Les architectes travaillent pour une autre planète?

  

         

 

 

Les architectes travaillent pour une autre planète?*

                                                                     Editoriale U+D  5/6

di Giuseppe Strappa

Si arriva alla Città della Cultura di Santiago de Compostela attraverso una via dalla sezione grande quanto quella di un’autostrada, percorrendo un’ampia curva intorno alla collina di Monte Gaiàs finché appaiono in lontananza, dietro un gigantesco parcheggio, le nuove opere disegnate da Peter Eisenman.
Le notissime griglie digitali del progetto, in attesa nella memoria, si sovrappongono inevitabilmente alle forme reali, come se comparissero veramente sulla retina, e riportano le cose, per un attimo, a figure note.
Ma quando ci si avvicina, le costruzioni mostrano un aspetto inatteso, un’anticittà che si presenta, davvero, come il negativo della vicina città storica. Non, tuttavia, per l’overlapping geometrico previsto dall’architetto, dove il pattern delle vecchie strade di Santiago si sarebbe dovuto sovrapporre a quello del luogo e ad un reticolo cartesiano ordinatore. Per un motivo molto diverso: dove nel vecchio centro tutto è cordiale e rassicurante, tra quinte di pietra solidamente serene e piazze solari, su questa collina tutto sembra provvisorio, come sull’orlo di una catastrofe, o dopo un’eruzione, o un sisma che ha deformato le costruzioni e distorto il suolo. In una forma maestosa e senza misura, peraltro, che non ha nulla dell’esattezza del progetto iniziale e sembra attingere ad uno splendore silenzioso e remoto, di rovine antiche.
E in rovina sembra pure il cantiere abbandonato del Palazzo della Musica.
L’ architetto newyorkese ci ha regalato uno spettacolo sontuoso e terribile. Vengono alla mente gli spaccati assonometrici eseguiti da Joseph Gandy per la Bank of England di Soane che sembrano alludere a una costruzione in disfacimento,
E vengono alla mente gli spazi dilatati del parlamento di Chandigar, dove l’essere umano si fa minuscolo e si perde tra le ombre dei grandi volumi sotto la luce.
Ma bisogna fare il grande sforzo di tornare alla ragione, di staccarsi dall’eterna malia del romanticismo in agguato: non siamo nelle capitali del Punjab; non c’è, qui, alcun orgoglio nazionale da esprimere con la retorica dell’architettura. Sotto di noi, a tre chilometri di distanza, sebbene l’architetto l’abbia nascosto alla vista, c’è un piccolo nucleo di poche migliaia di abitanti dove si custodiscono i resti dell’apostolo Santiago, Sant Jago, San Giacomo: uno dei centri della cristianità, meta di ferventi viaggi spirituali che alimentano, anche, un lucroso turismo religioso.
Bisogna resistere al fascino decadente delle rovine (e all’aura che certamente il nome dell’autore conferisce loro) per andare alla sostanza delle cose. Le quali hanno anche un loro valore indipendente dai processi che li generano.
Se si ascoltano gli architetti del luogo e si fanno due rapidi conti, si scopre la vera dimensione del dramma collettivo di una città che ha creduto nel potere salvifico dell’architettura e si ritrova, ora, di fronte a problemi più grandi di lei. Più grandi finanziariamente, con il costo delle opere quadruplicato negli anni e del tutto sproporzionato rispetto ad una popolazione che non arriva, nell’intera Galizia, a tre milioni; più grandi fisicamente, con un centro culturale più esteso dello stesso centro storico; più grandi dal punto di vista gestionale, con la nuova struttura che divora tutte le risorse disponibili togliendole alle istituzioni culturali cittadine, compreso il Centro di Arte Contemporanea costruito da Alvaro Siza, pienamente inserito, fino ad ora, nella vita della città.
Progettato in un periodo di crescita economica e nel clima di competizione tra municipalità che ha portato al rinnovamento di molte città spagnole, la Città della Cultura è il prodotto ritardatario di un “effetto Bilbao” sviluppatosi in un contesto storico e culturale del tutto diverso.
