegava concretamente, peraltro, nelle facciate di palazzo Gualino.
Ma continuità, anche, con le strutture del territorio, che introduce una nozione di paesaggio che meriterebbe di essere indagata a fondo: contro la tradizione pittoresca anglosassone della landscape architecture e propiziata dal legame tra costruito e ambiente imposto dalle bonifiche, si forma un’idea di paesaggio inteso come aspetto visibile della struttura del territorio, espressione organica dei valori di un contesto civile del quale non solo e non tanto la natura incontaminata, ma le aree produttive, la natura addomesticata dal lavoro dell’uomo costituiscono gli elementi fondanti.
Di questa nozione organica e antimeccanica di paesaggio costruito le città di fondazione forniscono forse l’interpretazione più evidente attraverso il loro legame di necessità col territorio, l’unità dell’ impianto basato sulla gerarchia dei percorsi, la plasticità muraria degli edifici,.
Nel pieno della modernità Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia , sorte intorno a Roma tra il 1928 ed il 1936, rispondono ancora, in diverso grado, ai principi di organicità stabiliti dal rapporto di continuità col retroterra agricolo, dalla gerarchizzazione dei percorsi legati alla viabilità territoriale, dalla relativa collocazione e individuazione dei tipi  edilizi, dal carattere delle costruzioni coerente con la tradizione muraria nonostante gli aggiornamenti.. Organicità che ha inizio dal rapporto di congruenza con il processo storico di trasformazione del territorio: esse partecipano alla conclusione dell’ultima fase di un ciclo che, secondo un “tipo territoriale” piuttosto costante nell’Italia centrale, parte dal recupero della viabilità romana, continua con la ristrutturazione degli insediamenti di promontorio  dei monti Lepini e si conclude con la formazione di insediamenti rurali di fondovalle e pianura, di origine produttiva.  La fondazione delle città dell’Agro Pontino, per questa ragione, é da associare alla conclusione dei grandi cicli di antropizzazione del territorio del bacino del Mediterraneo che hanno portato, anche, alla bonifica della piana di Salonicco, delle aree del Basso Rodano, della Mitidja algerina.
Tra queste città sembra utile riproporre come esemplare il caso di Sabaudia, per essere stata considerata dalla storiografia ufficiale del dopoguerra la città di fondazione più innovativa, mentre, come cercheremo di dimostrare,  testimonia con concreta evidenza  la continuità con gli organismi urbani tradizionali
Nonostante sia stata interamente progettata nel 1933, e risulti quindi il prodotto di quel modo critico di pianificare gli interventi che nelle aree nordeuropee trovava esito nella contrapposizione tra città e contesto, Sabaudia presenta evidenti legami di continuità col suo territorio: una continuità storica in quanto ultima fase di un processo di antropizzazione che procede da monte verso valle, secondo cicli e fasi tipiche di ogni processo insediativo del territorio italiano; continuità spaziale dovuta alla maglia di percorsi e nodi territoriali gerarchizzata in fondovalle dalla pedemontana e dall’Appia, e strutturata attraverso il sistema delle miliare; continuità tipologico-processuale in quanto la forma della città è “pertinente” alla propria fase storica, che è quella di una progressiva riutilizzazione delle aree produttive di pianura e di fondovalle, quale recupero di aree anticamente civilizzate, entrate in crisi nel periodo tardo antico.
L’organismo urbano di Sabaudia, come gli altri centri rurali della bonifica, è quindi il portato di percorrenze territoriali. Tanto che Sabaudia può essere considerata un borgo agricolo fortemente gerarchizzato da una posizione (discontinuità orografica) e da una viabilità (raccordo con la viabilità costiera) singolari che le conferiscono il ruolo di nodo territoriale: “Essa non è una città -scriveva Piccinato- ma un centro comunale agricolo: indissolubilmente legato al suo territorio e alla terra che produce”.
Questo legame tra insediamento e territorio risulta evidente dalla gerarchizzazione degli assi urbani secondo un impianto polarizzato dagli edifici di servizio (specialistici) che costituiscono l’origine dei percorsi, mentre nella periferia viene dislocata, a somiglianza degli insediamenti tradizionali, l’edilizia specialistica  antipolare, raggruppata per affinità tipologica.
Si noti infatti come un ruolo centrale assuma il sistema delle percorrenze relativo alla piazza del Comune ed ai suoi edifici specialistici, il quale “annoda” gli assi accentranti di  corso Principe di Piemonte, corso V. Emanuele III e corso V. Emanuele II e come quest’ultimo risulti fondamentale per costituire la continuazione di una delle direttrici territoriali che partono dall’Appia in direzione della costa.  In opposizione all’ideologia dello zoning del moderno nordeuropeo, gli architetti che idearono Sabaudia non disegnarono un piano urbanistico: progettarono l’architettura della città avendo in mente un tessuto di edifici orientato da percorsi; pensarono unitariamente la forma delle costruzioni e l’impianto di di strade e viali.
