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Matteo Ieva – MORFOLOGIA URBANA E LINGUAGGIO NELL’OPERA DI GIANFRANCO CANIGGIA
Lettura e Progetto – Nuova serie di Architettura
FRANCOANGELI. MILANO . 2020
PRESENTAZIONE
di GIUSEPPE STRAPPA
Questo libro di Matteo Ieva, che attendevamo da tempo, è il risultato di un lungo lavoro di analisi e verifica condotto presso il Politecnico di Bari, per molti anni, con la passione, ma anche con l’attenzione critica, dovuta al proprio maestro. E’, sotto molti aspetti, un testo non facile per le tante interpretazioni legate ad ambiti disciplinari che si sovrappongono a quello strettamente morfologico e che aprono nuove prospettive di ricerca. E’ anche un testo poliedrico, che indaga la materia di studio mettendo al centro, di volta in volta, temi che sembravano ormai scontati e che riemergono invece in tutta la loro sorprendete attualità: la nozione di organismo e quella complementare di tipo; il problema della lettura della realtà costruita e la sua coincidenza col progetto; la questione della lingua come uso condiviso di un parlato quotidiano, e di un’ espressione “alta” quale portato dell’edilizia speciale. Temi che aprono, a loro volta, insiemi di problemi complessi. Il lettore avrà modo, leggendo il testo, di apprezzare quanto l’autore abbia affrontato questa materia con competenza e strumenti nuovi.
Vorrei qui accennare a due possibili, complementari chiavi di lettura del suo lavoro.
La prima è di carattere, direi, ontologico. Riguarda la necessità dell’uomo di ordinare il mondo attraverso la forma. Senza mai esplicitarlo direttamente, il testo mette in luce la capacità del metodo caniggiano di indagare la realtà costruita attraverso insiemi finiti, unità che si aggregano e dequantificano mantenendo la propria individualità. Nella lettura come nel progetto, Caniggia ha indagato la capacità di dare un limite alle cose: il senso del confine caniggiano, scrive l’autore, permette di delimitare gli spazi in modo tale che “le parti, in esso correlate, acquisiscano una specifica finitezza proprio attraverso il reciproco rapporto”.
Mi sembra, questo, un aspetto del tutto attuale del testo, proprio perché controcorrente rispetto dibattito contemporaneo sugli strumenti disciplinari. La crisi della nozione di limite ha origine, in realtà, già dai principi formali dell’architettura moderna, tanto alla scala edilizia (la negazione dell’idea di facciata, la ricercata simbiosi tra spazio esterno ed interno ecc.) quanto a quella di organismo urbano (l’idea di crescita per assemblaggi, lo zoning funzionale ecc.). È stata, questa, una delle grandi perdite dell’architettura moderna, le cui conseguenze sono ancora evidenti: senza la nozione di limite non si dà nemmeno quella di organismo, perché la capacità di dare un confine permette di dare forma leggibile alle cose. Noi percepiamo il mondo costruito attraverso i suoi limiti: le superfici, i confini, le soglie, l’aspetto visibile attraverso cui diamo ordine all’ indistinto, lo comprendiamo, ne individuiamo attraverso lo studio la struttura nascosta. La stessa nozione di territorio non avrebbe senso senza di essa, a partire dal mondo antico, perimetrato dal limes, dal vallo che distingue e individua.
Tutta la ricerca progettuale di Caniggia è rivolta all’ urgenza di proporre questo problema e occorre tenerne conto nel seguire le riflessioni di Ieva.
La seconda chiave di lettura che ritengo importante è l’anti-individualismo del pensiero caniggiano: la sottomissione delle pulsioni personali alla legge generale che dà senso alle cose e senza la quale tutto diviene frammento, parte di un insieme di cui si è smarrita l’unità. La grande lezione di Caniggia è stata rivolta a questo sforzo di individuare le regole, profonde e in continuo mutamento, che permettono la lettura ordinata della realtà oltre la percezione individuale, che consentono di leggere concretamente il costruito e progettarlo con una stessa logica sintetica, condivisa e trasmissibile.