E anche quando era ormai evidente che questo intervento faraonico (il cantiere più grande della Spagna) con il deterioramento delle condizioni economiche e una disoccupazione al 20%, sarebbe stato anacronistico, l’ex ministro franchista Manuel Farga, presidente della Regione galiziana, poi spalleggiato dal suo successore, Alberto Núñez Feijóo dello stesso Partito Popolare, lo ha strenuamente voluto per lasciare il proprio segno prima di lasciare la politica. Aveva convinto, Farga, i propri concittadini dell’idea che un complesso culturale di scala planetaria, come il Museo di Arte Moderna di New York, come l’Opera House di Sidney, potesse planare sulle colline della Galizia a portare progresso e modernità. Ora ci si rende conto della dimensione del problema e i lavori sono quasi fermi, ma è troppo tardi per tornare indietro e le strutture già costruite, deserte di visitatori, vanno comunque alimentate con iniziative costosissime.
Così, sulla collina di Monte Gaiàs, il mondo apparentemente nuovo di intersezioni, attraversamenti, sovrapposizioni, deformazioni del progetto generato da una logica digitale dove la geometria sembra controllare tutto, si scontra con la realtà e mostra per intero le proprie radici ancora Beaux-Arts sviluppate, tuttavia, all’estremo, fino all’astrazione che libera dal contingente.
E vacilla la cortina mediatica stesa a protezione di quest’opera celebre per il procedimento d’invenzione che impiega. Sarà poi vero che i percorsi sono traducibili in layer immateriali e che i layer sono sovrapponibili tra loro e che questa sovrapposizione genera il progetto e che questo si fa, infine, costruzione? Secondo un metodo indimostrabile. Che, anzi, non ha bisogno di dimostrazioni e verifiche.
Non esiste una verità del percorso?
Non sarà che il re è nudo e che, semplicemente, il percorso è un percorso, serve a spostarsi, andare a prendere il giornale o, anche, a permettere alle case di aggregarsi tra loro, a formare tessuti e città?
O, per dirla tutta, che la forma è quello che percepiamo di una struttura: l’esito di un processo, non l’origine?
Come sarebbe semplice il mestiere di architetto, d’altra parte, se la realtà costruita fosse veramente una trascrizione, se il progetto si potesse fermare alla soglia del verosimile senza sporcarsi con calce e cemento, pietre e mattoni!
L’esattezza troppo rassicurante delle sofisticate geometrie del progettista ha in realtà generato, è evidente, spazi incontrollabili e incontrollati, a volte di grande suggestione come alcuni porticati, altre di desolante banalità, come l’onda che sale dalla piazza centrale.
Se si entra nella biblioteca, silenziosa e semivuota, si rimane colpiti dagli spazi piranesiani che si dilatano, avvolti da una luce rarefatta, verso l’altissima copertura. Ma la mia gentile accompagnatrice mi avverte che, al di sopra, ci sono ancora altri diciotto metri di inutile vuoto prima di arrivare alla vera conclusione dell’involucro. E mi mostra anche i restauri che si stanno già conducendo sulle opere ancora non terminate (la geometria ha trovato una faticosa strada per farsi realtà, ma a quale prezzo).
L’architetto è stato qui un abilissimo protagonista: esorcista e demiurgo, mediatore e avvocato di se stesso, capace di ammaliare le commissioni di controllo sostenendo i diritti dell’arte e della sua missione di maestro.
Ma se chiedete del Centro de Cultura a un galiziano, gente cordiale che prende le cose senza troppi drammi, lo vedrete rabbuiarsi, come se si trattasse di un malessere di cui non si parla volentieri. Vi racconterà delle infinite polemiche che per anni hanno occupato e occupano le pagine dei loro giornali, con accuse feroci di incompetenza e articoli di sostegno che, al contrario, collocano l’autore dell’opera tra i geni di tutti i tempi, insieme a Michelangelo e Bernini, insieme a Wright. E vi parlerà della rabbia degli abitanti.
Certo, nonostante le pessimistiche previsioni, la nuova Città della Cultura potrebbe forse ancora trovare una sua strada, lo speriamo tutti, per sopravvivere. Ma rimane l’interrogativo sul senso dell’intera operazione, esemplare, sotto molti punti di vista, del ruolo dell’architetto nel ciclo produttivo contemporaneo. Ruolo che sembra appartenere ad un mondo ottocentesco, alla separazione dei saperi e delle tecniche, dove l’arte si isola dalla vita reale e l’architetto sembra ancora, come avvertiva Le Corbusier, “lavorare per un altro pianeta”.