E il nesso organico tra edificio e tessuto, tra distribuzione interna e percorsi esterni appare evidente nella scelta dei tipi edilizi impiegati, che costituiscono un aggiornamento processuale dei tipi tradizionali. Si veda il Palazzo del Comune, nel quale la struttura dei vani gerarchizzati è organizzata dai percorsi interni su cortile polarizzati dalle scale, o il complesso religioso in piazza Regina Margherita, dove il vano nodale della chiesa è accentrato dalla continuazione di un asse urbano che dal portale raggiunge l’altare, mentre  la “Casa delle suore” è organizzata, come negli impianti conventuali, su un percorso che si diparte dal presbiterio.
Il carattere degli elementi e delle strutture costruttive degli edifici di Sabaudia costituisce, infine, una declinazione moderna dei caratteri propri dell’area plastico-muraria romana. Gli edifici sono, per la gran parte, ottenuti dalla composizione di pareti murarie leggibili come portanti e chiudenti allo stesso tempo, organizzate secondo fasce di stratificazione architettonica tradizionale: basamento, portato spesso fino al marcadavanzale, elevazione e, infine, unificazione e conclusione  modernamente rifuse in unità. Questo dato é più evidente (maggiore massività e organicità) quando le costruzioni sono realmente eseguite in muratura portante, mentre, quando risultano costruite ad ossatura in cemento armato, la leggibilità del carattere degli edifici è resa complessa dalla parziale esposizione del telaio in c.a., rivestito o meno in mattoni, che conferisce agli organismi un certo grado di serialità (si veda, ad esempio l’impiego dei porticati-pilotis).
Se progetto di tessuto e progetto edilizio nascono, nelle città di fondazione dell’Agro Pontino, contemporaneamente, portato di una stessa idea di aggiornamento della nozione ereditata di città, le stesse nozioni fondanti si riscontrano, seppure con qualche ritardo e declinate a volte in maniera più pragmatica, nei progetti per i nuovi insediamenti italiani in aree decentrate come quelli per Cortoghiana in Sardegna, primo banco di prova delle riflessioni progettuali di Saverio Muratori, o per i centri di Segezia, Incoronata e Daunilia  in Puglia, dove il tema della bonifica richiedeva, pur nella permanenza, anche amministrativa, della nozione di “opera pubblica” , la pianificazione di un legame organico col territorio.
Ma gli stessi principi  sono  riscontrabili nei nuovi insediamenti delle colonie italiane del Mediterraneo, sotto l’influenza, anche, di quella spinta all’assimilazione che negli ultimi anni del fascismo verrà sostituita dalla strategia del “diretto dominio”. Come ha notato Giorgio Ciucci in un acuto saggio sull’architettura delle colonie , prima della conquista dell’Etiopia non esisteva una sostanziale differenza tra i criteri di progettazione edilizia e urbanistica adottati per il territorio nazionale e quelli per le colonie e i possedimenti d’oltremare, specie mediterranei. L’impianto di Portolago, cittadina costruita sull’isola di Leros dagli architetti Rodolfo Petracco e Armando Barnabiti, presenta, a scala ridotta, caratteri affini a quelli dell’organismo urbano della contemporanea Sabaudia, con l’asse principale che raggiunge l’area degli edifici specialistici principali (il complesso dell’albergo-cinema-teatro; il municipio e la casa del fascio) e due percorsi a tenaglia che collegano poli secondari (le scuole, la casa del balilla, la dogana, il quartiere operaio). Nonostante l’abbandono e le trasformazioni subite, anche qui le pur modeste costruzioni, alle quali sembra aver giovato la scarsità delle risorse economiche, testimoniano lo sforzo di cogliere un processo di trasformazione in atto . E considerazioni analoghe possono essere fatte  per i tanti insediamenti rurali costruiti negli anni’30, come Campochiaro e Peveragno, costruiti a Rodi dal ’29 al ‘35, o per i villaggi Baracca, Bianchi, Breviglieri, D’Annunzio e i tanti altri costruiti per la colonizzazione della costa tra Derna e Bengasi.
Visti sotto questo pur parziale aspetto, non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo.
E dalla quale  traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, ad esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata dal Le Corbusier delle case Errazuris,  De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv, (città di fondazione dove l’idea howardiana che sta alla base del piano di Geddes   genera nel tempo un tessuto denso e mediterraneo, in analogia con alcuni casi italiani, e gli architetti formatisi nel Bauhaus finiscono per interpretare, sul piano dei risultati, una versione muraria della modernità internazionale); quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis o Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda  dell’architettura moderna.