Questo spiega, per entrare nel merito diretto di una parte importante dei contenuti del libro, perché i disegni di Caniggia siano così poco accattivanti. L’estrema brevitas, l’assenza di ogni aggettivazione individuale e di qualsiasi indulgenza al dettaglio personale, permette di mettere a nudo un sorprendente rigore, consentendo di scoprire un mondo ancora ignoto agli architetti, dove la forma è l’oggetto condiviso di una scienza nuova e torna ad essere l’aspetto riconoscibile di una struttura anche quando, come nota l’autore, le cose sono molto complesse e il visibile è solo traccia di una verità. L’interesse si rivolge, dunque, alla struttura stessa del costruito (a quello che non vediamo ma conosciamo attraverso lo studio della forma) ai suoi processi formativi, che diventano la sostanza stessa, ineludibile, dell’architettura.
Ogni elemento non necessario diviene, per Caniggia, ostacolo alla comprensione, ogni aggiunta all’essenza delle cose oscura pericolosamente l’evidenza della verità. Questi disegni, che l’autore aveva voluto scarni, essenziali, apparentemente lontani da ogni emozione, finiscono per comunicare invece una sorta fascino iniziatico, una poesia dell’ascesi. Come la regola di un francescano che eliminando religiosamente il superfluo, permette di vedere in ogni cosa la mano di Dio e la sua saggia bellezza.
Credo sia interessante notare come nel proprio lavoro Ieva ricostruisca i progetti caniggiani con lo stesso spirito, con la stessa rigorosa, castigata asciuttezza, con cui il maestro avrebbe rappresentato i suoi progetti nell’età del disegno digitale.
É evidente, nei disegni di Caniggia, il tentativo di ricondurre la complessità del mondo costruito ad unità.
Il che comporta, per chi voglia oggi rappresentare i suoi progetti in modo compiuto, un notevole sforzo interpretativo. Occorre, infatti, seguire il filo rosso dell’insegnamento caniggiano per riempire lacune, disegnare parti appena accennate nei disegni originali, ricostruire facciate mancanti. Con una tecnica computerizzata, peraltro, che non consente approssimazioni o deroghe. E forse, come nella linguistica, il traduttore-interprete, per fare bene il proprio lavoro, deve anche avere una buona dose di credenze logiche e ontologiche affini al parlante.
Il lavoro di Ieva non è stato, dunque, semplicemente la restituzione in 3D di un corpus di disegni di grande valore scientifico e didattico. Si tratta, piuttosto, di un poderoso lavoro ermeneutico, un’opera dimostrativa di “riprogettazione” non molto diversa da quella che il maestro proponeva ai suoi studenti. È stato necessario ripercorrere, secondo il metodo caniggiano, appunto, i processi che hanno generato le forme, riapplicare le leggi di aggregazione degli elementi, la formazione di strutture e sistemi. Quelli qui pubblicati potrebbero essere definiti disegni “complementari” che concludono un processo per certi versi rimasto aperto. Sono, in qualche modo, essi stessi, non solo esegesi del testo, ma, soprattutto, progetti che propongono un modo nuovo di vedere gli esiti concreti del metodo.
D’altra parte, Caniggia stesso ripeteva che chi volesse continuare la sua ricerca, dovrebbe rinnovarla di continuo, “aggiornala” come diceva, ai tempi che cambiano. Il suo poco conosciuto ultimo progetto per l’ampliamento della Facoltà di Architettura di Roma, a Valle Giulia, pubblicato nelle pagine che seguono, è peraltro un testo non finito, insolito e apparentemente contraddittorio, dove compaiono elementi del tutto inediti quali la pianta triangolare o il pieno in asse proposto in alcune varianti (che non si spiegano, come scrive l’autore, con l’adesione alla forma del suolo e nemmeno con la soluzione di problemi distributivi). Un’eredità enigmatica che sembra non voler lasciare certezze, ma proporre nuovi quesiti.