*Le Corbusier, Vers une Architecture.

isuf 2017-VALENCIA 26/30 SEPTEMBER

                              http://valencia2017isufh.com/

 

CITY AND TERRITORY IN THE GLOBALIZATION AGE

VALENCIA 26/30 SEPTEMBER

 

XXIV ISUF Conference in Valencia marks as its objective the updating of studies in urban morphology and urban and territorial planning on a two-fold global concern, environmental sustainability and social and urban inequality, concern to be focused on the development of new analytical techniques. First concern, environmental sustainability, is addressed in Topics nº 1 “Stages in territorial configuration”, nº 4, “Efficient use of resources for a sustainable city”, nº 5 “Transforming the existing city”, and nº 8, “Urban green space”. Second concern, social and urban inequality, is addressed in Topics nº2 “Urban form and social use of space” and nº3, “Reading and regenerating the informal city”. The emphasis in new analytical methods is addressed in Topics nº6 “Cartography and Big Data” and nº7, “Tools for analysis in urban morphology”.

 

CONFERENCE CHAIR

Vicente Colomer, Universitat Politècnica de València. Spain

SCIENTIFIC COMMITTEE

Adolfo Vigil, Universitat Politècnica de València. Spain
Agustín Hernández, Universidad Politécnica  Madrid. Spain
Anna AgataKantarek, Kracow University of Tecnology. Poland
Ana Portalés, Universitat Politècnica de València. Spain
Ángel Martín, Universitat Politècnica de Barcelona. Spain
Ángel Martínez, Universitat Politècnica de València. Spain
Antonio Font, Universitat Politècnica de Barcelona. Spain

Asenet Sosa, Universitat Politècnica de València. Spain
Begoña Serrano, Universitat Politècnica de València. Spain
Borja Ruiz-Apilánez, Universidad de Castilla La Mancha. Spain

Brenda Case Scheer, University of Utha. USA
Carla Filipe, UNAM. Mexico
Carmen Blasco, Universitat Politècnica de València. Spain
Carmen Jorda, Universitat Politècnica de València. Spain
César D. Mifsut, Universitat Politècnica de València. Spain
David Urios, Universitat Politècnica de València. Spain
Diego ÁngelVegara, Universidad de Guadalajara. México
Ding Wowo, University of Nanjing. China
Eloy Solís, Universidad de Castilla La Mancha. Spain
Enrique Giménez, Universitat Politècnica de València. Spain
Fernando Gaja, Universitat Politècnica de València. Spain
Francisco Javier Monclús, Universidad de Zaragoza. Spain
Giancarlo Cataldi, Universita degli estudi. Firenze. Italy
Giuseppe Strappa, “La Sapienza” University of Rome. Italy
Gonzalo Vicente-Almazan, Universitat Politècnica de València. Spain
Horacio Capel, Universitat de Barcelona. Spain
Ignacio Bosch, Universitat Politècnica de València. Spain

Ivor Samuels, University of Birmingham. U.K.
Javier Cenicacelaya, Universidad del País Vasco. Spain
Javier Pérez Igualada, Universitat Politècnica de València. Spain
Javier Poyatos, Universitat Politècnica de València. Spain
Javier Ruiz, Universidad Politécnica de Madrid. Spain
Jeremy Whitehand, University of Birmingham. U.K.
Jesús Leal, “Complutense” Universidad de Madrid. Spain
Joaquin Sabaté, Universitat Politècnica de Barcelona. Spain
Jorge Iribarne, Universidad de Buenos Aires. Árgentina
Jorge Torres, Universitat Politècnica de València. Spain
José FariñaTojo, Universidad Politécnica de Madrid. Spain
José Luis Miralles, Universitat Politècnica de València. Spain
José María De Lapuerta, Universidad Politécnica de Madrid. Spain
José María De Ureña, Universidad de Castilla La Mancha. Spain
José María Ezquiaga, Universidad Politécnica de Madrid. Spain
Jose María Lozano, Universitat Politècnica de València. Spain

Juan Cano, Universitat Politècnica de València. Spain
Juan Colomer, Universitat Politècnica de València. Spain
Juan Luis de las Rivas, Universidad de Valladolid. Spain

Julia Deltoro, Universitat Politècnica de València. Spain

Iván Cabrera, Universitat Politècnica de València. Spain
Kai Gu, University of Aukland. New Zealand
Laura Lizondo, Universitat Politècnica de València. Spain
Luis Alonso De Armiño, Universitat Politècnica de València. Spain
Maretto Marco, Universitá degli Estudi di Parma. Italy
Margarita Green, Universidad de Santiago. Chile
María Del Carmen Mota, Universidad de Castilla La Mancha. Spain
María Dolores Aguilar, Universitat Politècnica de València. Spain
María Teresa Palomares, Universitat Politècnica de València. Spain
Matilde Alonso, Universitat Politècnica de València. Spain
McClure Wendy, University of Idaho. USA
Michael Barke, University of Northumbria. U.K.
Michael Conzen, University of Chicago. USA
Miguel Camino, Universidad de Manta. Ecuador
Nuria Salvador, Universitat Politècnica de València. Spain
Pablo Martí, Universitat Politècnica de València. Spain
Paolo Carlotti, “La Sapienza” University of Rome. Italy