1. Cfr. A. Sartoris, Encyclopédie de l’architecture nouvelle, Milano ; nuova ed. 1954 sgg ; vol.I, Ordre et climat méditerranéens, 1948, vol.II, Ordre et climat nordiques, 1957.

2. Cfr.: S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in: Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di S.Danesi e L.Patetta, Venezia 1976; M. Fuller, Mediterraneanism,in: Amate Sponde… Presence of Italy in the Architecture of the Islamic Mediterranean, numero monografico di «Environmental Design» n.9-10,  Como 1992; G.Capponi, Motivi di architettura ischiana, in  «Architettura e arti decorative», a.IV, fasc.XI, luglio 1927.

LINGUAGGIO MURARIO CONTEMPORANEO

estratto da G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,

in AA.VV. Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, UNESCO, Roma 2004

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IDENTITA’ ORGANICA

Cancellando di colpo la nozione di area culturale che si era diffusa nella coscienza europea almeno dall’inizio del XIX secolo, le storie ufficiali di architettura moderna (a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende degli architetti e degli edifici intorno ad alcuni nodi critici che, comunicati attraverso slogan, individuano movimenti, correnti, tendenze ai quali viene attribuito un carattere internazionale. Ma i quali, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee e poi nordamericane, delle quali interpretano valori, gusti, aspirazioni: quello che viene comunemente accolto come internazionalismo architettonico e che tenterà  una propria codificazione linguistica nell’International Style costituisce, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente accentrante, che ha finito per esportare i propri modelli culturali alle aree più periferiche. Generando al contempo, per reazione, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una complessa, nuova presa di coscienza delle proprie specificità alle quali si stenta ad assegnare oggi una definita collocazione storiografica e critica.

Il tema dell’architettura moderna a carattere plastico e murario che si è sviluppata ai confini del moderno internazionale, della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante, costituisce, in questo quadro, un argomento per molti versi insolito e nuovo.

Anche la consapevolezza di un’identità architettonica organica relativa a una vasta area culturale che aveva il proprio centro nel bacino mediterraneo, identificabile attraverso caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando di recente, proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del Movimento moderno,a conclusione di un processo che, sulla spinta delle trasformazioni economiche e politiche iniziate nel XVII secolo, aveva finito con lo spostare verso nord il centro del mondo relegando il Mediterraneo ai propri margini.

Nell’Europa settentrionale lo sviluppo dell’architettura moderna ha, in realtà, condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione pertinente alle aree di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi leggeri, trasparenti, seriali, portanti e non chiudenti nel tentativo di rompere qualsiasi residuo legame con i principi di stratificazione muraria e organica gerarchizzazione della costruzione.

Walter Gropius espone il tema con didascalica chiarezza: “[Gli architetti moderni] stanno cercando di ottenere mezzi creativi sempre più audaci per vincere la stessa gravità, per raggiungere, attraverso nuove tecniche, sia nell’apparenza, sia nella realtà, una condizione di sospensione al di sopra del suolo.”  La pianta libera risolve, peraltro, il “genetico” conflitto tra la non eliminabile organicità della distribuzione, dove gli spazi si integrano e specializzano in funzione del ruolo che svolgono nell’edificio, e l’istanza alla serialità della struttura, di origine elastico-lignea, del sistema trave-pilastro di dimensioni unificate  in calcestruzzo armato che costituiva il “ritmo sotteso” della costruzione moderna.

La serialità (carattere di un’aggregazione costituita da un insieme di elementi ripetibili e intercambiabili ) costituirà, non a caso, uno dei tre principi posti a fondamento della nuova architettura internazionale: “Nella struttura a scheletro gli elementi di supporto sono normalmente e tipicamente collocati a distanze uguali in modo che le tensioni siano equilibrate. Perciò la maggior parte degli edifici ha un regolare ritmo sotteso, chiaramente visibile prima che sia applicata l’epidermide esterna.”

Le maisons Dom-ino danno forma di manifesto a questo sviluppo seriale ed aperto, disponibile ad ogni soluzione formale delle strutture elastiche il cui involucro indipendente, utilizzando la stessa pianta, può essere costituito tanto dalle chiusure murarie vernacolari dei disegni per il Groupment sur colline del 1916 , quanto da piani e volumi razionali, come nelle case in serie pubblicate da Le Corbusier qualche anno dopo , che utilizzano, in modo sorprendente, un identico impianto distributivo.

Sviluppo che si contrappone, risultando per molti versi complementare, a quello organico formatosi nel mondo delle murature massive sulle rive del Mediterraneo e che, esportato nei paesi nordici in età moderna, col Rinascimento, ha determinato attraversamenti e intersezioni che rendono evidentemente complesso, oggi, rintracciare processi formativi specifici.

Eppure è altrettanto evidente come nelle aree a carattere plastico e murario dell’Europa meridionale, ma anche mediorientali e nordafricane, la transizione al moderno si sia caratterizzata, almeno in parte, per l’esteso impiego di forme massive e opache, derivate da sistemi costruttivi dove la funzione  statica e costruttiva coincideva con quella di formare e chiudere gli spazi, stabilendo una chiara solidarietà, un rapporto di organica necessità, appunto, tra componenti architettoniche . In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta all’introduzione di nuovi materiali non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente innovative, ma ha proceduto soprattutto per aggiornamenti sostanzialmente continui e congruenti rinnovamenti. Si può senz’altro affermare che qui la persistenza di una chiara nozione di organismo di matrice plastica e muraria costituisca, soprattutto nel corso degli anni ’30 del ‘900, una scelta cosciente degli architetti che produce, soprattutto in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura organica moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore della ricerca di una lingua comune capace di esprimere, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame sintetico tra distribuzione, struttura, leggibilità.