Credo questo sforzo di restituzione critica del corpus dei disegni caniggiani, dimostri come Ieva sia uno dei rarissimi studiosi che perseguono davvero un rinnovamento del pensiero del maestro attraverso una ricerca originale e, dato fondamentale, non solo teorica. I suoi progetti, che raramente pubblica, secondo una tradizione di riservatezza ereditata dal maestro, hanno apparentemente poco a che fare con la produzione caniggiana, così come Caniggia, peraltro, non ha mai imitato Muratori. È evidente, tuttavia, la presenza di regole comuni, riportate in modo innovativo alle condizioni contemporanee, come un sostrato geologico di principi condivisi che spiegano gli esiti visibili in superficie e danno loro senso. Queste regole producono non solo la struttura profonda degli organismi, ma propiziano una sintesi estetica che pone le questioni della lingua e dei linguaggi, dell’impiego della parole, di un codice condiviso contro l’uso individualistico dell’espressione architettonica. Il che, in un periodo di crisi e di crollo dei codici, come quello che stiamo attraversando, è un problema forse irresolubile. Ma è giusto, ritengo, che si cerchi una strada, si indichi una scelta di campo e di metodo che darà i suoi frutti nel futuro.
Rimane il fatto che la consuetudine dell’autore con il metodo di Caniggia, con i problemi dell’applicazione concreta dei suoi insegnamenti alla luce di contesti nuovi, ha costituito la condizione per scrivere un testo che certamente rappresenta un passo in avanti nella conoscenza di una scuola di pensiero che non ha avuto in Italia buona fortuna, ma che desta crescente interesse all’estero. Proprio per questo mi permetto di suggerire all’autore, per concludere, di considerare la possibilità di un’edizione in lingua inglese della sua opera. Questo consiglio è basato sulla mia esperienza con i corsi di Urban Morphology impartiti in lingua inglese presso l’Università Sapienza di Roma, attraverso i quali mi sono reso conto dell’interesse, e anche della sorpresa, con cui studenti di diversa provenienza culturale si affacciavano a un mondo di studi progettuali basati su principi razionali e trasmissibili, all’idea, per loro nuovissima, di forma come esito di processi in atto. Principi analoghi a quelli che, appunto, Matteo Ieva espone qui con esemplare chiarezza.
“Il Covid 19 ci ha fatto riscoprire la casa”
“Il Covid 19 ci ha fatto riscoprire la casa”
intervista di Pietro Pagliarella
link: Intervista Pagliarella Covid 19
Architettura nella fase 2
Le città dal volto umano: un’architettura “per tutti” nella fase 2
intervista di Valerio Lento
Il Covid-19 ha cambiato abitudini e stili di vita di ognuno di noi, e adesso urge un ripensamento degli spazi urbani, sociali e domestici in vista della convivenza con il virus. La parola agli architetti
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«L’eccesso è sempre portatore di conoscenza. La crisi pandemica è stata una tragedia, ma ci ha offerto un’opportunità irripetibile: poter vedere con i nostri occhi le grandi città libere dal traffico, dallo smog e dal turismo di massa, che molti considerano una risorsa ma che è fonte di seri problemi ambientali e sociali. Guardando il lato positivo, potremmo dire che la quarantena è stata un laboratorio per una concezione futura della città, per un cambiamento antropologico nel modo di percepirla».
Le considerazioni dell’architetto Giuseppe Strappa, docente all’Università La Sapienza di Roma, prefigurano un immediato futuro ancora ben saldo entro le invisibili mura delle nostre città: nessuna fuga in campagna, dunque, ma un ripensamento necessario degli spazi e degli stili di vita cittadini. Idea condivisa dal professor Antonello Stella, anch’egli docente di Progettazione all’Università degli Studi di Ferrara: «Trovo che ci sia molta retorica in questo momento da parte di illustri colleghi. Parlare di ripopolamento delle campagne, come anche di ridimensionare il trasporto pubblico nelle metropoli, non è realistico, e non è giustificabile addurre come scusa l’intento di voler scoraggiare i contagi. Ho sentito paventare ipotesi come questa, ma vi immaginate cosa vorrebbe dire per una città come Roma, che ha già un sistema di trasporto pubblico deficitario, ridurre ancora di più le corse dei mezzi? No, la Storia ci insegna che la soluzione non è mai quella di arretrare di fronte alle crisi. Le città metabolizzeranno una nuova normalità che sarà frutto dell‘emergenza vissuta, e per fare questo occorrerà concentrarsi su problemi concreti: uno su tutti, quello di investire in modo massiccio e a livello strutturale nell’impianto sanitario e nelle strutture ospedaliere, che si sono dimostrate inadeguate ad arginare la pandemia. Questa è una responsabilità di architetti, ingegneri ma soprattutto è una responsabilità politica».