Pilar Insausti, Universitat Politècnica de València. Spain
Rafael Temes, Universitat Politècnica de València. Spain
Teresa Marat-Mendes, Instituto Universitário de Lisboa. Portugal
Vicente Colomer, Universitat Politècnica de València. Spain
Vicente Manuel Vidal, Universitat Politècnica de València. Spain
Vicente Mas, Universitat Politècnica de València. Spain
Vitor Oliveira, Universidade do Porto. Portugal

 

 

 

Leggere la periferia con occhi nuovi

LEGGERE LA PERIFERIA CON OCCHI NUOVI
Giuseppe Strappa

Il problema dello studio della nostra periferia, di una città moderna che si è sviluppata in modo contraddittorio nel territorio di confine tra tessuti consolidati e campagna, è quello di leggere un’edilizia nuova sulla quale, al confronto con la bellezza e l’autorità riconosciuta al centro antico, si è consolidato un giudizio sbrigativo di città instabile e vaga, non legittimata dalla storia: senza struttura.
Le tante letture che si sono succedute, dal neorealismo in poi, nella letteratura, nel cinema, nell’architettura, non hanno fatto che rafforzare l’immagine di un indefinito mondo di confine, a volte estremo, trasformando la realtà di quartieri, insediamenti abusivi, intensivi abitativi pubblici o di speculazione, in luoghi della mente tanto verosimili e consolidati da essere accettati come verità: dalla disperazione delle case popolari di Val Melaina in Ladri di biciclette, alla speranza delusa delle abitazioni del Quadraro di Mamma Roma, ai fondali urbani dei drammi di Rossellini, De Sica, Antonioni, Monicelli, Zampa, Pasolini. L’ultimo brandello di ordine cui aggrapparsi prima del naufragio nei casermoni disordinati, sembrava costituito, curiosamente, dalla rigidità del Quartiere Don Bosco, nella versione metafisica che ne ha dato di Fellini o in quella ironica e malinconica di Dino Risi. Oltre questa soglia, astratta e simbolica, si stendeva un territorio di conflitto senza monumenti e senza memoria, che si alimentava di infiniti segni e permetteva infiniti codici.
Una città strabica, peraltro, che ha sperimentato il mito populista della crescita per quartieri indipendenti proprio nel momento di transizione della città da capitale di stampo ancora ottocentesco verso un incerto futuro di metropoli. Che ha continuato a proporre, con i “comparti” del piano del ’62, una crescita per brani isolati in un verde fragile, virtuale, trasformato presto nei prati desolati cui è legata l’immagine letteraria della periferia romana, e saturato poi, a ondate dalle successive, da caotiche espansioni di frettolosa edilizia privata, epilogo inevitabile e provvisorio di un naufragio amministrativo ancora in corso.
Non è stato deliberatamente riconosciuto alla periferia romana quel valore culturale che pure doveva essere evidente, né individuato alcun processo formativo che ne spiegasse ragioni e vocazioni. Eppure la forma del suolo strutturata da lievi crinali già in parte abitati, separati da compluvi dove scorrevano le marrane, ha costituito il riferimento alla struttura di percorsi e perfino alla costruzione dei primi tessuti di speculazione o abusivi degli anni ’50, in un inconscio rispetto di un territorio storico ancora operante. Per questo la sua struttura è stata volutamente ignorata: perché una città senza forma sembrava aprirsi a qualsiasi possibilità e, dunque, a qualsiasi forma, anche alla più apparentemente improvvisata. La colpa è stata attribuita soprattutto alla brutalità degli interventi privati, ai “palazzinari” senza scrupolo. Anche se, credo, qualche responsabilità, seppure marginale, abbiano avuto alcuni interventi “informali” di illustri architetti che, nelle espansioni originate dalla legge 167 del ’62, hanno indicato la strada di un ordine astratto e individualistico di parti isolate di città a fronte di un disordine generale del territorio. Esattamente il contrario di quello che sarebbe servito.
D’altra parte il fallimento del progetto per il Sistema Direzionale Orientale, che avrebbe dovuto organizzare, con i quaranta milioni di metri cubi previsti, l’intera struttura urbana di un’area immensa comprendente Pietralata, il Tiburtino, il Casilino e Centocelle, è stata l’espressione plastica dell’impotenza della politica di fronte ai problemi reali.