Una diade di polarizzazioni tra aree, questa, nella quale è possibile individuare caratteri opposti e integrabili (come l’unione di sistemi murari ed elastici), resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla mediterraneità, alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere difficile ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso la nozione di continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto la costruzione quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme, almeno, di caratteri condivisi.

L’attuale declino della sperimentazione sull’architettura a carattere plastico e murario, che coincide con la mancanza di ricerca sulle strutture al tempo stesso portanti e chiudenti, dimostra come il carattere autentico di contemporaneità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e trasparenza, con la snellezza coltivata con virtuoso narcisismo, con l’indipendenza dell’involucro dagli spazi contenuti che “libera” la forma dalle regole della costruzione. La massività e i sistemi pesanti, il gesto costruttivo sintetico che risolve, allo stesso tempo, problemi distributivi e costruttivi sembrano, in questo quadro, connotare un’architettura distante, inattuale, premoderna, che attinge ai valori di un passato mitico e svanito, relitti portati a riva dalle ondate revivaliste che si succedono periodicamente in Europa e negli Stati Uniti.

Dato, questo, di un processo il cui esito non è affatto scontato, perché il valore di un’architettura è in stretto, mutevole rapporto con le cose cui si da importanza e significato.

In realtà si è andata gradatamente smarrendo, nella produzione più mediatica (più idonea alla diffusione e quindi più nota),non solo il valore, ma la cognizione stessa del carattere del materiale, la coscienza di come il suo impiego non costituisca la mera componente tecnica confinata all’esecuzione dell’opera, ma il portato di una cultura spesso transnazionale, e una delle cause prime dell’invenzione architettonica :”Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”

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hassan-fathy-newgourna2 Hassan Fathy

raj-rewal1 Raj Rewal

cortoghiana_2 Saverio Muratori

jacques-herzog-e-pierre-de-meuron-realizzata-per-un-committente-tedesco-a-tavole-entroterra-di-imperia-nei-primi-anni-ottanta Jacques Herzog e Pierre de Meuron

ungers-dudler2 Oswald Mathias Ungers

 

offices-poincare-bruxelles-21Crepain Binst Architecture

carmassi Massimo Carmassi

carmassi-lrsanmichele1

beniamino-servinoBeniamino Servino

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servino

4-prosp-via-di-santa-lucia-291x400 ok-bn-prospetto-su-vico-massimiliano-massimo Matteo Ieva

finocchiaro-casa-a-ragalnaFrancesco Finocchiaro

ARCHITETTURA MODERNA MEDITERRANEA

da

G.Strappa, Architettura moderna mediterranea in Italia,

in Arte e cultura del Mediterraneo nel XX secolo, a cura di E.F.M. Emanuele e G. De Giovanni Centelles. UNESCO, Roma 2004.

INDICE

1.     caratteri generali
2.     architettura tra le due guerre
3.     il dopoguerra e la crisi contemporanea