La riflessione del professor Stella poggia su esempi concreti: «In ambito sanitario, sarebbe opportuno progettare una rete di accoglienza e di soccorso composta da strutture temporanee ma a carattere permanente, cioè pensate e progettate per far fronte a situazioni straordinarie e a casi di emergenza ma sempre pronte all’uso. Altrettanto importante sarà decidere come riorganizzare a livello di spazio e di strutture le residenze sanitarie assistenziali (RSA), che in questa triste vicenda sono diventate dei veri e propri focolai dell’epidemia. Quello che conta adesso è andare al cuore del problema, non vagheggiare prospettive di idilli bucolici che alla fine sono solo appannaggio di un’élite».
La polemica, che vede entrambi i professori concordi, si scaglia contro la cosiddetta “architettura del lusso”, costosa e quindi riservata a un pubblico ristretto: «oggi non abbiamo bisogno di un “Bosco verticale” (due palazzi residenziali a torre progettati dallo Studio Boeri nel Centro direzionale di Milano) accessibile soltanto a super ricchi – asserisce amareggiato il professor Stella – e non abbiamo bisogno di un’architettura fatta di spot pubblicitari, che ci propone un’idea sublimata di modello di sviluppo sostenibile, che poi il cittadino comune non può permettersi. È una proposta capitalista che mira a un grande ritorno economico e a un fin troppo modesto miglioramento della vita». Per il professor Strappa vi è l’esigenza di pensare ad un’architettura «non povera, ma parsimoniosa, fruibile dall’uomo comune e consapevole della limitatezza delle risorse disponibili. La strada della sostenibilità ambientale è l’unica via percorribile ormai, anche perché l’inquinamento agevola la diffusione del virus, ma servono progetti per tutti, non per pochi».
Parte integrante delle città sono le case dei cittadini, passate in breve tempo da zone franche e luoghi di ristoro dal frenetico andirivieni giornaliero, a centro nevralgico di tutti gli affari, privati e professionali: «In questi due mesi di quarantena abbiamo riscoperto la concezione antica e medievale di casa-bottega – spiega il professor Strappa – quando l’abitazione era suddivisa in due aree: una destinata alle pubbliche funzioni a contatto con la strada e un’altra, generalmente collocata al piano superiore, adibita a dimora privata. Nel mondo antico la casa era un luogo di aggregazione sociale e la netta distinzione fisica tra dimensione personale e pubblica non era concepita. È incredibile averla riscoperta oggi, in un’epoca di massima contrapposizione. I risultati a mio parere sono stati apprezzabili: in passato criticavo lo smart working perché ritenevo che togliesse all’individuo la propria socialità quotidiana. Ora mi sono reso conto che apre delle possibilità interessanti per il futuro: penso che potrebbe portare vantaggi da un punto di vista ambientale perché avrà l’effetto di decongestionare il traffico cittadino, ma credo che benefici si avranno anche sotto il profilo della vita civile, perché gli abitanti potranno condurre dei ritmi di vita meno convulsi e, proprio per il fatto di trascorrere molto tempo in casa, potrebbero essere maggiormente indotti a uscire e a condividere lo spazio urbano con una partecipazione più autentica e spontanea».
Dei benefici derivanti dal telelavoro è convinto anche il professor Stella, testimone di un cambiamento già in atto nel suo ateneo: «Questo metodo lavorativo ibrido, basato su una turnazione tra lavoro in ufficio e lavoro da casa, può davvero migliorare la qualità della vita di molte persone. Nella mia università ne siamo convinti al punto che per il prossimo anno accademico il rettore ha già annunciato l’implementazione di questo modello, garantendo quindi un sistema di istruzione quasi interamente telematico, che permetterà anche a studenti di altre parti d’Italia di poter seguire i corsi. Solo pochi mesi fa questo metodo era praticato dalle università telematiche, da tutti considerate atenei di “serie b” perché negavano allo studente un apprendimento diretto e, si presumeva, più interattivo. Ecco un’altra convinzione secolare travolta da pochi mesi di pandemia».
Del resto l’eccesso è sempre portatore di conoscenza.
SAVERIO MURATORI SULLA PALAZZINA FURMANIK
S.Muratori
UNA PALAZZINA IN ROMA SUL LUNGOTEVERE
in “Strutture” n°2, 1947