La periferia romana sembrava condannata a incarnare l’essenza pittoresca della modernità urbana. Una modernità che ha avuto i suoi cantori, che interpretavano la frammentazione e il disordine urbano come germe di figure in continua rigenerazione. Col risultato concreto di legittimare, in qualche modo, la disinvoltura con la quale ancora oggi si procede per parti o, meglio, per spartizioni, attraverso insediamenti autonomi e tuttavia, non autosufficienti, incapaci di comporsi a formare una vera metropoli. Schegge che si vanno ormai saldando o meglio giustapponendo senza che nessuna struttura razionale, tra polarità immaginarie e centralità rimaste sulla carta, le possa realmente integrare. Le proposte di questi giorni per il nuovo stadio di calcio, contro la stessa cultura contemporanea delle città europee, prevedono strutture autonome d’iniziativa privata: migliaia di metri cubi di nuove abitazioni isolate intorno a un centro vuoto, una struttura separata e monofunzionale. E’ la vittoria del contingente e del casuale, della trattativa tra politica e promoter.
Un dato è evidente dalla constatazione del fallimento del piano del ’90: il “generoso” dimensionamento dell’edilizia privata ha portato a due esiti ugualmente disastrosi.
Da una parte la dilatazione delle quantità realizzabili ha indotto a un notevole abbassamento, oltre che della dotazione di servizi, anche privati, della qualità edilizia dei nuovi quartieri, costruiti con un cinismo sconosciuto perfino agli interventi speculativi dei decenni del dopoguerra; dall’altra il numero elevatissimo delle unità immobiliari immesse sul mercato ha comportato il netto prevalere dell’offerta sulla domanda senza peraltro produrre, com’è avvenuto in altre parti del mondo, una significativa riduzione dei prezzi di vendita. Si ripropone, in altre parole, quel vistoso e devastante fenomeno di rendita di posizione contro cui per decenni si è scagliata la parte più impegnata della cultura architettonica romana ma che ora sembra accettato come inevitabile portato dei tempi. Basta osservare le recenti espansioni di edilizia privata, ormai unica forma di costruzione abitativa, che hanno invaso le aree libere lungo le consolari, per rendersi conto di come i tipi edilizi impiegati siano sostanzialmente gli stessi di quelli degli anni ’80, ma dilatati in altezza e profondità, “gonfiati” dalla labilità delle regole e dalla mancanza di una qualsiasi idea di città. Ritornano perfino gli stessi dettagli, gli stessi balconi, le stesse facciate dove le aperture si affollano banalmente secondo un elenco ignaro di ogni regola, interrotte a volte, senza pudore, da qualche patetico tentativo di “ravvivare” la composizione con improbabili partiti diagonali.
Questo quadro desolante dà conto di una condizione, ma esprime anche, credo, l’urgenza del cambiamento. Istanza particolarmente avvertita da un gruppo di docenti e dottorandi del nostro dottorato Draco in Architettura e Costruzione i quali hanno studiato la possibilità di riconoscere aspetti progressivi in alcuni quartieri della periferia romana costruiti con finanziamenti privati. Quartieri, cioè, realizzati da una categoria imprenditoriale storicamente considerata tra le più arretrate e voraci della Capitale, che ha invece messo in campo, nei casi di studio esaminati, insospettate capacità di scelta e anche, in alcuni casi, di vera ricerca. E’ un dato tanto più rilevante perché riconosciuto in un momento della crescita urbana nel quale la mano pubblica sembra del tutto latitante, avendo da tempo rinunciato a fornire qualsiasi contributo alla qualità della produzione edilizia. E, d’altra parte, assegnando un compito di mediazione alle procedure di progettazione, la politica non ha mai dato troppo peso al ruolo propositivo e innovatore che l’architettura potrebbe svolgere nel ricomporre i pezzi dispersi delle periferie.
I testi che seguono spiegano ampiamente le ragioni scientifiche di questa nuova attenzione per la “città privata” che ha coinvolto criticamente anche la disciplina dell’estimo, spesso confinata, in ricerche come questa, in un ambito di competenze isolato dai problemi dell’architettura della città.
Vorrei però rilevare l’ottimismo con il quale questi docenti e giovani ricercatori hanno guardato a un passato recente nel quale sembrava difficile leggere segnali positivi. Leggendo da progettisti e oltre i luoghi comuni, com’è giusto che sia, anche nel desolato banale quotidiano i segni di un possibile cambiamento.