1. CARATTERI GENERALI

Cancellando di colpo la tradizionale nozione di area culturale, le storie ufficiali di architettura moderna (almeno a partire dagli anni ’30 e con rare eccezioni) sembrano raccogliere le vicende di architetti ed edifici intorno ad alcuni nodi critici, spesso volgarizzati in slogan, che individuano movimenti, correnti, tendenze a carattere prevalentemente internazionale. Storie, tutte che, nondimeno, riconoscono invariabilmente i loro centri nelle grandi aree urbanizzate nordeuropee o nordamericane, delle quali interpretano valori, tendenze, aspirazioni: quello che viene comunemente classificato come “internazionalismo architettonico” e che sarà codificato nell’International Style è, in altre parole, il prodotto di una ristretta area geografica del mondo, politicamente ed economicamente emergente, che ha finito per esportare i propri modelli culturali nelle aree meno “sviluppate”, generandovi per reazione, al contempo, almeno nelle regioni di cultura architettonica maggiormente consolidata, una presa di coscienza delle proprie specificità alla quale non è stata data, fino ad ora, una definita collocazione storiografica
Il tema dell’architettura moderna specificamente mediterranea – della sua definizione, della sua storia, dei luoghi dove essa è stata progettata e costruita, ma anche del suo significato contemporaneo e della sua attualità operante- costituisce, dunque, un argomento per molti versi insolito e nuovo
La consapevolezza, infatti, di un’identità architettonica relativa a una vasta area culturale estesa all’intero bacino mediterraneo, identificabile per caratteri comuni pur tra prerogative locali ed eredità conflittuali, si è andata formando nel XX secolo proprio con l’insorgere del ruolo culturalmente egemone del cosiddetto Movimento moderno, a conclusione di un processo che, a partire dalle trasformazioni economiche e politiche del XVII secolo, avevano finito con lo spostare verso nord il ‘centro del mondo’ relegando il Mediterraneo in posizione periferica. Nelle aree nordeuropee e nordamericane lo sviluppo dell’architettura moderna aveva condotto all’estrema conclusione il processo di trasformazione delle aree un tempo di cultura gotica, caratterizzate da sistemi costruttivi portanti e non chiudenti. Sviluppo contrapposto a quello  organico, la cui origine proveniva dal mondo della pietra e delle murature massive del Mediterraneo e che era stata esportata, in età moderna, nei paesi nordici col Rinascimento.
E’ altrettanto evidente come nelle cosiddette aree plastico-murarie dell’Europa mediterranea, del vicino e medio oriente e nordafricane la transizione al moderno si è caratterizzata per l’esteso impiego di materiali naturali massivi e opachi, adoperati in sistemi costruttivi portanti e al tempo stesso chiudenti. In queste aree, nei primi due decenni del XX secolo, l’innovazione tecnica e tecnologica dovuta al cemento armato non ha dato luogo a forme di costruzione radicalmente nuove, ma ha proceduto per aggiornamenti e caute innovazioni.
Si può senz’altro affermare che la persistenza di un’organicità di tipo plastico-murario costituisce durante gli anni ’30 del ‘900 una scelta cosciente degli architetti che produce, almeno in Italia, nel periodo tra le due guerre e negli anni immediatamente successivi, un’architettura mediterranea moderna basata su ideali umanistici, che spesso rinuncia all’individualismo delle avanguardie a favore di una lingua a matrice muraria capace di stabilire, ancora nell’età del calcestruzzo armato e dell’acciaio, un legame organico tra distribuzione, struttura, leggibilità.
Una diade di polarizzazioni tra aree dagli opposti caratteri, questa, resa complessa dalla confusione spesso generata dagli scritti degli stessi protagonisti della vicenda moderna attraverso quei generici riferimenti alla solarità delle forme e alla semplicità dei volumi (che può appartenere alla macchina come alla casa contadina) che hanno finito per rendere incerta o ambigua ogni perimetrazione. Diade, tuttavia, riconoscibile attraverso le nozioni di organicità e continuità che sembra informare, in modo latente o esplicito, tanto i tipi edilizi quanto il linguaggio architettonico inteso, appunto, come declinazione individuale, se non di una lingua, di un insieme di caratteri condivisi.
L’attuale declino di una architettura plastico-muraria, connesso anche alla mancanza di sperimentazione moderna della tecnica lapidea per le murature portanti, spiega quindi perché il carattere di modernità si identifichi oggi con le doti di leggerezza e con i materiali artificiali; mentre la massività e i materiali naturali sembrano connotare l’architettura in senso premoderno.
In realtà la cognizione del carattere del materiale, la coscienza che il suo impiego non è solo una componente tecnica che riguarda l’esecuzione dell’edificio ma il portato di una cultura e il fattore primo dell’invenzione architettonica (l’organismo architettonico come riconoscimento e trasformazione della materia in elementi, i quali si aggregano stabilendo tra loro un rapporto di necessità fino a costituire un’unità autonoma, sintesi di trasformazioni della natura in realtà costruita) sembra appartenere, prevalentemente, alla sopravvivenza moderna delle aree organiche mediterranee.
“Dire che il materiale rappresenta il mezzo necessario e sufficiente – scriveva Mario Pagano – per la realizzazione architettonica non basta. Esso è qualche cosa di più. Esiste nel materiale qualche cosa che non è soltanto aspetto esterno ma è tendenza formale inerente il materiale prescelto.”
Dunque la materia  come origine prima della realtà costruita.  secondo la tradizione latina per la quale con materia rerum  si intendeva  l’origine delle cose. Il termine, del resto, etimologicamente deriva da mater : la materia  come madre di tutto il costruito ma anche “ceppo” dell’albero che fornisce la nozione di processo come  sequenza di trasformazione. Anche nell’architettura moderna, la differenza tra materia e materiale  non riguarda dunque tanto la concretezza della costruzione   quanto  la coscienza dell’uomo, la cognizione che una certa materia sia suscettibile di essere utilizzata come (o trasformata in) materiale, sia adatta o adattabile a diventare edificio

Questo carattere dell’architettura mediterranea legato ad una cultura materiale antica, al riconoscimento del carattere dei materiali ed al loro sapiente impiego, distillato in esperienze millenarie, è stato individuato tardi, con molta difficoltà. L’idea moderna di carattere dell’architettura mediterranea nasce con il declino del consolidato  stereotipo di un paesaggio che pittori, poeti, viaggiatori, avevano per lungo tempo identificato con l’eredità classica greca e greco-romana e del quale, dalla metà del ‘700, si scopre un’aspetto radicalmente diverso. Un paesaggio che, soprattutto in Italia, era stato idealizzato nell’ariosità trasparente di colonnati e trabeazioni (in strutture fondamentalmente trilitiche, portanti e non chiudenti) rivela quasi d’improvviso, quando i viaggiatori si spingono oltre i luoghi deputati dei grandi monumenti e superano la barriera geografica di Roma e Napoli, la propria natura di territorio organicamente antropizzato, costituito da chiese, monasteri, anche rovine antiche, ma soprattutto da abitazioni, di grande forza plastica: un mondo di murature potenti e di case dalle piccole finestre: volumi massivi sotto la luce, solidi, stabili, continui.  Si scopre, anche, l’altra faccia della classicità, quella delle grandi pareti continue, delle volte, delle cupole, degli archi, delle piattabande. La realtà comincia a scrollarsi di dosso, anche nell’immaginario europeo, l’aristocratico museo delle rappresentazioni letterarie che, sulla scorta dei classici latini e greci, si era sovrapposta al paesaggio mediterraneo.
Si scopre che, anche in architettura, accanto al greco, lingua colta, esiste il parlato quotidiano, il volgare diffuso. Nel Peloponneso, sulle coste della Sicilia, sulle isole dell’Egeo,  poteva apparire l’immagine di un tempio (periptero ecc.). Un lampo che rimane impresso nella retina e di cui la memoria, proprio per l’eccezionalità dell’evento, custodisce a lungo il ricordo. Ma accanto alla lingua colta, derivata dalla cultura lignea degli (Achei?) ci si rende conto che il parlato quotidiano era ed è soprattutto plastico e murario.
La Basilica di Massenzio, il Pantheon, (espressioni di una koinè estetica e costruttiva strettamente legata all’Oriente mediterraneo e della quale il mondo di forme bizantino sarà erede e continuatore) ma anche i grandi basamenti in rovina dei santuari di Ercole a Tivoli e quello di Giove a Terracina, piuttosto che la Basilica Ulpia o i templi di Paestum, sono i monumenti che interpretano meglio, in forma aulica, i caratteri di una lingua diffusa che trova un suo esteso elemento costitutivo nelle abitazioni, nell’ edilizia di base che contiene e trasmette la struttura, le regole della lingua stessa.
Una realtà rapidamente comunicata e diffusa dal fiume di stampe alimentato dal Grand Tour che riproducono monumenti inseriti in tessuti urbani fondati sulle preesistenze antiche. Tessuti che si andavano altrettanto rapidamente aggiornando: l’intero paesaggio urbano italiano si andava trasformando con la formazione di quella casa plurifamiliare  “in linea” che diverrà il fondamento stesso della città moderna europea.
Un processo dove i tessuti “sostrato”, di formazione antica, la cui eco è riportata nelle tracce della Forma Urbis, costituiscono dunque la base che assicura la continuità della lingua, pur nelle estese trasformazioni e continui aggiornamenti. Tessuti, a loro volta, che partecipano di una più vasta comunità culturale,  formati come sono da case unifamiliari (domus), da case plurifamiliari (insulae) originate dalla trasformazione di quei tipi a corte elementare che costituiscono un patrimonio comune protostorico che si estende, in pratica, all’intero bacino del Mediterraneo. Case che nel mondo latino subiscono uno specifico processo di plurifamiliarizzazione (insulizzazione) e specializzazione (tabernizzazione) che dà luogo a tessuti di case a schiera monocellulari e monoaffaccio (pseudoschiere), ancora perfettamente leggibili nella città italiana di origine antica ( a Roma, ad esempio, nelle aree di Tor di Nona, Campo de’Fiori,  Trastevere, o in Puglia nei tessuti storici di città come Trani, Bitonto, Altamura) . Ma anche nelle trasformazioni successive (X-XV secolo), permangono caratteri costanti tipici del concetto antico di casa, come l’unità unifamiliare e l’impiego della corte come elemento di distribuzione cui corrisponde, anche, un sincronico aggiornamento dei tipi edilizi con la formazione della casa a schiera  bicellulare, con il piano terreno specializzato a bottega. E la casa a corte antica è alla base non solo del processo formativo dei successivi tessuti abitativi, ma anche dell’edilizia più complessa, come i palazzi, che dall’edilizia di base derivano per specializzazione.

Si veda il caso della formazione del palazzo veneziano, uno degli esempi più chiari della vitale continuità nelle trasformazioni della forma della città mediterranea, dove permane un impianto a domus , le cui dimensioni tipiche legano il recinto edilizio al più generale sistema di partizione del suolo nel mondo romano, dimostrando la sostanziale continuità del processo di trasformazione del territorio dal Tardo Antico  al Medioevo (la misura base dell’heredium, derivato per frazionamento decimale della centuriatio, origina l’actus, la metà del cui lato costituisce la misura base del fronte del lotto sul quale viene impiantato il recinto della domus). La domus da luogo, infatti, tanto a filoni tipologici specialistici quanto a plurifamiliarizzazioni dequantificandosi in unità di schiera monocellulari (pseudoschiere) mantenendo, tuttavia, i propri principi generatori legati all’uso dello spazio recintato.
Le dimensioni ricorrenti riscontrabili tanto nell’utilizzazione delle terre emerse quanto nella costruzione del suolo artificiale sul quale viene edificata la domus unifamiliare veneziana deriva dalla dimensione canonica di mezzo actus, oppure (fronte di 40 pedes) , direttamente, dal frazionamento dell’heredium in tre parti secondo una direzione (due strigae  intervallate da spazio libero) e in sei secondo l’altra, che da origine all’aggregazione ricorrente a margini quadrati sullo spazio comune del “campo”.  Schematizzando un processo assai complesso, i lotti di dimensioni maggiori vengono disposti di preferenza col lato lungo a nord in modo da avere il passaggio acqua-terraferma  parallelo al lato occupato dalla prima edificazione che si dispone secondo il tipico isorientamento rivolto a sud.
Il percorso interno viene nel tempo coperto dando origine al “portego” (porticato) che geometrizza il percorso e da inizio alla formazione dell’asse, polarizzato ai due estremi dagli ingressi. La successiva edificazione avviene sul lato rivolto a sud, a partire dal percorso esterno a maggiore nodalità, secondo il processo tipico della tabernizzazione  con la formazione delle linee dividenti interne complementari all’asse accentrante. Questo spazio interno assume fondamentalmente due ruoli in funzione delle trasformazioni economiche e sociali, già avanzate nel XII secolo, che inducono alla differenziazione del tipo a domus  in residenza signorile o palazzo, da una parte, o alla sua suddivisione in abitazioni per le classi a basso reddito, dall’altra. Nel primo caso si forma lo spazio nodale dell’edifico specialistico, la “sala veneta” leggibile anche all’esterno, attraverso la polifora, come  spazio in origine aperto, trasparente; nel secondo si forma il percorso interno (calle), asse dell’aggregazione a schiera.
La leggibilità delle facciate che deriva da questo processo, tanto nella casa-fondaco bizantina, che gotica, che nei successivi tipi rinascimentali, rivela immediatamente margini, asse accentrante, spazio nodale, linee dividenti. L’intera polifora viene considerata come limite di uno spazio virtualmente aperto, per cui non deve sorprendere che (carattere comune, peraltro, all’area gotica) l’asse accentrante C possa incontrare, a volte, il pieno di un elemento verticale.

Questo grande flusso vitale che trasforma la città antica italiana nella città moderna attraverso un processo ininterrotto di trasformazioni è testimoniato dalla  rifusione delle abitazioni unifamiliare di origine medievale in aggregati plurifamiliari, processo immediatamente leggibile nella forma dei centri storici delle nostre città attraverso la permanenza delle dimensioni delle cellule elementari che determinano la partizione delle facciate e la dimensione dei nuovi corpi di fabbrica, esprimendo la vocazione dei tipi più semplici alla convivenza organica, alla formazione di unità a scala maggiore. Vocazione che, progressivamente acquisita e intenzionalizzata, diviene linguaggio cosciente, in un passaggio assimilabile alla transizione dalla lingua solo parlata alla lingua scritta, permettendo, anche, di acquisire intenzionalmente caratteri imitativi dell’edilizia specialistica.
Alla fine dell’800, alla nozione tradizionale ed accademica di organismo architettonico  si va sostituendo una diversa, originale concezione critica dei caratteri degli edifici come portato di un processo in atto, che accoglie la trasformazione indotta dal mutare dei tempi come “incremento”, non sostituzione, di un patrimonio di conoscenze tecniche ancora operanti.
E’ esemplare antecedente di questa fase di fertile incertezza il caso della costruzione del nuovo tessuto della Capitale, quando gli architetti romani(Passerini,Carimini,Carnevali,Azzurri)  affrontano il tema dell’edilizia abitativa con lo spirito di chi ancora progetta i grandi monumenti, secondo il ruolo tradizionale dell’architetto che disegna episodi urbani irripetibili. Il progettista di fine secolo ha, in realtà, ancora una stretta consuetudine con il disegno delle emergenze; quando questo ruolo si trasforma egli “… appropriandosi del problema del tessuto – come scrive Caniggia – del connettivo edilizio, delle case, pare che non muti affatto l’immagine che ha di sé. Può affermarsi che, paradossalmente quando progetta case tenda a produrre “altro”: altro e più sublimato prodotto, analogo a ciò che i suoi predecessori avevano per secoli ideato”.
Nei nuovi quartieri, alla struttura rigidamente seriale delle abitazioni plurifamiliari (se si eccettua il frequente decremento dell’altezza del mezzanino) si affianca, favorita dal carattere segnatamente murario della casa in linea romana, una leggibilità da palazzo, gerarchizzata, come accennato, secondo modalità mutuate dagli edifici specialistici. E’ nell’edilizia alto borghese che si sperimenta, invece, un cauto rinnovamento della lingua attraverso sincretismi con forme derivate da sperimentazioni in corso in altre aree europee. Esempi dimostrativi di questa fase di contenuto rinnovamento sono le opere di architetti come Raffaele Canevari,Andrea Busiri Vici, Giulio Magni, soprattutto, che entra in diretto contatto con le diverse versioni nazionali del modernismo europeo: la secessione, lo jugendstil, il liberty. Se nel corso della sua permanenza all’estero, la ricerca di Magni oscilla tra lo storicismo delle opere pubbliche maggiori ed il modernismo delle occasioni professionali private, dai primissimi anni del ‘900, tornato a Roma, confronta la memoria degli esperimenti modernisti, ancora viva, col  tradizionalismo del clima locale, del quale coglie gli aspetti meno scontati, quelli turbati dal contatto con le vicende internazionali: nella sua villa Marignoli sono evidenti non solo gli echi del costruttivismo storicista di stampo mitteleuropeo, ma anche del lascito dimenticato dei sincretismi romani di Edmund Street.
E tuttavia, anche negli esperimenti per la borghesia come nelle grandi costruzioni abitative, a cavallo della fine dell’800, permane la sequenza delle fasce di stratificazione architettonica (basamento elevazione, unificazione, conclusione) ormai slegata dalle ragioni costruttive che l’ avevano originate e dalla gerarchizzazione dei piani.
Applicazione tuttavia, non del tutto illegittima perché la facciata nella tradizione plastica e muraria non é mai il portato meccanico, (e nemmeno necessariamente il portato diretto) dell’edificio, ma ne è la sintesi riconoscibile, prodotto di una riflessione sulla capacità dell’architettura di esprimere valori oltre  il dato puramente costruttivo e distributivo.
Queste fasce di stratificazione orizzontale permarranno a lungo, almeno per tutti gli anni ’40 del 900, anche nelle opere più aggiornate.
Si veda l’esteso impiego moderno del basamento, derivato  dalla soluzione di problemi di stabilità dell’edificio e poi codificato nel processo di tipizzazione degli elementi, che permette di non contraddire l’ordine “naturale” dell’involucro esterno, contro le soluzioni oppositive impiegate nell’ “attacco a terra” delle opere della produzione internazionale.
O le soluzioni dell’ elevazione, dove il legame tra dato tettonico ed espressione dell’edificio rimane sempre solidale e leggibile anche attraverso l’esteso uso del rivestimento,
Come pure mostra una grande permanenza la fascia di unificazione (spesso assorbita nei volumi puri della produzione moderna mitteleuropea), che nell’organismo tradizionale ha origine strutturale, quale orizzontamento e legame generale dell’edificio, allo stesso modo della trabeazione nell’ordine classico e la conclusione, la cui negazione è uno dei cavalli di battaglia del movimento moderno.
La transizione ai tessuti della città moderna avviene dunque attraverso un organico processo di aggregazione delle unità di schiera iniziato nei quartieri romani più antichi di Trastevere, Ponte, Colonna, dove è ancora riconoscibile, attraverso la trasformazione e unificazione delle facciate, traccia indelebile di continuità, la permanenza delle coppie di bucature trasmessa dalle unità monofamiliari, fino ad arrivare alla parete ritmica delle case in linea della prima metà del ‘900, dove sopravvivono le regole compositive dell’edilizia specialistica ereditata.
Tipi edilizi e tessuti ancora capaci di indicare regole di formazione e trasformazione a tutt’ oggi operanti, la cui comprensione , sia detto per inciso, è indispensabile non solo e non tanto per gli interventi sul patrimonio storico, quanto per la costruzione, una volta riconosciute le innovazioni e gli aggiornamenti pertinenti alla fase storica che stiamo attraversando, di una nuova, possibile organicità della città futura.
Permane, in altre parole, nell’area romana, contrapposto al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina, sostituibili da prodotti più aggiornati il senso della durata dell’architettura,  nei due significati  : in senso storico, come individuazione di un processo di trasformazioni continuo (ereditato e trasmissibile); in senso fisico, come  resistenza alle aggressioni degli agenti atmosferici e del passaggio del tempo (l’edifico è rivestito completamente in solido travertino che nasconde e protegge la struttura in calcestruzzo).
Durata contrapposta al rapido consumo previsto per le costruzioni dell’età della macchina. Si pensi, per capire la specificità di caratteri nell’architettura romana del periodo, che venivano costruiti in Olanda, negli stessi anni , ad esempio,  progetti di architetti come  Duiker o Brinkman, dove il riferimento alla macchina era evidente attraverso l’uso di tecnologie metalliche spesso imitative di quelle meccaniche, in particolare navali.

Jacques Herzog e Pierre de Meuron, cantine Dominus, Napa Valley, California, 1996-98

Jacques Herzog e Pierre de Meuron. Villa a Tavole, Imperia, 1983